"Concludiamone dunque che il mondo sarebbe assai migliore se ciascuno si accontentasse di quello che dice, senza aspettarsi che gli rispondano, e soprattutto senza chiederlo né desiderarlo." José Saramago
mercoledì 27 maggio 2009
Quanti regni ci ignorano!
Le nostre percezioni ci informano delle variazioni dell’ambiente che ci circonda. Le viviamo come un riflesso della realtà esterna e le consideriamo dotate di proprietà di integrità e totalità che di fatto non hanno. In presenza di un caminetto dove arde la legna sentiamo caldo, viviamo un esperienza unica, la sentiamo intera, ma i tre canali di informazione (visivo del caminetto, uditivo del crepitio della legna e tattile del caldo) viaggiano su vie sensoriali differenti e senza una opportuna integrazione del nostro sistema cognitivo non saremmo in grado di considerare i tre eventi associati tra loro come un evento unico. In ogni caso non siamo naturalmente dotati della visione infrarossa che ci farà ignorare un rilevante aspetto di quel contesto, non ascolteremo gli infrasuoni emessi durante la combustione della legna né sentiremo la variazione di pressione che l’aria rarefatta dal calore esercita sul nostro corpo. Eppure ci sono organismi che hanno quelle percezioni, vivono di quelle percezioni che noi ignoriamo nella nostra vita quotidiana, e che possiamo conoscere solo con l’ausilio di una idonea strumentazione.
Il nostro sistema sensoriale si è sviluppato e opera nel contesto di una scala spaziale e temporale caratteristica della nostra linea evolutiva e risponde, come per ogni altro organismo, all’esigenza di sopravvivere nel nostro ambiente. Si può dire che Homo sapiens “trascende” la mera sopravvivenza e che il nostro pensiero è in grado di attraversare le diverse scale. Einstein e Mandelbrot ci hanno dimostrato che in un secondo possono trascorrere decenni e che in un centimetro quadrato possono esserci distese di chilometri, in altre parole abbiamo la capacità di conoscere quanto non fa parte della nostra esperienza quotidiana. Inoltre, come ho detto prima, sebbene non dotati degli stessi apparati sensoriali di molti animali possiamo conoscere e forse capire le loro percezioni. Tuttavia si dovrebbe operare una prudente distinzione tra le nostre capacità di astrazione e quelle sensoriali, sebbene non possano dirsi completamente indipendenti tra loro, i meccanismi che le sottendono sono abbastanza diversi. Ad ogni modo se è vero che la specie sapiens non pensa solo in termini di sopravvivenza, è altrettanto vero che non può pensare per troppo tempo nei termini che la negano. E’ ovvio, banale e tautologico, ma senza questo circolo la nostra specie non durerebbe nel tempo, né vi è alcuna garanzia che durerà in effetti!
Nel caso del caminetto e della legna che arde l’integrazione sensoriale che operiamo è sufficiente per evitare ustioni e probabilmente i raggi infrarossi non costituiscono uno stimolo direttamente connesso a un problema di sopravvivenza. A questo punto è lecito chiedersi se vi siano delle integrazioni che non avvengono o stimoli che ci sfuggono perché non immediatamente condizionati dal vincolo di sopravvivenza. La percezione in fin dei conti può essere considerata come una sorta di ipotesi dedotta dai dati cui un organismo ha accesso perché in relazione con la sua conservazione.[1]
Non è necessario, e forse neanche possibile, che una ipotesi comprenda la totalità dell’ambiente che circonda un organismo ma solo quella parte che può condizionare la sua vita. Possiamo pensare che la realtà che percepiamo sia l’unica necessaria alla nostra esistenza ma sarebbe un errore enorme. La realtà che percepiamo con i nostri sensi è una fetta della realtà che ci circonda, una fetta sufficiente alla nostra esistenza. Vista l’enorme varietà di apparati sensoriali e le differenti sensibilità alla realtà che caratterizzano gli organismi viventi non si può parlare di condizione necessaria. Sulle altre fette della realtà si aprono le domande: di quali attrezzi disponiamo? E’ sufficiente il nostro accorato appello alla ragione per informarci della fetta di realtà che ci sfugge?
