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giovedì 22 dicembre 2022

L'attesa


Quando sono in stazione guardo le persone. Le mie partenze sono solitamente di buon mattino e da uomo del sud che ha impresso nella sua storia viaggi di necessità arrivo in stazione sempre con largo anticipo per l'atavico timore di perdere l'occasione di partire.

L'attesa non è mai noiosa, può essere triste, esaltante, mai noiosa. Osservo i volti delle persone, facce già stanche per le poche ore di sonno, oppure eccitate e ansiose di raggiungere la meta, sognanti dei giorni a venire per i prossimi ritorni o per le partenze. Immagino le loro vite, invento le loro storie.

Questa volta no, le persone non hanno attirato la mia attenzione. È stato un giovane gabbiano a farlo, l'età rivelata dal piumaggio ancora scuro. Il gabbiano volava a pochi centimetri dal soffitto di quello che a Roma chiamano salone gommato, alla stazione Termini. Volava avanti e indietro lungo il salone in cerca di una via d'uscita, il volo singhiozzante dei colpi che a intervalli irregolari dava con il dorso al soffitto, nell'inutile tentativo di svellerlo. Forse era stanco per quel volo incessante, sicuramente stordito dalle luci della pubblicità, respinto da queste in prossimità delle vie di uscita che non riusciva a vedere alle estremità del salone. L'ho guardato a lungo nel suo triste volo ma forse alla sua disperazione non era concesso neanche il privilegio della tristezza. Il suo volo si consumava nell'immediatezza di quello che, non so se per scienza o altro, chiamiamo istinto, senza possibilità di sublimazioni che non fossero il suo stesso muscolare battito d'ali.

Penso a quell'albatros reso celebre da Baudelaire, a quanto fosse in fondo più felice del mio gabbiano nella sua tristezza, così profondamente sentita, così pura e spirituale di fronte alla carnale disperazione del mio giovane gabbiano.

L'ho lasciato al suo volo per fare pochi passi lungo la vetrina della libreria già aperta, la partenza è a breve, non posso permettermi di entrare, il tempo subirebbe imprevedibili distorsioni. 

Al ritorno nel salone non ho più visto il gabbiano, forse è riuscito a volare via dalla trappola, forse vinto dalla stanchezza si è posato a terra tra la gente avvolta in una tiepida indifferenza che frettolosamente trascina bagagli e neanche lo vede, oppure lo considera un ostacolo sul percorso e lo scaccia via con una pedata. Quanto diversi da quei marinai che irridevano il principe delle nubi.

sabato 10 dicembre 2022

Umana mimesis




Tra divertissement e impegno sociale, intima confessio e suggestione letteraria, il Nobile di Montepulciano incontra la Divina mimesis di Pasolini e viene fuori un delirio di appunti tra una tappa e l'altra nelle valli senesi per una umana mimesis da scrivere chissà quando.

***

Tre fiere incontrai alla porta della selva oscura, la lonza che ruggiva, la porchetta che grugniva, il prosciutto che languiva. Dell'ultima fiera cinta era la forma, affettati i suoi modi, mi circuiva di sapori e profumi ingannando i miei sensi. Assiso sul trono di catrame il mostro di goretex pesava le anime sintetiche da quelle di carne e piscio. Giunse il maestro della partita doppia a salvarmi dal tristo giudice per condurmi nel regno dei consumatori fino alla discesa dello spirto di Madonna della joint venture per farmi assurgere nell'alte sfere del cielo. Lasciavo al mio passaggio un filo di nylon per ritrovare la via. Nel girone dei socievoli i dannati avevano gli occhi fissi sulla mano che stringeva un oggetto assente, con l'altra picchettavano ossessivamente con l'indice che di tanto in tanto facevano scorrere come per voltare pagina ad un libro che non c'era. Uscimmo da quel girone di sventurati e io mi riconobbi infine in un vento di gas naturale...

...m'addentrai poi nella valle fumante dove indicava il duce mio le ardenti querce di antocianico furore e getti verdi di gas rappreso in fiamme di cipressi. Nella stagione della caduta percorremmo il cammino lastricato di foglie dov'erano incise le brame, nell'antica casa dalle alte mura la pena da scontare era un tetto che crolla continuamente insieme ad acqua lustrale a dire che non abbiamo altra copertura del cielo, piangente sulle nostre teste. I colli intorno si piegavano l'uno sull'altro come risvolti di una giacca abbottonata d'alberi, il bavero alzato bastava a fermare il vento sul collo e farci sapere che la felicità non è un peccato. Entrammo nelle stanze reliquiarie, dove le ossa, orrida presenza, reclamavano la loro corporea sostanza e lo spirito indietreggiava, tutto tremante, nella sua consueta immortalità.

lunedì 5 dicembre 2022

Archetipi

 



La pioggia dell'altro ieri notte ha riempito la ora*, non completamente ma abbastanza per risvegliare l'appetito della nostra Cariddi, creatura primordiale, gorgonica bellezza di una terra che apre le sue fauci e divora le acque che mamma bambina rivestiva della meraviglia di chi si risveglia con un lago ai suoi piedi e una tavola legata a riva bastava per farne una barca. Si rideva in famiglia pochi anni fa della tragedia sfiorata per salvare una capra tra le urla di chi la voleva salva e le bestemmie di chi per salvarla stava per annegare.
La ora è l'anima primordiale del mio paese, limo di fertilità dopo aver sommerso tutto. Oggi mostra la nostra vergogna, come una madre che rimprovera i figli in piazza, così dopo la pioggia forte la ora raccoglie carcasse di frigoriferi, lavatrici e spazzatura di ogni sorta e la ammucchia davanti alla sua bocca per soffocare la parola, per impedire di urlare ma mostra tutto, chiaramente, anche tacendo lo fa a gran voce, perché tutto si veda e tutti ne proviamo vergogna, quel poco che ne resta.
Faceva paura la ora, nell'età innocente si cresceva con le raccomandazioni di starne lontani, garanzia di un bisogno di guardare dentro l'abisso. Solo l'innocenza poteva smettere l'abito della paura e indossare quello della gioia quando la valle si colmava d'acqua. Lo spettacolo sarebbe durato poco tempo, qualche giorno, forse ore e la ora avrebbe inghiottito tutto. L'abito della paura e quello della gioia, non erano forse i due risvolti dello stesso abito dell'innocenza?
Non fa più paura la ora, il mostro primordiale non è più l'archetipo dell'oltre confine. Non fa più paura la sua bocca rifatta, come in quegli interventi estetici per rifare le labbra a vecchie signore che rivogliono indietro gli anni buttati via insieme ai calendari. Ai confini del paese oggi c'è solo un fenomeno carsico. Regimentato!

Il vecchio mostro vive nella memoria dei suoi ultimi figli. Quei figli cui manca la paura contadina della ora, faccia triste del rispetto, manca la tremenda bellezza del suo ignoto tortuoso dedalo sotterraneo, spaventoso a immaginarsi, spaventoso perché solo immaginato, manca l'innocenza nuda che sapeva cambiarsi d'abito di buon mattino, dopo una notte di pioggia battente.

