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lunedì 18 maggio 2009

Il regno di Cupido e di Dioniso

«Per Martin è un giorno come tutti gli altri. Come al solito si è alzato prima di sua moglie, si è messo davanti allo specchio e si è fatto la barba. Lo ha fatto accuratamente, senza trascurare la minima parte del viso. Poi, come ogni mattina, ha mangiato le sue uova, senza lasciarne neanche una briciola. E ha guardato il notiziario alla televisione. Il mondo per Martin è semplice, come può esserlo per ciascuno di noi. Ma quando sua moglie alza gli occhi verso di lui vede tutt'altra cosa: vede un uomo che ha la metà destra del viso perfettamente rasata, mentre l'altra metà è ispida, trascurata. E Martin ha mangiato solo le uova che si trovavano nella parte destra del piatto, mentre quelle a sinistra sono rimaste intatte.» Dal sito di Le Scienze.

Si tratta di un caso di negligenza spaziale unilaterale insorto in seguito ad un ictus che ha limitato la sfera percettiva del soggetto alla sola parte destra del suo campo visivo, non si tratta di mancanza di visione di ciò che avviene nella parte sinistra ma di mancanza di consapevolezza o di attenzione per un lato del corpo e dello spazio o degli eventi che si verificano dal lato opposto a quello del danno cerebrale. Più frequentemente la lesione cerebrale è situata nell'emisfero destro ed il deficit si manifesta nell’incapacità di orientare l’attenzione verso sinistra.
Questo caso clinico mi ha ricordato i numerosi casi descritti da Oliver Sacks in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, un libro bellissimo e sconvolgente che lessi qualche anno fa e che consiglio vivamente di leggere.
Sacks ci avverte “Qui ormai navighiamo in acque sconosciute, dove può accadere di dover capovolgere tutte le solite considerazioni, dove la malattia può essere benessere e la normalità malattia, dove l’eccitazione può essere schiavitù o liberazione e dove la realtà può trovarsi nell’ebbrezza, non nella sobrietà. E’ veramente il regno di Cupido e di Dioniso.” (p. 149)
Tra i casi descritti da Sacks c’è anche la vicenda della signora S., colpita da un ictus massivo che le aveva compromesso le aree profonde dell’emisfero cerebrale destro, lasciando intatta la sua intelligenza e il suo senso dell’umorismo. Un caso simile a quello di Martin. Scrive Sacks, “Essa ha completamente perduto l’idea di «sinistra», per quanto riguarda sia il mondo esterno sia il proprio corpo.”
Il neurologo descrive come la signora cercasse di compensare il suo deficit, girando lentamente a destra fino a descrivere un cerchio. In questo modo poteva risolvere almeno i problemi più banali, come trovare le portate del suo pranzo fino a saziarsi, tuttavia c’era sempre un lato sinistro del suo campo visivo che veniva ignorato.
“«E’ assurdo» dice la signora S. «Mi sento come la freccia di Zenone: non arrivo mai alla meta. Sarà anche buffo ma, date le circostanze, che altro posso fare?»”.
E’ facile pensare che è più semplice far ruotare il piatto invece che sé stessi, anche la signora S. se ne convinse e ci provò ma la cosa le risultò molto più difficile che ruotare intorno a sé stessa. “Il suo sguardo, la sua attenzione, i suoi movimenti e impulsi spontanei sono ormai tutti esclusivamente e istintivamente rivolti a destra.” Nemmeno un sistema di specchi risolse il problema della signora, anzi ogni tentativo diverso dal suo girare intorno a sé stessa la disorientava ancora di più.
Avevo pensato di riportare quel racconto ma ne ho preferito un altro.