I danni cerebrali, come quelli di cui scrive Oliver Sacks e che ho accennato in un precedente post, ci informano sulla mappa delle funzioni cerebrali e sulla scissione delle diverse componenti che costituiscono la nostra percezione. Anche in condizioni normali un organismo ritaglia un certo numero di caratteristiche dalla molteplicità di oggetti che lo circondano e reagisce solo a queste, tutto il resto semplicemente non esiste. L’insieme di queste caratteristiche forma l’ambiente di quell’organismo. Diventa quindi evidente che ‘ambiente’ come qualcosa di esterno all’organismo è un concetto abbastanza fuorviante. La struttura sensoriale di organi recettori ed effettori definisce l’ambiente che l’organismo riceve, elabora e a cui l’organismo risponde.[2] L’organizzazione sensoriale di un organismo è il risultato della sua evoluzione biologica e le sollecitazioni/risposte che si è ‘attrezzato’ a ricevere/dare sono frutto di una interazione organismo-ambiente che difficilmente può essere considerata guardando separatamente le sue componenti. Da un punto di vista evolutivo l’ambiente seleziona le capacità di adattamento dell’organismo ma è altrettanto vero che l’ambiente è quella parte di realtà che continuamente l’organismo può selezionare compatibilmente con la sua storia evolutiva. Questo vale per lo sviluppo dei nostri sensi e vale anche per i nostri concetti, frutto di una razionalità intesa in termini di capacità interpretativa delle condizioni esperite in un dato periodo storico e in un dato contesto sociale. In altre parole una capacità che ‘ordina’ le nostre credenze.
Come accennavo prima, il sistema cognitivo di Homo sapiens richiede sicuramente un ulteriore ordine esplicativo rispetto a quello esclusivamente biologico (sopravvivenza e riproduzione) che è quello culturale, relativo quindi non solo ai segnali (informazione) ma anche ai concetti ed alle credenze (significati). Probabilmente per gli animali l’acqua è quel liquido che disseta ma per Talete di Mileto cominciò a essere anche il principio della vita, la differenza è enorme. Steven Rose sostiene che “le nostre menti lavorano con il significato non con l’informazione. In qualche modo la crescita delle capacità mentali, dai nostri antenati unicellulari a Homo sapiens, è avvenuta di pari passo con l’evoluzione di…cosa? Non solo del cervello, ho affermato, ma del cervello nel corpo e di entrambi nella società, nella cultura, nella storia.”[3]
Secondo Daniel Dennett non sono solo le strutture biologiche a essere il risultato di un processo evolutivo ma anche i nostri sistemi di credenze, “i sistemi che si comportavano con quelle che descriveremmo credenze sbagliate, o che ricavavano inferenze inadatte alla situazione nella quale si trovavano, sono stati selezionati negativamente nel corso della storia: avere troppe credenze sbagliate porta all’estinzione.”[4] Condivido abbastanza questa posizione poiché considero la selezione culturale tutta interna alla natura, il più culturale dei concetti, almeno per l’uomo. La natura di H. sapiens non è esclusivamente biologica, sebbene questa sfera ne costituisca il vincolo ineludibile. L’uomo non può sottrarsi alla natura, al massimo può sottrarsi individualmente alla biologia, intesa come sopravvivenza e riproduzione.
E’ una ipotesi plausibile che “gran parte del potere cognitivo dell’uomo si sia evoluto per affrontare una complessità sociale sempre crescente”[5] e sebbene la nostra capacità di ricevere informazioni dall’ambiente sia stata pesantemente determinata dall’eredità biologica evolutiva, comune all’umanità (specie dalla varietà estremamente ridotta, vista la sua ‘recente’ formazione) lo stesso processo percettivo può essere modificato dall’esperienza in contesti sociali differenti assumendo differenti significati.
Negli anni 60 alcuni psicologi e antropologi condussero diversi studi che mettevano in luce le differenze percettive tra le società umane. In uno di questi studi Marshall Segall, Donald Campbell e Melville Herskovits sottoposero delle figure geometriche a soggetti di 15 società diverse[6]. La sensibilità a queste figure variava a seconda che i soggetti esaminati vivessero in ambienti edificati da costruzioni con angoli retti oppure in zone con vista ampia (pianure) o ristretta (foreste pluviali). Nelle figure geometriche gli occidentali vedevano illusioni ottiche.
Molto probabilmente guardando l’illusione di Müller-Lyer[7] direte che la linea rossa a sinistra, dove il ragazzino sta acquistando il suo biglietto, è molto più corta di quella a destra, l’angolo della stanza.
Quelle linee sono perfettamente uguali e le vedete di lunghezza diversa perché vivete in ambienti edificati e siete abituati alle congiunzioni ad angolo retto. Se non ci credete provate a chiedere a un guerriero masai!
Queste simpatiche differenze del nostro sistema percettivo e cognitivo stanno alla base del cosiddetto relativismo culturale (che, detto tra parentesi, è una cosa seria. Non è la barzelletta di quanti, ossessionati dal “proprio” universalismo, gridano anatemi al “lasciarsi portare qua e là da qualsiasi vento di dottrina”[8].)