* Ora... vora... voragine.

venerdì 2 dicembre 2022

Senza titolo


Seguivo il corso d'acqua che sapevo di lontana sorgente,
lo seguivo con il fiuto del cane randagio
e l'istinto selvatico del tempo.
Guardavo quello specchio d'acqua
alla luce di una luna macellata
Sapevo d'esser nato con lei,
scorrevo, si può dire, nelle sue vene.
Non è stato facile seguirla quando si faceva sotterranea,
sentivo il suo corso con i sensi tesi,
corpo e orecchio a terra per ascoltare le vibrazioni del mio sangue
e scorgere lontano il punto esatto della nuova risalita.
Ho imparato a non perdere di vista le sue anse tortuose,
come abbracci tra stagioni di magra e piene impetuose.
Un giorno qualunque la corsa si è fatta affannosa,
da vicino un giorno come tanti, tagliente come pochi da lontano
un giorno che decide il prima e il dopo,
una lama che recide la vita dalla morte.
...
L'acqua s'è inselvata,
l'ho persa e l'ho ritrovata
e poi ancora persa.
Nell'ora rapace del tramonto l'acqua è scomparsa,
ovunque volgo lo sguardo è un rivolo tra foglie macere.
...

La sorgente è lontana.
Basterà metà del sangue  per risalire la corrente?
Una voce nella notte avverte:
sei teca di tempo sommerso,
affiora in superficie tuo malgrado
quando di notte vivi vite lunghe un verso.

E si va a capo
dimenticando di prendere fiato.

lunedì 28 novembre 2022

Casi umani

Questa l'avevo archiviata, alias dimenticata ma merita memoria. 

Il contesto: un "sindacato", per fortuna frequentato da pochi sventurati, che invia all'amministrazione di un istituto di ricerca, ripeto, un istituto di ricerca questo messaggio (testo allineato a sinistra). Il testo con rientro in corsivo sono le mie osservazioni rese pubbliche nel contesto dell'istituto in questione. Non ho mai avuto risposta da parte del "sindacato". L'Istituto in questione ha continuato ad adottare misure responsabili per contenere il contagio e non ha dato seguito a nessun delirio della cosiddetta "federazione".

 

***

Osservazioni al comunicato della Federazione Italiana Sindacati Intercategoriali del giorno 12 luglio 2022

C.a. D.G. dr.ssa xxx 
E p.c. Il Personale xxx 

Il giorno 6 luglio 2022 si è tenuto un incontro con l’Amministrazione avente ad oggetto “Misure per il contrasto alla diffusione del coronavirus in Istituto”.

L’Amministrazione, ispirandosi alla logica della precauzione, e pur non persistendo alcun obbligo in merito, ha reso noto che le misure adottate in Istituto per il contenimento del contagio consistono nell’uso del dispositivo mascherina FFP2 e nella riattivazione dei termo-rilevatori all’ingresso per la misurazione della temperatura corporea.

Richiamarsi alla logica della precauzione, sebbene, a mio avviso, sarebbe più corretto utilizzare principio di precauzione, rivela un vizio del discorso, probabilmente inosservato. Il concetto di precauzione richiama un “criterio di gestione del rischio in condizioni di incertezza scientifica circa possibili effetti dannosi ipoteticamente collegati a determinate attività, installazioni, impianti, prodotti, sostanze”.[1] In relazione alla diffusione del contagio in discussione siamo di fronte “Alla più “sperimentata” logica della prevenzione (teleologicamente orientata all’eliminazione o alla riduzione dei rischi nomologicamente noti, quindi dagli effetti prevenibili in quanto prevedibili)”[2] . Il rischio di contagio in assenza di misure preventive è un rischio noto e misurabile, confermato dalla corretta lettura dei dati disponibili. Parlare di precauzione è fuorviante e richiamandosi alla logica classica si potrebbe dire ex falso sequitur quodlibet e chiuderla qui.

Tuttavia la logica della precauzione trova i suoi limiti nella applicazione del buon senso (proprio quello richiamato al tavolo) oltre i quali la precauzione si trasforma in persecuzione, ovviamente inaccettabile. Il panorama di contagio 2022 risulta peggiore di quello del 2021 già, a sua volta, peggiore di quello del 2020. 

Le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti in Palombella rossa, ma qualcosina avevano già scritto al riguardo anche Heidegger, Wittgenstein e altra gente abituata a pensare. Noi abitiamo il nostro linguaggio e il linguaggio è fatto di parole, usarle in maniera impropria significa distruggere le mura che abitiamo con il rischio di trovarci senza tetto quando verrà a piovere. Secondo la Treccani persecuzione è il “Complesso di sistematiche azioni di forza volte allo scopo di stroncare un movimento politico o religioso, di ridurre o addirittura eliminare una minoranza etnica, sociale e simili.” Breve definizione ma sufficiente a delineare gli elementi essenziali e necessari perché si parli di persecuzione: sistematiche azioni di forza, movimento politico o religioso, minoranza etnica, sociale e simili. Elementi necessari alla luce della Storia ma oggi quella luce splende poco.

La situazione è paradossalmente peggiorata dopo l’avvento dei “vaccini” (dicembre 2020) e di tutti i provvedimenti di “buona pratica sanitaria” ispirati al principio di precauzione.

Che la situazione sia peggiorata con “l’avvento dei vaccini” è affermazione da dimostrare confutando i numerosi studi che provano il contrario. Ultimi i rapporti dell’Istituto Superiore di Sanità[3]. La confutazione dovrà avvenire nello stesso terreno metodologico condiviso dalla comunità scientifica, almeno a partire da Cartesio! In assenza di tale confutazione quanto affermato è una menzogna.
Se per peggioramento si intende l’aumento del numero di contagi allora valga l’analogia con gli incidenti stradali. Se il numero di incidenti stradali aumentasse ma le conseguenze gravi diminuissero per l’introduzione delle cinture di sicurezza e della patente a punti diremmo che la situazione “è paradossalmente peggiorata dopo l’avvento” delle suddette misure?

Visto, infine, che il Governo (DL n.52 del 22/04/2021 e smi) ritiene che non vi sia pericolo per la cittadinanza nel frequentare teatri, cinema, sale da ballo, competizioni sportive, etc, si chiede all’Amministrazione se un luogo di lavoro come xxx (caratterizzato da condizioni ben diverse) possa possedere un rischio intrinseco maggiore dei suddetti contesti.

Altra fallacia argomentativa, nonché autentica menzogna. È falso che il Governo ritenga “che non vi sia pericolo per la cittadinanza nel frequentare teatri, cinema, sale da ballo, competizioni sportive, etc”. Oltre ad essere una affermazione logicamente impropria, nessuno può escludere un pericolo di qualsivoglia natura, è smentita dal fatto che il Governo, pur eliminando l’obbligo di mascherina ne raccomanda fortemente l’uso in casi di affollamento e in cui non sia possibile mantenere la distanza.

Chiediamo infine all’Amministrazione di renderci note le evidenze scientifiche riguardanti la efficacia delle mascherine e dei termo-rilevatori, anche in relazione alle specificità lavorative di xxx,

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7951820/
https://www.pnas.org/doi/abs/10.1073/pnas.2014564118
https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0269749120334862
https://link.springer.com/chapter/10.1007/978-3-030-78468-3_17

Buona lettura!

nonché chiediamo di escludere l’esistenza di [altri] studi che, invece, evidenzino la nocività di un uso prolungato dei dispositivi di protezione individuali.