Il discorso del Presidente


Che diavolo succedeva? Uno scroscio di risa dal reparto afasici, proprio all’inizio del discorso del Presidente, che tutti erano così ansiosi di sentire…
Eccolo là, il vecchio Seduttore, l’Attore, con la sua consumata retorica, il suo istrionismo, la sua bravura nel far leva sulle emozioni… e i pazienti si torcevano tutti dal ridere! Be’, non proprio tutti: alcuni erano sconcertati, altri scandalizzati, uno o due preoccupati, ma la maggior parte pareva divertirsi un mondo. Il Presidente, come sempre, toccava il tasto della commozione; ma ora, a quanto pareva, ne ricavava soprattutto ilarità. Che cosa succedeva a tutti quanti? Che cosa credevano? Non riuscivano a capirlo? O forse lo capivano fin troppo bene?
Spesso questi pazienti, persone intelligenti ma affette da una gravissima afasia percettiva o globale che le rendeva incapaci di capire le parole come tali, si diceva che ciò nonostante capivano la maggior parte di quanto veniva loro detto. I loro amici, i parenti, le infermiere che li conoscevano bene, talvolta stentavano a credere che fossero davvero afasici.
Questo perché, se ci si rivolgeva loro con naturalezza, essi afferravano in parte o quasi completamente il senso della frase o del discorso. E naturalmente si parla «naturalmente».
Sicché per dimostrare la loro afasia, il neurologo doveva di proposito e con un bel po’ di sforzo parlare e comportarsi in modo innaturale, eliminare tutti gli elementi rivelatori extraverbali: il tono della voce, l’intonazione, lo sottolineature o le inflessioni evocative, e inoltre gli ausilii visivi: le espressioni del viso, i gesti, tutto il proprio repertorio personale e la propria postura, che sono in gran parte inconsci. Doveva eliminare tutto questo (il che poteva anche significare l’occultamento totale della propria persona e la completa spersonalizzazione della propria voce, fino al punto di usare un sintetizzatore di voce computerizzato), per ridurre il linguaggio a pure parole, un linguaggio completamente spogliato di ciò che Frege chiamava «coloritura del suono», timbro (Klangfarbe) o «evocazione». Con i pazienti affetti da deficit più sottile era solo usando questo modo di parlare meccanico, fortemente artificiale (abbastanza simile a quello dei computer di Star Trek) che si poteva essere davvero sicuri della loro afasia.
Perché tutto questo? Perché il linguaggio, il linguaggio naturale, non consiste di sole parole, né (come riteneva Hughlings Jackson) di sole «proposizioni». Esso consiste di espressione, dell’espressione di tutto il proprio pensiero con tutto il proprio essere, la cui comprensione implica molto più del semplice riconoscimento delle parole. Questa era la chiave per capire il modo di capire degli afasici anche quando sono del tutto incapaci di capire le parole in sé. Perché anche se le parole, le costruzioni verbali, di per sé a volte non trasmettono nulla, il linguaggio parlato è di solito soffuso di «tono», circondato da un’espressività che trascende il verbale; ed è appunto questa espressività, così profonda, così varia, così complessa, così sottile, che è perfettamente conservata nell’afasia, nonostante sia distrutta la capacità di comprendere le parole. Conservata, e spesso addirittura straordinariamente potenziata.
Ciò si rivela con chiarezza – e spesso in modo assai sorprendente, comico o drammatico – a tutti coloro che lavorano o vivono a contatto con gli afasici: i familiari, gli amici, le infermiere, i medici. In un primo momento, forse, non ci si accorge di nulla; ma poi si scopre che c’è stato un grande cambiamento, quasi un capovolgimento, nella loro comprensione del linguaggio. Qualcosa è scomparso, è stato distrutto, è vero; ma in sua vece è subentrato, è stato enormemente potenziato qualcos’altro, per cui (almeno nel caso di espressioni con forte carica emotiva) vi può essere piena comprensione del significato anche là dove va perduta ogni parola. Nella nostra specie Homo loquens ciò sembra quasi un capovolgimento dell’ordine comune delle cose: un capovolgimento, e forse anche una reversione a qualcosa di più primitivo ed elementare. Per questo, forse, Hughlings Jackson paragonava gli afasici ai cani (paragone che potrebbe indignare entrambi!), anche se si riferiva soprattutto alle loro insufficienze linguistiche più che alla loro notevole e quasi infallibile capacità di cogliere il «tono» e il sentimento. Più sensibile a questo riguardo, Henry Head nel suo trattato sull’afasia (1926) parla di «feeling-tone », tono emotivo, e mette in rilievo come negli afasici esso sia conservato e spesso potenziato.
Di qui, talvolta, l’impressione – mia e di tutti noi che lavoriamo a stretto contatto con gli afasici – che a un afasico non si può mentire. Egli non riesce ad afferrare le tue parole, e quindi non può esserne ingannato; ma l’espressione che accompagna le parole, quell’espressività totale, spontanea, involontaria che non può mai essere simulata o contraffatta, come possono esserlo, fin troppo facilmente, le parole… tutto questo egli lo afferra con precisione infallibile.
E’ un’abilità che riconosciamo nei cani, e per questo li usiamo spesso proprio per individuare falsità, malevolenza, intenzioni equivoche, per capire di chi possiamo fidarci, chi è onesto, chi ha ragione, quando noi, così influenzati dalle parole, non possiamo fare affidamento sui nostri istinti.
