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mercoledì 3 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (49)]

Quando si tenta di spiegare il perché dei fenomeni naturali, il ricorso al concetto di materia, spesso accompagnato dall’epiteto “bruta”, desta sempre un certo imbarazzo nelle menti poco avvezze a rinunciare a un altro concetto che, come quello di materia, ha avuto alterne fortune e sicuri fraintendimenti nella storia del pensiero, quello del “senso”. Le temute, prima che comprese, spiegazioni “puramente materialiste” lasciano poco soddisfatti perché rinuncerebbero a porsi la domanda in cui Günther Anders riconosceva il fondamento del “senso”, ossia “che aveva in mente il creatore?”[1] svelando la dimensione teologica del ricorso al concetto di senso.
La materia, se guardiamo bene alla “fonte dell’idealismo rachitico”[2] che Musil denunciava agli inizi del secolo scorso e che in Occidente ha la sua origine nel pensiero di Platone, rivela una natura non meno “bruta” del tanto agognato pensiero e dell’ancor più ambito spirito. Infatti, già qualche decennio prima di Anders, Robert Musil chiariva “la differenza tra causalità e motivazione. La causalità cerca la regolarità, constata ciò che è soggetto ad un vincolo permanente. La motivazione spiega il ‘motivo’ suscitando un impulso ad agire, a sentire, a pensare nello stesso modo. Su ciò si fonda la distinzione di cui s’è detto fra esperienza scientifica e esperienza di vita”[3]. In risposta al conteso primato della conoscenza tra le posizioni naturalistiche e romantiche Musil faceva notare come “dal naturalismo nacque una realtà senza spirito, dall’espressionismo uno spirito senza realtà: non era ‘spirito’ né l’uno, né l’altro. Ma dall’altro lato s’avanza quella certa razionalità asciutta come un pesce secco che noi tedeschi ben conosciamo, e i due contendenti sono più o meno della stessa forza.[4]
La materia manifesta processi di auto-organizzazione nel mondo inorganico e vivente che si prestano a molteplici letture. Il grande inganno della complessità degli organismi viventi può essere letto in chiave causale ma, ammettiamolo pure, non si sottrae a una lettura in chiave motivazionale. Per quanto riguarda quest’ultima chiave di lettura possiamo anche sostenere che si tratta di tesi rigettabili e di nessun interesse scientifico ma il punto essenziale è che resta valida l’impossibilità di escludere i fondamenti pregiudiziali della conoscenza tanto per un soggetto che affronta l’esistente con gli strumenti del raziocinio scientifico quanto per il soggetto che li affronta con quelli della fede. Diventa abbastanza comico osservare come, a volte, i due modi di pensare, qualcuno parlerebbe addirittura di magisteri, si mescolino. Non sono rare invocazioni a una fantomatica logica che condurrebbe dall’inorganico al vivente e successivamente alla coscienza, come potrebbe essere altrimenti del resto, se a formulare tale logica è un pensiero cosciente? Da parte mia invoco una epoché, per quanto ne so la logica non dovrebbe avere alcun ruolo in questa vicenda.
La logica dei processi in questo ambito (materia organica/biologica che succede a quella inorganica) è un vestito che possiamo cucire solo a posteriori. Se vogliamo usare la logica per interpretare ciò che fa parte degli osservabili, bene, ma inevitabilmente insorgono problemi epistemologici se la invochiamo per interpretare il passaggio dal non osservabile all’osservabile.
E’ evidente che siamo partecipi di una materia che si auto-organizza, ciò che mi lascia perplesso sono le premesse di un discorso motivazionale ovvero della inevitabilità degli esiti. Penso sinceramente che i meccanismi validi per spiegare gli eventi biologici “sono tanto importanti per noi quanto irrilevanti nell’economia complessiva dell’universo” (Edoardo Boncinelli, nell’introduzione all’edizione italiana del libro di E. Mayr[5]).
Il senso non è certamente cosa da liquidare con un semplice «non esiste», occorre stabilire con onestà quale statuto ontologico va dato al senso, se quello della scoperta o quello dell’invenzione, del già dato eppure nascosto o della continua costruzione. Anders sostiene che “il nostro concetto di senso appunto è solo storicamente deducibile, ma non spiegabile filosoficamente”[6] e, per scongiurare eventuali rivendicazioni da parte di scienziati troppo frettolosi di celebrare inutili, quanto fasulle, vittorie sull’indagine filosofica, afferma “che la loro esistenza a sua volta potrebbe essere insensata, non se ne sono accorti, accecati come sono dalla bellezza e dalla necessità”[7].
Di qui, l’ approfondimento del “possibile antropologico”.

[1] G. Anders, L’uomo è antiquato, Vol. II, Bollati Boringhieri, 2007, p. 357.
[2] R. Musil, Spirito ed esperienza. Note per i lettori scampati al tramonto dell’occidente, 1921. In Sulla stupidità e altri scritti, Oscar Mondadori, 1986. p. 103.
[3] R. Musil, op. cit., p. 93.
[4] R. Musil, op. cit., p. 103.
[5] Ernst Mayr, L’unicità della biologia - Sull’autonomia di una disciplina scientifica, Raffaello Cortina Editore, 2005, p. XII
[6] G. Anders, op. cit., p. 357.
[7] G. Anders, op. cit., p. 358.

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