Questo è un capolavoro di fallacia logica. Di solito si dimostra l’esistenza di qualcosa, non l’inesistenza! Tuttavia, non posso escludere che secoli di riflessione epistemologica si siano fatti sfuggire questo fatto di così rilevante importanza. 

Battute a parte, onestà intellettuale vuole che l’onere della prova dell’esistenza di studi che dimostrino “la nocività di un uso prolungato dei dispositivi di protezione individuali” sia a carico del richiedente. Buona ricerca!

Cordiali saluti
Antonio Caputo 

[1] Donato Castronuovo, Principio di precauzione e beni legati alla sicurezza. La logica precauzionale come fattore espansivo del “penale” nella giurisprudenza della Cassazione. 2010 Diritto Penale Contemporaneo.
[2] ibidem 

sabato 19 novembre 2022

Scolio

Al risveglio ho da donarti un abito,
l'ho cucito con filo d'assenza,
i silenzi tra le maglie lo fanno prezioso.
Provalo,
serve cuore di piombo per indossarlo
e polmoni di palombaro.
Vedrai,
ti starà a pennello,
lo indossa chi sa tuffarsi in acque scure
per seguire le correnti del mare
che invisibili muovono le acque.
A forza di pratica si diventa bravi
a rammendare giorni strappati
con filo dei sempre e ago dei mai
che basta un niente per perdere tutto,
resta quello che non c'è.
Mi consola sapere
che nel prossimo risveglio
nulla ricorderò 
di 'questo lume di luna tra i rami'.

* il verso in corsivo è di Nietzsche, peraltro nella traduzione di Colli, Montinari che preferisco a quella in foto, di Giametta.



martedì 8 novembre 2022

Mitia e l’assoluzione di homo sacer

Nero su giallo, 2000.
La tavola gialla con macchie nere attira la mia attenzione più di ogni altra opera esposta in galleria. La lunga cicatrice di fili di ferro tiene insieme i lembi di una ferita aperta nel legno. Su quella lacerazione converge lo sguardo di chi si avvicina all’opera nell’inconsapevole tentativo di partecipare ad una impossibile rimarginazione. Emilio Anselmi alla mia sinistra dice: “Sai chi l’ha fatta?” So che l’opera è sua ma la risposta alla domanda di Mitia deve certamente essere meno banale. Con lui è inutile tentare risposte, il gioco è suo e sarebbe un errore capitale privarsi del piacere di vederlo giocare dividendo le mosse tra me e lui. Rispondo: “Non saprei”. Lui risponde “L’ha fatta il mare. Io l’ho trovata, ho pensato che il mare poteva farla così, l’ho portata sulla sabbia, l’ho lasciata lì e quando l’ho ripresa era così.” Che le parole ricordate siano fedeli a quelle dette da Mitia non è importante, qui il gioco è mio e Mitia dovrà lasciarmi giocare con i ricordi e tradirli quel tanto che basta per essere rigorosamente fedele allo spirito delle sue parole.

La heideggeriana gettatezza prende corpo nelle opere di Mitia. L’essere gettato delle cose, caduto nell’esistenza è attributo necessario per entrare nell’universo estetico di Mitia che, complice la caduta, altra caduta, di alcune lettere, si sovrappone al suo universo etico che chiede di salvare le cose dalla caduta cui sono state condannate. Se la gettatezza di cui parla Heidegger è dell’esserci che attraversa la soglia dell’esistenza qual è la gettatezza delle cose che abitano l’universo di Mitia? Günther Anders a proposito dei beni di consumo parlava dello scambio simbolico tra la nostra mortalità e la mortalità degli oggetti. La produzione industriale assolve al compito di rendere deperibili gli oggetti che devono essere prodotti in nuove copie e nuovi modelli con ritmi sempre più veloci. In questo scambio simbolico l’oggetto diventa mortale e il soggetto che li usa diventa immortale. Gli oggetti muoiono al nostro posto e noi allontaniamo dal nostro orizzonte quanto la morte ci ha sempre insegnato e ancora ha da insegnarci.

La leggenda del Totem, Cabbia di Montereale
Gli oggetti di Mitia non sono figli dell’industria, non sono prodotti seriali, appartengono alle generazioni precedenti quando nascevano per essere durevoli. Gli oggetti dell’era industriale si avviano a una morte programmata con la leggerezza inconsapevole delle cose inanimate. Gli oggetti di Mitia conservano le impronte del loro fattore, presagiscono il destino degli oggetti dell’era industriale e a differenza di questi mal sopportano lo stigma del rifiuto, lo stigma del reietto che non era loro destino avere. Su questi oggetti grava, come un senso di colpa, il peso della mortalità che per accidente della storia è toccato loro, un peso che non può gravare sugli oggetti di un’era già desacralizzata come quella industriale.

È questa la gettatezza delle cose che entrano nell’universo di Mitia, l’essere state gettate nell’esistenza per essere sacrificate. Prima che incontrassero Mitia gli oggetti della sua arte si erano resi colpevoli del reato più imperdonabile del nostro tempo: erano diventati inutili ma continuavano ad avere un’anima, ultimo riflesso delle impronte del loro fattore. Un'anima terrena e per questo sacra. L’oggetto, colpevole nei confronti della divinità dell’utile, è dichiarato sacer e consegnato all’ira della divinità. Sacer era proclamato nella Roma repubblicana chi, colpevole di avere infranto la legge, era condannato ad essere gettato dalla rupe Tarpea. 
Mitia recupera gli oggetti dopo la caduta dalla rupe dell’utilità per restituirli ad una funzione sacra sulla soglia di templi shintoisti e della piana di Giza. Mitia riprende quegli oggetti dalla radura in cui lo scambio delle mortalità mostra la sua illusoria ingenuità, e salvandoli riporta l’uomo alla dimensione di essere mortale restituendogli la possibilità di “morire vecchio e sazio della vita”.
Nella continua risonanza tra oggetto e soggetto si svolge la tragedia umana che l’artista mette in scena per la propria e altrui catarsi. Il museo/garage di Mitia è un tribunale permanente di giganti alati e figure totemiche. Molti di loro, dopo lungo peregrinare per gli Appennini, sono tornati qui per celebrare il processo a homo sacer, colpevole di avere rinnegato il proprio destino. In una Stonehenge di legno e metallo homo sacer si trova al centro delle accuse e delle difese per essere restituito alla sua umanità e per questo essere infine assolto.


Se le creature di Mitia, antenati degli oggetti seriali, prefigurano l'assoluzione di homo sacer quale assoluzione sarà possibile dopo aver reso obsoleta anche la falsa immortalità promessa dall’industria per votarsi al digitale? L’industria ha ceduto il passo al digitale, la caduca materia è sconfitta dall’imperituro spirito e nell’apoteosi dell’hybris la morte è bandita. Quale assoluzione sarà possibile domani? Se una assoluzione sarà ancora possibile non potrà che venire dalla tremenda bellezza di cui canta Rilke in una delle sue elegie duinesi. Ne va della vita di un soggetto/oggetto che non si consegna alle sirene dell’utile e dell’immortale.


martedì 11 ottobre 2022

I fiori del cappero

“Io so per esperienza quanta bellezza portò seco Satana, quando cadde. Nessuno ha mai detto che gli angeli caduti fossero gli angeli brutti.“ Graham Greene, Il potere e la gloria.


