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giovedì 5 maggio 2022

L'estetica della guerra

Il colosso di Rodi, 1961. Una delle prime regie di Sergio Leone, filone falso mitologico che ha portato sul grande schermo tanti eroi e altrettanti ne ha inventati. Testimonianza per mio padre che la storia è fatta di guerra e triste esempio per le generazioni future allevate all'insegna della sopraffazione, come se la guerra fosse questione di pedagogia. Mamma avrebbe detto la stessa cosa guardando con orrore uccisioni visibilmente teatrali, anche se l'eccessiva affettazione di alcune scene le avrebbe fatto esprimere stupore per la sua credulità da bambina. Oggi quelle scene non sarebbero credibili a un dodicenne. L'estetica della guerra è cambiata, la verosimiglianza ha mutato registro e la recitazione, così come la tecnologia al servizio del cinema, si è adeguata. È più vera l'attuale ricostruzione della guerra? Quando i miei genitori erano giovani la ricostruzione cui assistevano era per loro altrettanto vera. I miei genitori verrebbero sopraffatti dai troppi effetti speciali dei film di oggi. Vivono questi come una pantomima troppo urlata o, ritenendoli troppo "veri", hanno bisogno di un margine di finzione per salvare la loro sensibilità? Margine che vedono solo oggi nei film della loro gioventù. Un margine che i film di oggi riducono al minimo e nel quale i loro sensi non riescono a discernere il vero dal falso, esattamente come quando mia madre bambina credeva alle scene di Maciste in guerra. Ma se è vero che la tecnica a disposizione consente una sempre maggiore verosimiglianza e che i nostri sensi diventano sempre più abili a distinguere la realtà dalla finzione non sarà altrettanto vero che avremmo bisogno di guerre vere per soddisfare la richiesta di spostare l'attenzione della morte? Le guerre altrui, vere o finte, non sono forse, nella loro dimensione spettacolare, un tentativo di sviare la morte, come fosse un sacrificio offerto al Dio Marte per placare la sua sete di sangue e distoglierlo da noi? I film sono una rappresentazione scenica, quasi liturgica, per allontanare/catturare l'attenzione dello spirito della morte. Oggi che anche i dodicenni sono smaliziati da riconoscere la finzione filmica più sofisticata questa funzione e assolta dalla guerra autentica dove si muore sul serio, con grande soddisfazione dell'antico Dio e, dispiace dirlo, nostra! I sacerdoti di questa liturgia, a debita distanza dalle zone di guerra, sono i venditori di opinioni nei cosiddetti talk show, altari dove si immolano le vittime lontane e il pensiero ancora più lontano, agnello nato morto che per esigenze teatrali si crede vivo. I fedeli a casa assistono la celebrazione tra la preoccupazione e l'inedia, assuefatti alla conta del giorno dopo per la divisione del pane e dell'audience. Dire che la guerra piace significa ridurre la complessità estetica ad un'unica dimensione, errore per menti addomesticate a dire tutto con un mi piace, eppure i miti più antichi della storia umana narrano di guerra. L'Iliade è un canto di guerra, come il Mahābhārata. I testi biblici più antichi sono l'epopea di un popolo in guerra. La guerra non è solo nella nostra natura, triste retaggio di un passato evolutivo non lontano. La guerra è l'atto sacrificale per eccellenza e il sacrificio è atto per placare l'ira del dio che altrimenti metterebbe fine alla nostra vita. Oggi è una bestemmia dire che la guerra ha una dimensione religiosa eppure non riusciremo a capire veramente la morbosa attenzione alla guerra se non partendo da questa premessa. La trasposizione simbolica del sacrificio non è stata realizzata completamente, restano ampi settori, i più primitivi, in cui l'atto sacrificale è compiuto secondo gli antichi riti, sebbene trasmessi in mondovisione con la tecnologia più avanzata. Rigettare questa premessa è una delle attività cui la specie sapiente si dedica con indicibile cura tra una guerra e l'altra.

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