La realtà che riceviamo attraverso i nostri organi sensoriali viene elaborata attraverso l’apprendimento e la memoria che rappresentano due delle più importanti funzioni cognitive dei mammiferi superiori, classe cui apparteniamo 'trionfalmente'. “Nella nostra specie, l’apprendimento, inteso come modificazione del comportamento in seguito all’acquisizione di nuove informazioni, raggiunge un elevato grado di plasticità in confronto a quanto accade in altre specie animali. Queste elevate capacità di apprendimento hanno consentito all’uomo di modellare, sebbene non sempre in modo positivo, le condizioni ambientali nelle quali si trovava a vivere. Da un punto di vista individuale, l’apprendimento ci permette di modificare il nostro comportamento nel corso dell’intera esistenza, consentendoci un adattamento ottimale alle richieste provenienti dalla società in cui viviamo.”[9]
Che il cervello umano non sia un organo strutturalmente statico è cosa nota dalla fine dell’800. Sempre più numerose evidenze sperimentali hanno dimostrato “due presupposti fondamentali a sostegno del moderno concetto di plasticità del sistema nervoso e cioè che i circuiti cerebrali possono essere modificati nell’arco della vita dell’individuo e che funzioni peculiari del cervello, quali capacità di apprendimento e memoria, implicano continui rimodellamenti strutturali, inclusa la crescita di nuove connessioni.”[10] Quindi in seguito alle nostre esperienze si formano nuove sinapsi per tutta la durata della vita, sebbene con ritmi differenti nel corso degli anni. Nei primi mesi di sviluppo della vita postnatale si ha una sovrapproduzione di contatti sinaptici, mentre con l’avanzare dell’età i meccanismi di rimodellamento strutturale possono andare incontro a significative alterazioni. “Una volta formate le sinapsi, la stabilità stessa della rete di giunzioni è relativa e dipende da quanto viene usata: il ricambio dei componenti usurati è un processo fisiologico di continua ristrutturazione che porta al rinnovo ed eventuale rinforzo delle zone di contatto”, ma le neonate strutture possono degenerare in un paio di settimane se non stimolate con nuovi compiti di apprendimento[11]. E’ pertanto assodato che “lo stato dinamico del complesso sistema nervoso umano, mentre gioca un ruolo importante nell’evoluzione della conoscenza, costituisce il prerequisito fondamentale su cui si basa la sua peculiare abilità di apprendere e ricordare.”[12]
Il nostro sistema percettivo si “sintonizza” sull’ambiente in cui viviamo. Si tratta di meccanismi di regolazione fine che operano sull’ampio substrato comune alla nostra specie. In termini generali purtroppo “la percezione tende a mantenere costante lo sfondo ambientale. Correlato a questo è il fenomeno dell’assuefazione, per cui uno stimolo costante viene ‘scollegato’ dalla coscienza”[13]. Appena avete acceso il vostro computer avete sentito il rumore della ventola ma poco dopo il rumore è stato ‘soppresso’ e non lo avete percepito più, salvo rivolgere la vostra attenzione a quel rumore. A partire da Aristotele molti ci hanno fatto notare che l’abitudine è la nostra seconda natura ma ho qualche dubbio che si sia compresa pienamente anche la prima!
“Il nostro sistema nervoso contiene ‘filtri’ e ‘rivelatori di eventi’ che assicurano che non tutti gli stimoli possibili provenienti dall’ambiente raggiungano indistintamente la nostra coscienza. […] per i nostri antenati rilevare le alterazioni dello sfondo nel corso degli anni e dei decenni era di poco o nullo valore adattativo. La situazione, però, è cambiata e mantenere lo sfondo troppo costante per lunghi periodi risulta essere uno strascico evolutivo indesiderabile. La difficoltà sta nel fatto che le minacce più gravi che oggi l’umanità si trova ad affrontare sono i lenti e deleteri cambiamenti dello stesso sfondo ambientale, che il modo in cui il nostro sistema percettivo si è evoluto ci incoraggia a ignorare. Questi cambiamenti si verificano nel corso di decenni: crescita della popolazione, alterazione graduale del clima a causa del riscaldamento globale, perdita della biodiversità, degradazione del suolo, accumulo di ormoni chimici, pericolosi cambiamenti dell’ambiente epidemiologico e così via. Per gli esseri umani è molto difficile reagire, per esempio, al riscaldamento globale e non solo perché il nostro sistema percettivo non è in grado di rilevare l’aumento della concentrazione dei gas serra nell’atmosfera. Anche se fossero visibili, non noteremmo il cambiamento perché è stato troppo graduale. […] ci sensibilizziamo con difficoltà alle tendenze che si sviluppano gradatamente.”[14]