Hai mai raccolto i capperi? La pianta del cappero è bassa, sembra eruttare dalla terra, come una polla verde. Ogni cappero è una goccia e per raccoglierli ti devi chinare. Li devi raccogliere uno ad uno, con la punta delle dita. Una leggera pressione delle unghie per tagliare il picciolo, senza strappare. Quando hai finito la raccolta fanno male le mani e la schiena. Così è nel mio confessionale. Raccolgo i peccati come i capperi, uno ad uno, schiena curva, senza strappare. Peccati innocenti, senza alcuna pretesa di guadagnarsi il paradiso con un perdono dispensato con malagrazia per avere osato considerare peccato una rivendicazione. Di questo passo si rischia il peccato di superbia!

Povera gente, se non avessero Dio con cui prendersela non avrebbero nessuno cui chiedere conto delle loro fatiche. Celebro messa con il vino di campagna, aceto nelle città e a volte prendo l’uno per l’altro. Abituato a mandare giù tutto neanche me ne accorgo, ché il corpo e il sangue di Cristo può avere le sue sante ragioni per essere di malumore e certo che deve averne di ragioni a vedere questa gente che attende la pioggia e poi ne arriva troppa, magari insieme alla grandine che distrugge tutto e sì che gli tocca invocare il sole come prima hanno chiamato l’acqua.

Come possono non prendersela con Dio se da lui vengono le promesse? Non doveva promettere fiumi di latte a questa gente abituata al vino guasto. Doveva dire “seguitemi anche se non so dove vi porto, ovunque sia ci arriveremo insieme.” Gli avrebbero chiesto “perché seguirti allora?” e lui avrebbe risposto “perché non avete nient’altro!”. Forse è proprio così che è andata ma poi hanno voluto credere ad altro. Si sa come succede tra gente ignorante. Dici una cosa e se ne capisce un’altra ed è quello che è successo visto il riverbero dell’incomprensione anche nelle alte sfere. Sono stati scritti poemi e divine commedie sul cammino ultraterreno quando qui crescevano i capperi e le mani per raccoglierli erano sempre di meno e facevano sempre più male.

Anch’io ho avuto le mie sviste. Ho studiato teologia per riconoscere Dio in un rospo nero e indurito al sole lungo una scala santa, aveva il volto del demonio e non vedere la somiglianza con quello che cercavo era la mia superbia. Ho studiato il pensiero dei senza Dio per capire che la rivolta era la preghiera di chi si sentiva abbandonato da Dio. Ho educato i miei occhi a vedere la luce che viene giù come acqua di temporale. Le cose e gli uomini non sono mai soltanto quello che dicono di essere.

Oh l’amore, va nominato con parsimonia, quasi pudore, come di una porta spalancata che lascia vedere segreti di famiglia che non si vuole far conoscere. La mia missione è parlare dell’amore e non ho mai conosciuto un Proteo più mutevole, sempre disposto a cambiare volto e abiti. Oggi si veste di acredine, in serata di odio, domani sarà di nuovo affetto e colpa e col passare delle ore il volto gli si infiamma d’ira e bastano pochi minuti perché abbia il volto sereno della buona morte. Quello è brutto come il peccato, si dice. Beata innocenza! Le cose non sono mai solo quello che sembrano.

Ho studiato a lungo per riconoscere i peccati e imparare a raccoglierli uno ad uno, prima che si aprissero, come fa il cappero con i suoi fiori. Hai mai visto i fiori dei capperi? Se non li hai mai visti non puoi capire la loro bellezza. È quasi un abuso chiedere a questa gente di pregare. Questa gente sgrana rosari di pietra per costruire case e ripari disseminati nelle campagne, perle unite da muri a secco in una collana di misteri che nessun libro di preghiere può svelare.







mercoledì 28 settembre 2022

Vienimi a cercare

Vienimi a cercare nell'erba alta,
parleremo della stagione atroce
e di brezze fuori tempo,
di quando ti aspettavo a scuola,
sudato per la poca corsa.

Parleremo delle notti bianche
per la fame della tua voce
e taceremo come sapevamo fare
quando le parole non bastavano.

Vienimi a cercare nelle pagine vuote
in attesa di parole che non arrivano.

lunedì 12 settembre 2022

Ri...di pagliaccio sul tuo cuore...

Ritaglio parole per rimestare meglio ripensamenti. Rifiuto è fiutare più e più volte, ogni rivolta sempre lo stesso odore. Per esercitarmi alla rivoluzione del sole rivelo menzogne di tessuti pesanti perché non abbiano freddo. Quando scoccherà l'ora ritornerò al punto di partenza. Mi riferisco al sangue, come una bistecca, come se non bastasse una volta sola. Pugna e ripugna l'eroe indomito, ritenta sarai sempre più sfortunato. Si resiste a tutto meno alle ritenute d'acconto. Ridiamo di tutto, ché è meglio restituire quello che è rimasto che prendere solo per essere ripresi. Il mondo è un torchio, chi rimorchia va avanti, se sei olio fattene una ragione. Disponibile a fare ripetizioni, tanto non le firma nessuno. 

Dalla terra del rimorso è tutto, forse. Eventualmente ripasserò.🌹

domenica 11 settembre 2022

Ri-letture anniversarie

"[...] È vero: non possono, anzi, non dovrebbero esistere [Paesi di serie B]. Ma esistono. La realtà è che l'Italia è un Paese di serie B: e ciò risulta inequivocabile proprio dalle sue parole. Che sono parole prudenti, benché sincere. Io che posso permettermi di non essere prudente, le dico anzi che l'Italia è ben peggio che un paese di serie B. L'espressione calcistica non è che un eufemismo. L'Italia – e non solo l'Italia del Palazzo e del potere – è un Paese ridicolo e sinistro: i suoi potenti sono delle maschere comiche, vagamente imbrattate di sangue: «contaminazioni» tra Molière e il Grand Guignol. Ma i cittadini italiani non sono da meno. Li ho visti, li ho visti in folla a Ferragosto. Erano l'immagine della frenesia più insolente. Ponevano un tale impegno nel divertirsi a tutti i costi, che parevano in uno stato di «raptus»: era difficile non considerarli spregevoli o comunque colpevolmente incoscienti. Specialmente i giovani. Tutte quelle sciocche coppie che se ne andavano tenendosi all'infinito strette per mano, con aria di vicendevole, romantica protezione e ispirata certezza del domani.
Sono stati ingannati, beffati. Un rovesciamento improvviso e violento (per quanto riguarda l'Italia) nel modo di produzione ha distrutto tutti i loro precedenti valori «particolari» e «reali», cambiando la loro forma e il loro comportamento: e i nuovi valori, puramente pragmatici, esistenziali, del «benessere», hanno tolto loro ogni dignità. Ma non è bastato: dopo essere stati resi mostruosi (marionette guidate da una mano «nuova», e quindi come impazzite), ecco che il benessere, causa della loro mostruosità, viene meno, mentre il ballo delle marionette continua. [...]"
Pier Paolo Pasolini, Al Presidente della Repubblica Giovanni Leone. Il Mondo, 11 settembre 1975. In: Lettere luterane, «La sua intervista conferma che ci vuole il processo».

martedì 6 settembre 2022

Dialoghi

L’artista dialoga con la materia perché questa assuma la forma che il dialogo dipana e in questo processo la materia è trasformata dall’artista, l’artista è trasformato dalla materia. Se questo discorso, di grande valenza estetica, non sfugge alla critica soggettivista, che vuole la materia muta, cosa succede quando l’artista e la materia coincidono? La critica soggettivista non ha più i suoi argomenti perché artista e materia sono la stessa cosa e allora il dialogo dispiega non solo tutta la sua valenza estetica ma anche la sua valenza di fatto concreto e tangibile, perché quel dialogo tra soggetto e oggetto dell’arte e quella trasformazione biunivoca dell’artista e della materia la vediamo all’opera. È il caso del performer, artista che mette in scena il dialogo e la metamorfosi. Il performer fa di se stesso materia dialogante.

