I rituali religiosi sono sorti in un contesto tribale, come del resto qualsiasi altra forma rituale. Non so se il contesto tribale costituisca una conditio sine qua non per la genesi delle forme rituali e non credo sia importante stabilirlo, il nucleo della faccenda sta nel fatto che storicamente l’uomo si è organizzato prevalentemente in piccole comunità e solo recentemente si hanno grandi centri urbani, sebbene si trovino tracce di questa tendenza in tempi remoti. Ad ogni modo le grandi religioni monoteiste, ebraismo, cristianesimo e islam si sono sviluppate in contesti tribali. In questa osservazione non vi è naturalmente nulla che ne diminuisca il valore, salvo non voler accettare il fenomeno religioso come evento prettamente umano che risponde a esigenze squisitamente umane e consegnarlo a epifanie divine che a questo punto ne diminuirebbero l’interesse di una buona parte di umanità.
L’organizzazione tribale è caratteristica precipua di homo sapiens e non basta certo qualche secolo per cancellare una eredità che viene da milioni di anni di evoluzione dell’uomo e che lo vedono parte di gruppi non molto numerosi, di poche centinaia di individui. Non bisogna essere arguti antropologi o fini sociologi per riconoscere che molte manifestazioni di disagio dell’uomo occidentale possono essere ricondotte a una organizzazione urbana che mette a dura prova le potenzialità e le capacità relazionali dell’uomo con il rischio di originare fobie e malessere in individui sempre più isolati. Le cause del disagio non sono sicuramente esauribili a singoli fattori ma è importante porre attenzione al possibile ruolo che le dimensioni delle comunità umane hanno nelle dinamiche relazionali.
Una realtà tribale, o comunque una piccola comunità, è caratterizzata tra le altre cose da una rete di reciproca conoscenza dalle cui maglie non vi è modo di passare. Questo comporta da una parte una rete di solidarietà che rende il soggetto integrato nella comunità che lo accoglie e dall’altra parte comporta notevoli difficoltà di autonomizzazione dell’individuo che si trova spesso a dover faticosamente separare l’ambito privato da quello pubblico.
Comunque sia, tralasciando le possibili degenerazioni da “imbreeding culturale”, che ci porterebbero lontano dal discorso che qui si vuole affrontare, resta il fatto che un soggetto all’interno di una piccola comunità è conosciuto per nome, si sa di lui chi sono i suoi genitori e chi sono i genitori di questi, insomma è inserito in una catena di discendenza che lo colloca precisamente in un punto dello spazio e del tempo che lo mette al riparo da possibili rischi identitari. Nel mio sud si direbbe che il soggetto si sa a chi appartiene. Il “vantaggio” identitario non è disgiunto dal suo rovescio, ossia dalla latenza, a volte protratta per la vita intera, della domanda “chi sono?”. Magari la domanda viene posta, ma senza la reale volontà di dare una risposta diversa da quella che la comunità ha già assegnato e ciò che la comunità non può sapere. I sentimenti, i sogni, i desideri, le più remote aspirazioni, rimangono seppellite sotto la coltre di una facile certezza.
In realtà tribali sono nate le credenze religiose, probabilmente o sicuramente per s-piegare, nel senso etimologico del termine (togliere dalle pieghe), ciò che appare ins-piegabile per dare un ordine a ciò che appare disordinato e intorno a tali credenze sono cresciuti edifici politici e morali che istituiscono i comportamenti delle comunità che secondo un preciso ordinamento rituale avrebbero, in alcuni casi assecondato gli eventi naturali, in altri casi indotto gli eventi a favorire la comunità stessa. Tra il primo atteggiamento, assecondare gli eventi, e il secondo, indurre gli eventi c’è l’abisso antropologico che separa la cultura della Grecia antica, con la sua dimensione tragica e inesorabile della vita, dalla cultura occidentale moderna che a partire dalla sua matrice giudaico cristiana di fatto non accetta il divenire e cerca in tutti i modi di fissarlo in cornici stabili di carattere soteriologico o di carattere scientifico.
Nell’atto di nascita del rituale religioso è presente l’esigenza di universalizzazione che pone rimedio al molteplice che diviene e mette al riparo l’unico dalla decadenza. Così la fissazione dell’eterno mutevole comincia quando alla varietà dell’esperienza soggettiva si sostituisce l’immutabilità dell’universale oggettivato. Da un punto di vista epistemologico questo è stato il passo decisivo per la nascita del pensiero scientifico e questo filone può essere fatto risalire fino a Platone. D’altro canto, con la tradizione cristiana e con il rovesciamento del concetto di anima platonica, che da strumento epistemico diventa con Agostino strumento penitenziale, nasce il concetto di individuo e nasce intorno al concetto di ricettacolo di verità e allo stesso tempo di colpa e di punibilità individuale.
