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venerdì 6 marzo 2009

I tempi delle crisi

Berlusconi dice che la crisi economica c'è ma che i media esagerano. Naturalmente non si è fatto mancare l'occasione per lanciare il suo canto di dolore per essere continuamente bersaglio di critiche, povera creaturella!
Per un momento penso che a proposito della crisi abbia ragione. Non perchè ritenga utile o intelligente il suo ottimismo a buon mercato, anzi. Apprezzo l'ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione di gramsciana memoria, e qui solo un idiota non vedrebbe che siamo su un altro pianeta. Penso tuttavia che abbia ragione, anche se non so quanto ne sia consapevole, perchè la vera crisi di questo paese non è quella economica ma è quella che si infiltra negli animi delle persone privandole della volontà, della consapevolezza di essere cittadini. Si potrebbe parlare di crisi morale ma sarebbe solo una pallida similitudine con la madre della crisi, è molto di più, è la crisi della volontà, e la crisi morale non è che una delle sue figlie.
Non è una crisi di oggi, viene da molto lontano e forse c'è qualcosa di strisciante in noi italiani che la fa essere sempre presente, a volte latente, a volte paradossalmente manifesta. Dico paradossalmente manifesta perchè se devo sintetizzarla in una battuta è proprio la vocazione all'invisibilità che diventa diffusa tra gli italiani.
Al di là delle origini di questa crisi, la cui analisi è oltre le mie capacità, ciò che mi spaventa sono i suoi tempi, la sua durata. La crisi economica durerà 2, 3, forse 5 anni, nella storia recente ce ne state altre e i loro tempi bene o male sono stati questi. Non sottovaluto le situazioni drammatiche della crisi economica ma le crisi che temo di più hanno tempi molto più lunghi, a volte possono durare decenni e gli esiti lasciano strascichi per intere generazioni. Queste crisi non cambiano solo l'economia di un paese ma si infiltrano nella mente delle persone, ne mortificano i desideri, le passioni, al punto da condurle a pensare che è meglio non averne alcuno. Anche in questo caso la nostra storia può dirci qualcosa.
Oggi non c'è il rischio di autoritarismo del passato, i tempi fortunatamente sono cambiati. Ha ragione Sartori quando dice che non si può parlare di regime, al più di un sultanato, resta la comune matrice che toglie alimento alla democrazia in maniera strisciante.

Nel 1917, il fascismo era di là da venire, Antonio Gramsci sentì nell'aria l'odore di quella crisi, la vide chiaramente ancor prima che arrivasse eppure, vent'anni dopo, non potè vederne la fine.

"INDIFFERENTI
Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che "vivere vuol dire essere partigiani". Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
L'indifferenza è il peso morto della storia. E' la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall'impresa eroica.
L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E' la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costrutti; è la materia bruta che si ribella all'intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all'iniziativa dei pochi che operano, quanto all'indifferenza, all'assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell'ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un'epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell'ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un'eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch'io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.
I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.
Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l'attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento.
Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti."

Antonio Gramsci, La Città futura, numero unico pubblicato dalla Federazione giovanile socialista piemontese, 11 febbraio 1917.
In: A. Gramsci, Le opere, a cura di A.A. Santucci, Editori Riuniti, 1997, p. 23-25.


Io non so dire se davvero odio gli indifferenti. La sofferenza che vedo nei volti di molti indifferenti, il tintinnio di catene invisibili mi impedisce il sentimento dell'odio, ma è certo che mi fanno molta paura. E' altrettanto certo che invece odio, fortemente odio, i maestri dell'indifferenza, coloro che a qualunque livello esercitano il loro effetto di livellamento che annulla la differenza delle persone. Ma, in definitiva, chi sono questi maestri dell'indifferenza se non ex indifferenti?

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