Formare per formare, metafisica dell’estetica che si sostantiva nell’esperienza performante. Ed ecco che il performer è artista a tutto tondo perché fa del proprio corpo e dei propri sensi la materia di elezione della propria arte. Quella che viene spesso dileggiata come arte minore, non priva di letture superficiali e di altrettanto superficiali cialtroni, è arte totale. Arte senza altro aggetto.

Apoteosi del ready made object, l’artista diventa ready made garbage. Rifiuto tra i rifiuti, scarto abbandonato al margine della strada in attesa che un mezzo lo porti via in qualche discarica, lontano dai nostri sensi avvizziti. Un cumulo di rifiuti abbandonati dove non dovrebbero essere. Fabrizio Manco li vede e comincia il dialogo. La ritualità creativa di Fabrizio gli impone di celebrare la sua performance, perché Fabrizio è come il sacerdote che deve celebrare messa, indipendentemente dalla presenza di fedeli che vi assistano. È privilegio di pochi intimi essere destinatari delle foto o dei video delle sue performance estemporanee. Foto e video che spesso lui stesso realizza.

Accade in un paesino del mio Salento dove forse abbiamo ancora tempo per dire che stiamo diventando rifiuti tra i rifiuti. Nella periferia di Roma non è raro vedere gente seduta al tavolino di un bar in una strada rumorosa di traffico mentre sorseggia un aperitivo, circondata da rifiuti abbandonati. L’assuefazione deforma il senso estetico, azzera i sensi.

Forse abbiamo ancora tempo per ascoltare chi sta dicendo che abbandonare rifiuti nelle strade e nelle campagne ci sta facendo diventare rifiuti tra i rifiuti.

 
Fabrizio Manco, Ugento (LE), 01 settembre 2022.

Qualche giorno dopo Fabrizio è tornato sulla strada che collega Melissano a Ugento. Anche quella strada cosparsa di carte, plastica e altri rifiuti. Mi ha inviato queste foto che potrebbero benissimo essere frammenti di una crocifissione.


Fabrizio Manco, Rubbish for art, 05 settembre 2022.

giovedì 1 settembre 2022

Io e Vincent


Io e Vincent eravamo stesi su questi prati molti anni fa, un filo di paglia in bocca, braccia dietro la testa, ci scambiavamo suoni di primavera e sorrisi beffardi di folletti tra le nuvole. Io gli facevo vedere l'emorragia di papaveri con gli occhi di mia madre, lui stendeva pasta di colori sulle tele e sulle parole. Gustavamo le immagini con la lingua, ne aspiravamo il profumo. Il mio occhio pigro sussurava al suo orecchio fasciato dei mondi segreti che mi nasconde. Vincent dipingeva vertigini con mano furiosa, io gli confessavo che non ero ancora nato. Lui sorrideva, incredulo.

domenica 28 agosto 2022

Via della luce


In via della luce c'è leggera maretta

la linea dell'orizzonte solleva il velo

il tuo occhio non squarci il cielo

cammina lento, non avere fretta.

sabato 27 agosto 2022

Quasi un divertissement

Mi piacerebbe renderla cantabile ma c'è da lavorarci un bel po'.

***


Nella baia della bufera oggi è caccia grossa 

pescatori di frodo, lunghi arpioni, punta d'ossa.

Nella baia della bufera muoviamo guerra a mostri e abissi,

fatale passatempo, liquore di magia nera e ordinarie apocalissi.

Quando nasce un bambino lo battezziamo nei barili di veleno,

copri la pelle di squame, lascialo dormire nel fieno,

tre immersioni dalla polena nella terza notte di luna piena.

Se il bimbo piange è brutto segno,

malaugurio per tutto il regno.

Correte gente, il bimbo è silente 

è nato nel mar della bufera

chi ha ingoiato tutto il veleno in una sera.

Verso di ramarro, sangue di fuggiasca,

al tramonto parliamo con i morti 

e andiamo di notte dove spinge la burrasca,

al buio pesto non vediamo scogli e torti,

navigare tra secche e ragioni di tutti è pratica antica,

approdare nei porti di una costa sconosciuta,

dove soffia fortunale toccare le tue coste è fatica.

Domani prenderemo di nuovo il mare,

ci guiderà il bambino che non pianse 

oggi è un uomo, sa cosa fare.

La zingara felice, faccia rugosa,

dice di partire alle prime luci dell'alba feroce.

Ai remi fratelli miei, 

l'orizzonte chiama a gran voce,

non torneremo come fa il salmone,

voleremo via in una bolla di sapone.

Nella baia della bufera c'è sempre tempesta

da lontano vedi calma piatta 

ma non è facile arrivare sotto costa.

Chi la vede dal mare aperto gode il chiar di luna

noi che navighiamo quelle acque 

per salvare la vita invochiamo fortuna.

Diffidiamo della felicità come di cosa insana 

sulle coste rabbiose cantiamo versi d'amore,

all'arrembaggio compagni d'onore, 

nella schiuma fitta di fata morgana.

mercoledì 17 agosto 2022

Ho visto la barca salpare


Ho visto la barca salpare 

dal porto delle rose,

ha preso il mare 

dopo il naufragio del mattino.

A bordo il nocchiere, 

una bambina e altri sopravvissuti.

Nessuno di loro sapeva andare per mare, 

il nocchiere meno di tutti.

Sono saliti in barca come capita,

Incastrando i corpi e le anime 

senza regole, senza cortesia,

con i gomiti piantati nei fianchi 

e volti doloranti.

Sono andati via ignorando la rotta,

"affondare è peccato", questo solo dicevano.

Hanno attraversato un mare nero

per svanire dall'orizzonte con un sorriso

e uno straccio per bandiera,

dorsi di animali fantastici affioravano dalle onde,

ossa d'altri tempi o pietre galleggianti.


Sulla soglia degli occhi del nocchiere

spuntava un diamante di sale 

e una domanda muta alla bambina:

Sei felice?

I panni appesi alle pleiadi


I panni appesi alle pleiadi

asciugano al vento sui fili 

stesi da un lato all'altro del buio.

Lampi di luce nelle notti d'estate

si schiantano negli occhi,

vetri cavi di clandestine distillerie.

Una sera in riva al mare

basterà a darci pace,

creature assetate di attesa.

