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sabato 13 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (59)]

Passaggi di paradigmi socioculturali dall’era industriale a quella post-industriale, o forse si tratterà di convivenza di paradigmi in onore al politeismo weberiano?
– da uno schema esplicativo lineare dei fenomeni a uno schema di rete complessa, e all’estremo perdita di centralità del concetto di causalità. Umberto Eco direbbe da una struttura ad albero porfiriano a una struttura enciclopedica per la definizione delle “ontologie” conoscitive. Quelli che si fanno prendere la mano dai mutamenti, solitamente i più entusiasti della de-generazione informatica, già parlano di logica circolare, e sebbene si tratti di una chimera molti sono convinti che la logica sia proprio così!
– dalla rasserenante fiducia nella stabilità alla inquietante certezza della variabilità, paradigma favorito o conseguente al riconoscimento dei limiti della crescita della produzione e della struttura asimmetrica tra le ‘aspirazioni’ degli uomini non sempre fondate sulle capacità della terra che li ospita;
– dalla cultura della precisione alla cultura del ‘pressappoco’. L’asse centrale dei valori si sposta, o ritorna, dalla quantità alla qualità, dalla razionalità all’emotività. Si spera non si tratti del ricorrente rigurgito di romanticismo desideroso del solito “qualcosa di più”;
– dal culturalismo monolitico al multiculturalismo. Ritengo il relativismo culturale una delle più importanti conquiste intellettuali del secolo scorso. Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni ‘intellettuali’ chiusi a riccio in analisi facili facili non impedisce l’identità ma è presupposto per riconoscere le identità, non è anticamera al ‘facciamo come ci pare’ ma negazione della one best way culturale. Come ci ha insegnato Isaiah Berlin, il riccio sa una cosa grande ma nell’attesa che ce la riveli speriamo non sia troppo chiedere l’abolizione della la caccia alle volpi.
– da un paradigma produttivo centrato sulla materialità ad uno prevalentemente immateriale. Daniel Bell, in The coming of post-industrial society, al terziario affianca il quaternario – sindacati, banche, assicurazioni - e il quinario – servizi per la salute, educazione, ricerca, tempo libero, pubblica amministrazione. Naturalmente la compartimentazione è assolutamente inesistente poiché i settori economici sfumano l’uno nell’altro ma con un po’ di fantasia e non poco sforzo potremmo vendere un chilo di pane e un corso di formazione di 200 ore full immersion per insegnare a mangiarlo.
– dalla centralità del lavoro si passa alla centralità del tempo libero, non-lavoro, otium; da homo faber a homo ludens. La disoccupazione non è vista più come problema sociale ma come annuncio della fine del lavoro, non decomposizione della vecchia organizzazione economica e sociale ma nascita di una nuova organizzazione. Generalmente il disoccupato, poco avvezzo con i discorsi degli intellettuali, non si accorge di tutto ciò e banalizza la questione deprimendosi e talvolta suicidandosi.
– dalla ovvietà della distribuzione della ricchezza in base al lavoro produttivo alla necessità di distribuire la ricchezza non più in base al lavoro produttivo, soprattutto se il lavoro serve solo a ingrossare le statistiche dell’occupazione. Bertrand de Jouvenel ci fa notare che mamme che si scambiano i rispettivi figli diventano baby-sitter e accrescono il PIL!
– dalla prevalenza di comportamenti competitivi (strategicamente efficaci in casi di sottoaffollamento?) alla necessità di comportamenti mutualistici (inevitabilmente fruttuosi in caso di sovraffollamento?).
– dal breve termine al lungo termine, ma sempre fermamente miopi.
– dalla ‘semplice’ contrapposizione di poche classi sociali (2 x Marx) i cui ogni soggetto sapeva riconoscersi al conflitto di molteplici modelli sociali in singoli individui.
– perdita di centralità di singoli settori produttivi (rete ecologica lineare e semplice) e dipendenza diffusa da molteplici settori (rete ecologica a reticolo e complessa).
– passaggio del ruolo egemonico dalla comunità caratterizzata da limiti circoscritti alla società globalizzata e successivo riconoscimento della centralità dell’individuo (dall’oggettivismo al soggettivismo).
– dai bisogni che precedono i beni ai beni che inducono bisogni (passaggio dalla scoperta all’invenzione di Zsuzsa Hegedus – Il presente è l’avvenire – Interessante la tesi di Agnes Heller sulla distinzione tra bisogni fondamentali o radicali di natura qualitativa e bisogni indotti o alienati di natura quantitativa – da questa distinzione deduco una forte asimmetria tra beni e bisogni, è sempre più evidente la creazione di beni per bisogni prematuri o immaturi per essere fruiti nella piena soddisfazione. Soddisfiamo embrioni di bisogni che non possiamo riconoscere nella loro forma definitiva.
– dal pensiero concettuale e astratto che caratterizzerebbe la differenza umana al pensiero cosiddetto concreto dell’immagine, o come direbbe Sartori, al post-pensiero che caratterizza il passaggio (o il ritorno?) dal mundus intellectualis al mundus sensibilis.
Si tratta di poli opposti ma non so dire nulla sulla direzione da un polo all’altro. Molti sfumano l’uno nell’altro ma niente di serio naturalmente!
L’economia, che è ormai costituisce il codice trascrittivo universale della realtà, riesce a leggere queste transizioni e tenerne il passo? È uno strumento adeguato a interpretare i valori che si profilano nei nuovi paradigmi?
Almeno per quanto riguarda l’ambito produttivo, l’economia si trova di fronte alla necessità di riconoscere che incremento di produttività (produzione per unità di tempo) comporta inevitabilmente minore disponibilità di lavoro in un contesto di saturazione del mercato (se non saranno i bisogni a saturarsi, sarà la terra ad esautorarsi). L’economia può gestire questa situazione considerando l’inalienabilità del principio etico dell’uguaglianza, ovvero sarà in grado di riconoscere una fetta della produzione a chi, necessariamente, non lavorerà?
“…l’organizzazione sociale non riesce a tenere dietro al progresso tecnologico: le macchine cambiano più velocemente delle abitudini, delle mentalità e delle norme.”[1] “…gli antropologi chiamano cultural gap: la nostra resistenza alle innovazioni, anche quando esse sono palesemente vantaggiose. Questo rifiuto psicologico e culturale è dovuto al fatto che, nel corso di una determinata fase della nostra vita e della nostra storia, i circuiti logici del nostro cervello si strutturano in base all’esperienza, creando una rete sinaptica sufficientemente solida che consente grandi risparmi di energia attraverso la coazione a ripetere sempre le medesime decisioni, le medesime reazioni, le medesime abitudini…Il cultural gap è un meccanismo spontaneo di difesa nei confronti dei cambiamenti.”[2]

[1] D. de Masi, Il futuro del lavoro. Fatica e ozio nella società post-industriale, R.C.S. Libri, 1999, p. 10.
[2] Op. cit., p. 54.

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