Il concetto di individuo, equivalente e sostituto di ogni singolo uomo, nasce con la lacerazione tra le ormai inevitabili esigenze di autonomia e l’obbedienza che deve alla tradizione che lo ha generato. La Riforma luterana rappresenta l’esito di tale processo di rottura. La tensione tra opposte esigenze è continuamente attiva ed è nel suo manifestarsi che operano le antinomie della Chiesa dei nostri giorni dove la libertà della scelta individuale confligge con la dottrina comunitaria. Il concetto di universale cui il rituale religioso ricorre per porre rimedio al mutevole esclude ogni possibile sviluppo del concetto di poliversale appiattendo ogni differenza in un’unica sostanza. “Amico dell’uomo, e nemico di quasi tutti gli uomini con cui ha avuto a che fare” diceva Thomas Carlyle del marchese di Mirabeau. Questo è il risultato con cui oggi tocca fare i conti ed è un risultato che ci ha lasciato in eredità un processo di oggettivazione dell’individuo che subentra totalmente a quello di soggettivazione dell’individuo.
Ormai assegnato alla Storia, che alcuni riconoscono bizzarra e imprevedibile, altri vedono linearmente progressiva, l’Uomo prende il posto degli uomini, ma gli uomini non abitano la Storia, abitano nelle loro case piccole o grandi, nelle loro piccole storie, nelle singole biografie fatte di accidenti e di scelte a volte lodevoli a volte deprecabili ma comunque sia scelte, alternative che si danno nei contesti sociali che vivono e di cui nessuno può dirsi totalmente e completamente esonerato.
Oggi viviamo in un’epoca in cui le piccole comunità con tratti tribali sono, a dir poco, desuete e i mass media creano una fitta rete di relazioni che collega individui appartenenti a comunità diverse che pure non si conoscono e che pur essendo collegati continueranno a non conoscersi perché alla sostanza carnale dei contatti di una volta è subentrato l’asettico impulso elettronico. Le piccole comunità presentano una rete di solidarietà dove tutti si conoscono per nome e storicamente il collante di questo tessuto è di matrice religiosa. L’idea di cancellare la dimensione religiosa si è già dimostrata fallimentare, è quindi necessario chiedersi quale ruolo possa avere l’evento religioso, che nato in un contesto tribale deve confrontarsi con il mondo cosiddetto globale?
Potrebbe sembrare paradossale ma forse la religione dovrebbe tornare a una dimensione tribale dove prima di parlare all’Uomo deve saper parlare a quel particolare uomo o a quella particolare donna, proprio quello o quella che pongono precise domande etiche. E allora dalla domanda “Chi è l’Uomo?” si deve passare alle domande ben più impegnative “Chi sei?”, “Cosa desideri?”, “Quali sono le tue speranze e i tuoi desideri?”.
Rispondere a queste istanze con soluzioni di distribuzione territoriale delle gerarchie ecclesiastiche è come cercare soluzioni quantitative e di configurazione geometrica alle esigenze di qualità relazionale e alla sete di esistenza. Non si tratta di raggiungere questo o quell’esponente di un credo religioso o di un altro, si tratta di ascoltare quel particolare ragazzo che si sente escluso perché ama un altro ragazzo, si tratta di ascoltare quella donna che non può o non vuole avere un figlio, di sentire il lamento di quell’uomo o di quella donna che non ce la fa più a sopportare un dolore che non gli fa vivere più nulla di umano, non lo fa riconoscere a sé stesso come un umano, di ascoltare quell’uomo e quella donna che non possono più vivere insieme, si tratta di spogliarsi di tutto meno che della nostra pelle che continuamente si rinnova e così nudi ricominciare a parlare dell’etica.
Laddove si chiede di morire non si può rispondere con anatemi, laddove si chiede il riconoscimento di diritti civili di persone che si amano non si può rispondere con fondamenti teologici, laddove si chiede di dibattere sui registri del diritto, della storia, della libertà di espressione, del bisogno di essere riconosciuti all'interno di un contesto sociale non si può opporre il silenzio e l’immutabilità della Legge, tutto questo è possibile farlo solo rinnegando gli uomini per l’Uomo.
Il sommo poeta, per bocca di Beatrice, diceva “Temer si dee di sole quelle cose / c’hanno potenza di fare altrui male; / de l’altre no, ché non son paurose.”[1] Compito arduo e impegnativo è guardare in faccia l’altro, conoscerlo di persona e prima di chiedersi “come posso fare del bene?” chiedergli “in che modo posso farti del male?”.
[1] Inferno II canto vv. 88-90
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