***

La liquida incostanza del mare ci parla dei moti interiori, dell'assenza di un appoggio, di un terreno solido, di una base. In mare puoi solo nuotare o galleggiare, imparando a chiedere aiuto all'acqua. In mare le distanze ingannano e quello che vedi vicino non è mai così vicino come credi. Il mare è ciò che siamo davvero, il nostro ritratto più intimo. La casa più antica, quella da cui veniamo e che portiamo dentro, a prova di dimenticanza. Il mare di notte è il mare che confessa a sé stesso quello che di giorno non dice. Per questo il mare al buio fa paura.

lunedì 15 agosto 2022

Cosa so della luce


Della luce so che è un gomitolo di lana,

me ne servo con arte maldestra 

per lavorare ai ferri una maglia 

che scaldi sguardi infreddoliti.

Vedessi come sono diventato bravo

a intrecciare silenzi e spine.

Dai muri tenuti insieme da ragnatele

faccio nascere nuvole di rimorsi

con la liturgia antica dei sogni

di chi crea uomini di sale.

Da quando ho lasciato la mia casa

riconosco le campane che chiamano 

al matrimonio dei sensi con l'inganno,

lungo strade di tufo sgrano rosari di pietre,

e ad ogni grano auguro la buona notte alle rose

e ai vermi che conoscono la storia.

Con il mio occhio pigro guardo mia madre 

che non invecchia e mio padre di pochi anni,

vende latte fresco in bicicletta.

Dall'altra parte della strada

i bambini giocano a nascondino,

io scarabocchio fogli di carta.

Ognuno cerca un angolo

per lasciarsi scoprire e poi scappare

nel punto convenuto

di una tana che libera tutti.



lunedì 1 agosto 2022

Della redistribuzione

A proposito della proposta di Letta sulla dote ai 18enni e altro. Apprezzo ogni politica redistributiva. La ritengo uno strumento irrinunciabile di giustizia sociale. La destra si inalbera quando si parla di tasse di successione e patrimoniali. Nessuna novità, conoscessero Luigi Einaudi, illustre liberale, e cosa pensava delle tasse di successione direbbero che è un pericoloso bolscevico! Se la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi è un problema, e lo è, allora il solo modo per contrastarlo è la redistribuzione della ricchezza. Lamentarsi del problema senza imboccare la strada della soluzione è da ipocondriaci che stanno tanto bene a stare male. Non riconoscere che è un problema è da micragnosi con il conto in banca al posto del cervello. Benvenga la redistribuzione quindi, ma redistribuzione di cosa? Ma di soldi, ovviamente! Metti i soldi in tasca a chi ne ha bisogno e poi se la vedrà da solo a soddisfare i propri bisogni perché, seguendo il neoliberismo più schietto, nessuno conosce i tuoi bisogni meglio di te! Principio vero quanto inutile, se non dannoso, per costruire una società civile.

Da decenni non si fa che dire che la politica deve riprendersi il suo primato sull'economia. Mi chiedo se non è anche nella redistribuzione esclusivamente in denaro che si impone il primato dell'economia. Abbiamo parlato di reddito di cittadinanza e, correttivi a parte, nessuno sano di mente direbbe che non è stato uno strumento utile a contrastare la povertà ma non abbiamo mai parlato di servizi di cittadinanza. Così come non abbiamo mai parlato di quante povertà ci sono da contrastare. Discorso spinoso, da evitare lasciando al destinatario del reddito, come di ogni altro sussidio, il compito di vedersela da solo. Non ne abbiamo mai parlato perché quello che esula l'equivalente generale del denaro suona anacronistico e paternalistico, a destra e a sinistra. Non si ha più la forza e il coraggio di affrontare il discorso di una politica che concepisca di indirizzare gli investimenti nelle nuove generazioni. Il discorso sul primato della politica è un dispositivo vuoto, buono per qualche circolo di seguaci del postpensiero! Allora ben venga la dote ai 18enni, salvo non lamentarsi se una minoranza, si spera, conoscendo meglio di chiunque altro i propri bisogni, investirà la propria dote in i-phone e altri ninnoli.

sabato 30 luglio 2022

Nova scienza

È davvero singolare che l'Accademia nazionale non abbia ancora concepito un indirizzo specifico di studi in comitatologia. La proliferazione di comitati e gruppi di lavoro nei più disparati ambiti fornirebbe materiale di incommensurabile valore a questa nova scienza!



A: Mesciu Luigi dobbiamo potare centinaia di ulivi.

B: Mesciu Cosi, cerchiamo gli uomini che servono.

C: Un attimo, un attimo. Fate presto a partire così, senza una preparazione.

A: Che significa?

C: Non possiamo mica iniziare il lavoro senza un quadro completo di quello che dobbiamo fare, da dove partiamo, dove vogliamo arrivare.

B: Non capisco cosa vuoi dire.

A: Neanch'io capisco.

C: Voglio dire che i lavori fatti in fretta, senza sapere chi fa cosa non portano mai a buoni risultati.

A: Ma sono decenni che faccio il potatore me lo ha insegnato mio padre da quando sono bambino e a lui lo ha insegnato suo padre!

B: Dottore cosa dici? Io nella vita ho sempre fatto il potatore e nessuno si è mai lamentato delle mie potature.

C: Voi la fate sempre facile. Sapete forse come è costruita l'accetta? 

A: No, ma cosa c'entra?

B: No, ma per potare ulivi non è importante, basta saperla usare.

C: Ecco, il solito modo di sottovalutare il contesto! Ma secondo voi non dovrebbe esserci un esperto della filatura della lama? E un esperto del manico secondo voi non serve a niente? Come la mettiamo con il tornitore che ha fatto il buco nel ferro? Il cuneo secondo voi lo può fare chiunque?

B: Certo che no.

C: Ecco, cominciamo a capirci. Le impugnature non sono mica tutte uguali?

A: Ma ognuno fa il suo mestiere, noi facciamo il nostro e chi fa le accette fa il suo.

C: Questa visione a compartimenti stagni è la vostra rovina. Bisogna avere una visione d'insieme.

B: E cosa dobbiamo fare per avere questa visione d'insieme?

C: Facciamo un gruppo di lavoro. 

A: !

B: Sì, un gruppo di lavoro. È quello che dicevo all'inizio. Dobbiamo cercare gli uomini per potare gli alberi.

C: Vedi, non hai capito! Prima di potare gli alberi dobbiamo costituire un gruppo di lavoro con esperti della ramificazione degli ulivi, esperti del manico dell'accetta, del ferro, della filatura, dell'impugnatura. Dobbiamo studiare la compatibilità del manico con le mani per una presa ottimale e sicura.

A: E quanto tempo serve prima di cominciare a lavorare?

C: Non lo so. Alla prima riunione del gruppo di lavoro faremo un cronogramma.

B: E per fare questa cosa gli alberi quanto devono aspettare per essere potati?

