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martedì 2 agosto 2016

Alle pendici dell'Etna

Una volta visitata la Sicilia devi ritornarci, per vedere quello che non hai visto o per rivedere meglio quello che hai visto.

Sulle rive dell’Alcantara cresce la ferula. Qui, come in altre aree mediterranee, si narra la leggenda di S. Antonio abate, trasposizione del mito di Prometeo nella tradizione popolare cattolica a riprova che il cattolicesimo del sud è il paganesimo con altro sembiante. S. Antonio abate, patrono del “fuoco sacro” (il fuoco di S. Antonio è la varicella nella sua manifestazione più virulenta), si reca all’inferno per rubare il fuoco e portarlo sulla terra dove si muore di freddo. S. Antonio conserva il fuoco appena rubato nel suo bastone di ferula che ha il midollo cavo e spugnoso. Il fuoco della conoscenza di Prometeo diventa un ciocco di legno con cui scaldarsi nella tradizione cattolica. In entrambi i casi ci si scotta a giocarci con troppa disinvoltura.


Etna, la grande madre che tutto dona e tutto si riprende. Vivere alle sue pendici è combattere continuamente con un complesso di Edipo irrisolvibile e grande come una montagna, è proprio il caso di dire. In realtà non si combatte neanche più, lo si accetta, non senza conflitto, come componente ineluttabile del proprio esistere. Intorno all’Etna tutto è una gigantesca clessidra e la polvere viene continuamente spazzata per rimuovere il tempo che passa. Catania è la perla nera di tutto questo e la gente ha una fame di vita difficile da vedere altrove nell’isola. Catania sembra dire “godiamone fin che ce n’è”, perché se si sveglia la grande madre c’è solo da scappare per ricominciare di nuovo ma sempre qui, all’ombra della montagna, perché altrove si perderebbe la propria essenza.


Precarietà esistenziale, eterno scontro tra vita e morte, mai ovvia scelta di quale sia delle due la parte migliore. Il nero delle viscere della terra e il verde lussureggiante dei boschi. I colori della fucina di metalli partoriti in esplosioni inenarrabili per dare vita a una vegetazione esuberante. Morte e vita intimamente intrecciate. Non esiste l’una senza l’altra. Non sono che due facce della stessa medaglia. Tutto questo rende queste lande terribilmente belle come terribile è lo sguardo di Medusa che eterna nella pietra ma scatena l’anelito del risveglio, quella Medusa che è nel simbolo della Trinacria.

La Sicilia cambia fisionomia intorno all’Etna. La sua geografia è cambiata nei secoli. Castello Ursino costruito sulla riva del mare a Catania adesso ha il mare a 1,5 km. Sono scherzi che lasciano il segno. 1693, l’apocalisse del terremoto dopo l’eruzione di vent’anni prima. Quello che lascia senza fiato è la serena lentezza con cui avanza il fronte lavico dell’Etna. L’Etna non è come il Vesuvio. Se del Vesuvio fa paura la sorpresa di un’esplosione per troppo tempo rimandata, dell’Etna fa paura la fermezza di una decisione presa con fredda determinazione.


A Catania il cielo è estremo come la terra. Il sole brucia se è in salute, altrimenti è un sole malato. La terra rovente ruggisce nelle viscere. Non ci sono vie di mezzo nel sud. Il sud è terra estrema, nella geografia dell’anima come in quella del territorio. Se tutto è calmo è segno che qualcosa sotto terra ribolle. Al mercato del pesce il gesto del pescatore che taglia il tonno con l’enorme mannaia si carica di una violenza rassegnata, una violenza che parla d’altro. Il sangue intride la spugna e scorre lungo i canali di scolo tracciando di rosso la pietra solida che un tempo è stata lava rovente. Al sud tutto è estremo, morte e vita che a malapena comprendiamo se ci può stare qualcosa in mezzo. Tutto è eccesso di gioia e dolore, come il nostro barocco. Il nostro teatro non ha colori tenui. I colori sono accesi, estremi. Il verde urla vita, il rosso è sangue di terra che tutto divora e il nero è polvere di tempo che tutto copre e tutto svela.


Se al mercato il sangue del tonno ci parla della violenza primigenia è difficile immaginare quale mattanza sia la tonnara. Nella tonnara va in scena qualcosa di primitivo, una tragedia in cui l’uomo-dio consuma il proprio sacrificio nel pesce-uomo, antico simbolo di un cristianesimo originario. Le urla devono essere terribili, la bestia che si dibatte per fuggire da una sorte senza pietà. Il mercato del pesce risuona ancora di quelle urla, ma è solo una pallida eco, quella del vincitore dopo una lotta efferata, un fiato al confronto, a testimonianza di essere rimasti in vita per scongiurare che nella messa in scena della tonnara non ci sia stato alcuno scambio dei ruoli tra gli sventurati attori della tragedia.

La precarietà esistenziale della Sicilia è culturale a Palermo, naturale a Catania. In entrambe le città tutto cambia continuamente perché tutto resti uguale ma per motivi diversi. Da una parte governa la Storia, dall’altra l’Etna.

Alle pendici dell’Etna al termine di ogni colata lavica sorge una chiesa perché la colata si è fermata in quel punto per intercessione divina. Se la colata avesse fatto altri metri la chiesa sarebbe sorta più a valle.

Tra una fumata e l'altra dell'Etna Taormina continua a fare finta di niente recitando la parte della Sicilia extra moenia.

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