La stessa capacità dei cani l’hanno gli afasici, e ad un livello umano e immensamente superiore. «Si può mentire con la bocca,» scrive Nietzsche «ma con la smorfia che l’accompagna si dice ugualmente la verità». Per questa smorfia, per ogni falsità o improprietà nell’aspetto fisico o nella postura, gli afasici hanno una sensibilità eccezionale. E se non possono vedere la persona (soprattutto nel caso dei nostri afasici ciechi), hanno un orecchio infallibile per ogni sfumatura della voce, per il tono, il ritmo, le cadenze, la musica, le più sottili modulazioni, inflessioni e intonazioni che possono dare, o togliere, credibilità a un voce umana.
In questo risiede dunque la loro capacità di comprensione: possono capire, senza le parole, ciò che è genuino o non lo è. Erano quindi le smorfie, gli istrionismi, i gesti e soprattutto i toni e le cadenze della voce a suonare falsi per questi pazienti privi di parola ma dotati di un’immensa sensibilità. E perciò, non ingannati e non ingannabili dalle parole, essi reagivano a queste incongruità e improprietà che apparivano loro smaccate e addirittura grottesche.
Ecco perché ridevano al discorso del Presidente.
Se non è possibile mentire a un afasico, data la sua particolare sensibilità all’espressione e al «tono», che cosa succede, viene da chiedersi, ai pazienti (se ve ne sono) che mancano completamente del senso dell’espressione e del «tono» pur conservando immutata la capacità di comprendere le parole, pazienti che sono l’esatto contrario degli afasici? Noi ne abbiamo un certo numero, e sono ricoverati anch’essi nel reparto afasici, benché, tecnicamente parlando, non siano affetti da afasia, ma piuttosto da una forma di agnosia, in particolare da un’agnosia cosiddetta «tonale». Per questi pazienti scompaiono le qualità espressive della voce, ossia il tono, il timbro, la sfumatura emotiva, l’intero carattere, mentre sono perfettamente comprensibili le parole (e le costruzioni grammaticali). Tali agnosie tonali (o «atonie») sono associate a turbe del lobo temporale destro del cervello, mentre le afasie si accompagnano a turbe del lobo temporale sinistro.
Tra i pazienti del nostro reparto afasici affetti da agnosia tonale, anch’essi spettatori del discorso del Presidente, ce n’era una che aveva un glioma nel lobo temporale destro. Si chiamava Emily D. ed era stata insegnate d’inglese e poetessa di una certa fama; grazie alla sua eccezionale sensibilità linguistica e alle sue vigorose capacità analitiche ed espressive, era in grado di formulare chiaramente la situazione opposta: come era inteso il discorso del Presidente da una persona affetta da agnosia tonale.
Emily D. non era più in grado di dire se una voce fosse arrabbiata, allegra, triste o altro. Dal momento che per lei ora le voci erano prive di espressione, doveva osservare il volto delle persone, le loro posture e i gesti che accompagnavano le loro parole, e scoprì di farlo con un’attenzione e un’intensità mai dimostrate prima. Ma anche in questo, purtroppo, era parzialmente impedita poiché aveva un glioma maligno e stava rapidamente perdendo anche la vista.
Scoprì allora che doveva prestare la massima attenzione all’esattezza delle parole e del loro uso, e insistere perché gli altri facessero lo stesso con lei. Le era sempre più difficile seguire un linguaggio di tipo allusivo o emotivo, ed esigeva sempre più dai suoi interlocutori che parlassero in prosa: «parole esatte al posto esatto». La prosa, come scoprì, poteva in certa misura compensare la mancata percezione del tono o del sentimento.
In questo modo fu in grado di conservare, e anzi di potenziare, l’uso del linguaggio «espressivo» (nel quale il significato era dato interamente dalla giusta scelta e referenzialità delle parole), pur trovandosi sempre più spersa di fronte al linguaggio «evocativo» (dove il significato è dato interamente dall’uso e dal senso del tono).
Anche Emily D. ascoltava dunque, con volto impassibile, il discorso del Presidente, servendosi di una strana mescolanza di percezioni potenziate e difettose – una mescolanza che era l’esatto contrario di quella dei nostri afasici. Il discorso non suscitò emozioni in lei – nessun discorso ormai aveva questo effetto – e tutto ciò che era evocativo, autentico o falso le sfuggì completamente. Ma allora Emily, priva di reazione emotiva, fu trascinata o abbindolata, come noi tutti? Niente affatto. «Non è convincente» disse. «Non usa una prosa chiara. Usa le parole in modo improprio. O ha dei disturbi cerebrali oppure ha qualcosa da nascondere». Così il discorso del Presidente non funzionò neanche per Emily D., con la sua sviluppata sensibilità per l’uso formale del linguaggio, per la proprietà e la prosa, così come non funzionò per i nostri afasici, con la loro sordità alle parole ma anche la loro sviluppata sensibilità al tono.
Ecco dunque dov’era il paradosso del discorso del Presidente. Noi normali, indubbiamente aiutati dal nostro desiderio di essere menati per il naso, fummo veramente menati per il naso (populus vult decipi, ergo decipiatur). E così astuta era stata la combinazione di un uso ingannevole delle parole con un tono ingannatore che solo i cerebrolesi ne rimasero indenni, e sfuggirono all’inganno.

Oliver W. Sacks, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Adelphi, 1986, p. 113-119.

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