...

martedì 12 luglio 2022

De sideribus

Sono arrivate oggi le immagini di James Webb, il telescopio a 1,5 milioni di km dalla terra, capace di guardare le più antiche galassie dell'universo, di questo universo, indietro nel tempo fino a 13,5 miliardi di anni fa e già la necessità di usare il tempo quando si parla di distanze siderali mi fa venire le vertigini. In km sarebbe un numero spaventoso, 1277 seguito da altri venti numeri. Ma quello che mi fa letteralmente tremare le gambe è l'evidenza palmare che noi possiamo guardare un universo che non c'è più, raccogliamo prove di un universo fossile. Chissà come sono oggi le galassie che vede l'occhio di James Webb? Ha senso questa domanda in una vastità così grande che la luce impiega miliardi di anni per percorrere? Quando diciamo oggi, oggi di chi? Il mio oggi?  Perché non l'oggi di chi forse mi vede a miliardi di anni luce di distanza, o mi vedrà quando non ci sarò più? Questo intreccio di passato e futuro che si annichiliscono nel tempo che diremmo inesistente, il solo che ci consente di essere osservatori, il presente, mi stordisce. Se fossi su una di quelle galassie saprei che tra molti miliardi di anni sarà possibile vedere mia madre che cresce, incontra mio padre, se ne innamora ed è una bambina che suona la campana del latte appesa alla bicicletta di un bambino poco più grande di lei, vedrei una giovane madre che sulla moto guidata da un giovane padre tiene stretto un bambino perché non senta freddo al ritorno dal mare. Invidio le galassie viste da James Webb perché vedranno tutto questo tra 13,5 miliardi di anni, come fosse oggi, il loro oggi, quando noi non ci saremo più ma poi penso che forse quelle galassie oggi, il mio oggi, non esistono più e non esistevano già più quando è nata mia madre e mio padre, i loro genitori, i loro nonni e allora penso che in questo universo possiamo vederci quando ormai non ci siamo più e questo mi fa disperare.

mercoledì 6 luglio 2022

Su tutti gli schermi

Da sempre su tutti gli schermi. Non è un film facile. Qui non si usano controfigure. Si nasce e si muore una volta sola. Nessuna deroga, nessuna scena da rifare. Buona o cattiva, vale la prima. Non aspettatevi effetti speciali, basterà l'ordinario per tenervi inchiodati alla sedia. C'è chi va a messa di buon mattino e chi mantiene il broncio con Dio e prega a modo suo. C'è chi si preoccupa di cosa cucinare e chi guarda il cielo a invocare pioggia. C'è chi si lamenta dei dolori e del caldo e chi dice di stare bene prima di uscire di scena. La colonna sonora è fatta di rintocchi di campane e vento, la luce è di rara maestria e altrettanto rara ferocia. Tutti gli attori di questo film lavorano senza compenso. Nessuno di loro lavorerà in altri film. I salmi delle cicale sono sublimi, dopo averli ascoltati non li dimenticherete.🌹

giovedì 16 giugno 2022

Ritorni

Oggi il mare ha il colore del mare. Non sempre il mare ha il suo colore. A volte si colora di assenza e di distanza, le onde non sanno dove andare in un continuo rigurgito tra fondo e superficie. Noi lo diciamo ntraujatu, più inclini a comprendere i sentimenti del mare che le condizioni meteorologiche. Oggi invece il mare si è vestito del suo abito più elegante, un abito color mare, così vero da sembrare finto con un orizzonte fotomontaggio che dall'isola di Sant'Andrea bastano due bracciate per arrivare a riva dove affiorano le emergenze del tempo, scritte in un alfabeto Braille che solo il viandante cieco può comprendere, con dita rese sensibili dall'esercizio. Qui, nella macchia spinosa, invento sentieri, con grande disappunto delle mie gambe, mai disabituate alle sbucciature che collezionavo da bambino. Il profumo di erbe buone da mangiare si mescola alle voci dei rovi che cantano inni di benedizione e segnano chi passa. Ce ne vuole di tempo per capire che il luogo del mondo dove sei veramente a casa è quello dove sei pietra e sei vento, è quello dove il sangue si fa terra e acqua. Più tempo ancora serve per capire che non sempre è quel luogo dove vorresti vivere ma è certamente quello dove vorresti morire.


È entrata in casa, ha volteggiato, è andata via ed è ritornata più volte. Ha riempito casa di cinguettii e ci ha salutato. Mio padre, più razionale di me, dice che l'ha mandata mamma. 🌹

 

non ho vestiti:
indosserò abiti
frusti di luce.


Con il 1501 comincia il XVI secolo. Con il 1801 inizia il XIX secolo. Se dico che la peste che ha visto Boccaccio è del XIV secolo siamo nel secolo che va dal 1301 al 1400. Spesso, più giovane, questo mi ha creato qualche confusione di collocazione temporale dei fatti. Certamente non aiutato dalla mia naturale tendenza a mescolare passato, presente e futuro nel gioco mortale ingaggiato con il tempo, puerile risposta alle ignobili licenze che lui si prende con me. Questo disorientante conteggio delle soglie del tempo ricorre anche nei compleanni festeggiati nel sud. Chi compie 69 anni è quasi sicuro che dica che "entra nei 70", trascurando il numero 69 come un accidente di trascurabile importanza! Sarà la metafisica del numero tondo. Sarà la fretta di vivere per non rischiare di fermarsi prima di un immaginario traguardo. Non so dire. Da un anno papà dice che oggi entrerà negli 80. Faccio gli auguri a chi sono stato prima di nascere e a quello che sarò se avrò fortuna. Oggi papà varca la soglia degli 80, a breve mamma lascerà quella dei 70. 🌹 

 

Alla controra gli occhi partoriscono luce. La terra grida le doglie del giorno, nascono muri di pietra e strade bianche.
Qui passano i morti, lucertole tra i sassi, nell'ora stanca del riposo dopo l'affanno. In paese camminano volti nuovi senza faccia, i vecchi non sono più vecchi, giovani con visi rugosi sfrecciano in auto. Nessuno ricorda i piedi. Oltre il muretto non ci sono più giardini. Le pietre hanno smesso di parlare, le mani hanno smesso di ascoltare. La terra trattiene i suoi profumi.
Erano zappe le mani e forconi gli occhi per sollevare giorni e notti. Con altri passi mi muovo nelle stanze antiche, spolverando ritratti e bugie. Farfalle di rame volano in casa mentre fumi e rumori mi danno la nausea. Tronchi secchi di alberi secolari mi parlano ancora. La litania delle cicale chiama su questa terra arida l'ultima benevolenza del Dio assente.
Voci mi scorrono nel sangue.


giovedì 5 maggio 2022

L'estetica della guerra

Il colosso di Rodi, 1961. Una delle prime regie di Sergio Leone, filone falso mitologico che ha portato sul grande schermo tanti eroi e altrettanti ne ha inventati. Testimonianza per mio padre che la storia è fatta di guerra e triste esempio per le generazioni future allevate all'insegna della sopraffazione, come se la guerra fosse questione di pedagogia. Mamma avrebbe detto la stessa cosa guardando con orrore uccisioni visibilmente teatrali, anche se l'eccessiva affettazione di alcune scene le avrebbe fatto esprimere stupore per la sua credulità da bambina. Oggi quelle scene non sarebbero credibili a un dodicenne. L'estetica della guerra è cambiata, la verosimiglianza ha mutato registro e la recitazione, così come la tecnologia al servizio del cinema, si è adeguata. È più vera l'attuale ricostruzione della guerra? Quando i miei genitori erano giovani la ricostruzione cui assistevano era per loro altrettanto vera. I miei genitori verrebbero sopraffatti dai troppi effetti speciali dei film di oggi. Vivono questi come una pantomima troppo urlata o, ritenendoli troppo "veri", hanno bisogno di un margine di finzione per salvare la loro sensibilità? Margine che vedono solo oggi nei film della loro gioventù. Un margine che i film di oggi riducono al minimo e nel quale i loro sensi non riescono a discernere il vero dal falso, esattamente come quando mia madre bambina credeva alle scene di Maciste in guerra. Ma se è vero che la tecnica a disposizione consente una sempre maggiore verosimiglianza e che i nostri sensi diventano sempre più abili a distinguere la realtà dalla finzione non sarà altrettanto vero che avremmo bisogno di guerre vere per soddisfare la richiesta di spostare l'attenzione della morte? Le guerre altrui, vere o finte, non sono forse, nella loro dimensione spettacolare, un tentativo di sviare la morte, come fosse un sacrificio offerto al Dio Marte per placare la sua sete di sangue e distoglierlo da noi? I film sono una rappresentazione scenica, quasi liturgica, per allontanare/catturare l'attenzione dello spirito della morte. Oggi che anche i dodicenni sono smaliziati da riconoscere la finzione filmica più sofisticata questa funzione e assolta dalla guerra autentica dove si muore sul serio, con grande soddisfazione dell'antico Dio e, dispiace dirlo, nostra! I sacerdoti di questa liturgia, a debita distanza dalle zone di guerra, sono i venditori di opinioni nei cosiddetti talk show, altari dove si immolano le vittime lontane e il pensiero ancora più lontano, agnello nato morto che per esigenze teatrali si crede vivo. I fedeli a casa assistono la celebrazione tra la preoccupazione e l'inedia, assuefatti alla conta del giorno dopo per la divisione del pane e dell'audience. Dire che la guerra piace significa ridurre la complessità estetica ad un'unica dimensione, errore per menti addomesticate a dire tutto con un mi piace, eppure i miti più antichi della storia umana narrano di guerra. L'Iliade è un canto di guerra, come il Mahābhārata. I testi biblici più antichi sono l'epopea di un popolo in guerra. La guerra non è solo nella nostra natura, triste retaggio di un passato evolutivo non lontano. La guerra è l'atto sacrificale per eccellenza e il sacrificio è atto per placare l'ira del dio che altrimenti metterebbe fine alla nostra vita. Oggi è una bestemmia dire che la guerra ha una dimensione religiosa eppure non riusciremo a capire veramente la morbosa attenzione alla guerra se non partendo da questa premessa. La trasposizione simbolica del sacrificio non è stata realizzata completamente, restano ampi settori, i più primitivi, in cui l'atto sacrificale è compiuto secondo gli antichi riti, sebbene trasmessi in mondovisione con la tecnologia più avanzata. Rigettare questa premessa è una delle attività cui la specie sapiente si dedica con indicibile cura tra una guerra e l'altra.

domenica 24 aprile 2022

Negli occhi

Entrasti in casa mia facendo irruzione. Neanche ti degnasti di bussare, malafimmina. Sei entrata come un fulmine. Un rumore assordante schiantò la porta di casa. Un’anta si fermò sul muro della stalla, l’altra cadde nel pozzo. A me sembravi l’angelo dell’apocalisse e invece eri tu, malafimmina. Io non ti volevo fare entrare in casa mia. Ti facevi chiamare Storia e in paese non ti conosceva nessuno. A casa mia nessuno sapeva niente di te. A me bastavano i fatti di tutti i giorni. Nella mia storia mio figlio sarebbe tornato a casa dopo il lavoro, mi avrebbe chiesto come è andata la giornata e io mi sarei lamentata del maltempo e dei dolori alle ossa. Da quando sei entrata in casa mio figlio non tornerà più. Lo hanno ucciso e insieme a lui hanno ucciso me. Altri leggeranno nel mio nome il mio destino, come se fosse bastato un altro nome per avere un altro destino. Me lo hanno cambiato il nome, per colpa tua me lo hanno cambiato. Me lo hanno cambiato dopo, quando ormai tu mi avevi trovata e un nome valeva l'altro. Ora non so più chi sono. Da questa casa non uscirò più e non uscirai più neanche tu. Dico a te malafimmina, sei voluta entrare in questa casa e allora ti toccherà vivere con me fino alla fine dei miei giorni. Ti toccherà guardarmi negli occhi ogni ora del giorno e della notte. Io non uscirò più da questa casa e tu resterai qui con me. I miei occhi saranno la tua e la mia pena. Ti toccherà guardarmi negli occhi quando dici che per te si muore a vent’anni. Ti toccherà guardarmi negli occhi ogni volta che ricordi i tuoi eroi. Li chiami figli ma tu non li hai partoriti. Tu non hai gridato mentre il ventre si apriva per darli alla luce.Tu non hai sentito sulla tua carne il calore della loro bocca mentre tirava il latte dal tuo seno. Il tuo seno è freddo come le tue lapidi, la tua memoria è fredda, i tuoi discorsi sono freddi, i tuoi libri sono freddi e io non so neanche leggere. Io non li so leggere i tuoi libri e tu non sai leggere i miei occhi. Analfabete tutte e due, resteremo in questa casa fino alla fine dei miei giorni.

sabato 23 aprile 2022

In principio era il verbo uccidere

In principio era il verbo uccidere. Un correttore ortografico, T9 o T4, non ricordo bene, mutò la coniugazione. Cambiò l’infinito con il passato remoto per lasciare alle spalle colpe e rimorsi. La natura aveva insegnato tempo e modo. Non andava perso tempo, altrimenti la morte avrebbe bussato alla porta e toccava lasciarla entrare. Si fece un patto con la sorte, si barattò una vita per un’altra, così da rinviare il transito dell’ospite sgradito. È questo il sacrificio, sacrum facĕre. Muore un agnello, un Dio, un fratello, una madre. Muore un popolo eletto a sorte. Per ogni oscillazione di pendolo si celebra un sacrificio sull’altare della storia. L’agnello sgozzato non è sempre innocente. Se fosse nato lupo non avrebbe versato una lacrima per la vittima. È la storia che lo chiede. Tocca far funzionare il sistema e il valore aggiunto dell’industria della guerra è più alto di quello dell’industria di pace. È tutto nei tempi, nelle asimmetrie. Per buttare giù un edificio basta poco tempo, molto meno di quanto ne serve per costruirlo. Per buttarlo giù basta un uomo che lascia cadere distrattamente una bomba o preme il bottone per il lancio di un missile. Per costruirlo serve un esercito di uomini malpagati, armati di mattoni e pazienza. Distruggere è più facile che costruire ma l’officiante del sacrificio sa che non si può costruire senza distruggere e allora viva l’azione. Questo conta per chiudere la porta all’ospite ingrato. L’azione, fosse anche per interposta persona e a debita distanza geografica. Distruggere è agire. Costruire è agire. La pace è passiva o meglio, è azione talmente lenta da snervare per noia. Operazione a bassa resa per l’economia truccata. Tocca dare uno scossone ogni tanto. Muovere l’economia dei miti e quella degli armamenti. C’è bisogno di competenze straordinarie, ricerca assidua e personale dedicato. Niente di meglio per rimediare in tempi rapidi alla temibile recessione. E poi l’occasione è propizia. La terra è generosa di dittatori da scacciare. Semente antica, piantata con cura e con altrettanta cura coltivata per il raccolto quando i tempi sono maturi. Il mondo è complicato, si stupiva mia madre abituata a lavori ordinari. Preparare da mangiare, togliere la polvere dai mobili, mettere in ordine l’universo.
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