Erich Fromm nel 1976 diceva, a proposito della cosiddetta società sviluppata, “bisogna metter fine all’attuale situazione, in forza della quale un’economia sana è possibile solo a prezzo della condizione patologica degli esseri umani.”[15] Fromm parlava di una società malata in cui solo l'individuo malato poteva passare per soggetto sano, un individuo perennemente intrappolato in un contesto sociale che chiede il suo “completo adattamento, in modo da apparire desiderabile in tutte le situazioni del mercato delle personalità.” Un contesto che sviluppa o seleziona personalità che “neppure hanno un io (come pure l'avevano gli individui del XIX secolo) al quale aggrapparsi, che appartenga loro, che sia immutabile, perché devono continuamente mutare il proprio io in obbedienza al principio: «Io sono come voi mi desiderate».”[16] Le osservazioni del celebre psicanalista fanno riflettere su un concetto di normalità che solitamente si dà per scontato e sulla reale portata delle nostre capacità di adattamento, al di là dei nostri altisonanti richiami a salti ontologici e capriole metafisiche. In buona sostanza, il rischio di fare affidamento su percezioni e costrutti concettuali che sono il risultato di un processo patologico collettivo e storico non può essere ragionevolmente escluso. Qualcuno può essere scandalizzato da quest’ultima affermazione e dire “ma allora la ragione può vedere quel rischio”. Certo, la ragione può vederlo ma non può vedere sé stessa, non può vedersi interamente, questo ce lo ha insegnato Kurt Gödel negli anni ’30 dell'ultimo secolo dello scorso millennio!
La filosofia ci parla di un essere che viene continuamente fuori dal non-essere-ancora, ci parla della continua possibilità di nuovo essere[17]. Sicuramente quel non-essere-ancora può essere letto in termini di processo evolutivo, grazie al quale "da un così semplice inizio innumerevoli forme, bellissime e meravigliose, si sono evolute e continuano a evolversi"[18]. In particolare, per gli esseri umani può essere letto in termini di struttura cerebrale e di connessioni sinaptiche che si formano continuamente in seguito a nuovi stimoli/significati che entrano nel campo della nostra esperienza. L’ambiente che ci circonda muta continuamente anche in seguito alla nostra stessa attività, per cui viviamo continuamente nuovi ambiti esperienziali che solo pochi anni prima potevano sembrare inconcepibili.
Nel caso degli stimoli che richiedono una riorganizzazione o l’insorgenza di strutture sensoriali si può parlare di condizione sufficiente per la sopravvivenza. L’apparente disgiunzione dei significati dalla sopravvivenza biologica immediata è il terreno della trascendenza umana, una trascendenza “senza trascendenza” piena di sorprese e di pericoli. Un terreno dove gioca un ruolo determinante il ritardo con cui i nuovi significati devono in ogni caso fare i conti con la sopravvivenza.
Quando ci guardiamo intorno e pensiamo alla nostra visione del mondo può essere prudente considerare che potrebbe sfuggirci qualcosa di importante. Tra le tante possibilità non si può scartare del tutto di essere soggetti a una illusione, oppure in attesa della formazione di nuove strutture sinaptiche, o magari in preda a un meccanismo di soppressione della coscienza dovuto a un qualche ‘adattamento’, o in preda a una singolare sindrome di eminegligenza. Potrebbe trattarsi di una negligenza che non coinvolge solo una metà della realtà fisica ma una serie di tasselli sparsi disordinatamente e che tuttavia ci lascia intravedere forme che non si sottraggono alla “prova dei fatti”, non necessariamente con l’intervento di un dio maligno.
La prova dei fatti può lasciarci del tutto soddisfatti ma il non-essere-ancora, oltre a essere fonte inesauribile di essere, ha la curiosa peculiarità di continuare sempre a non essere ancora!
[1] P. Ehrlich, Le nature umane. Codice Edizioni, Torino, 2005, p. 160.
[2] L. von Bertalanffy, Teoria Generale dei Sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni. Mondadori, 1983, p. 344.
P. Ehrlich, op. cit., p. 157-158.
[3] S. Rose, Il cervello del ventunesimo secolo. Spiegare, curare e manipolare la mente. Codice edizioni, 2005, p. 259.
[4] S. Gozzano, L’intenzionalità. In: Filosofia della mente. Pensiero, coscienza, emozioni. Le Scienze, quaderni n. 91, 1996, p. 18.
[5] P. Ehrlich, op. cit., p. 163.
[6] Citato in P. Ehrlich, op. cit., p. 164-166.
[7] http://www.michaelbach.de/ot/sze_muelue/index.html
[8] J. Ratzinger, 18 aprile 2005, nell’omelia della Missa pro eligendo Romano Pontefice, citato da Enzo Bianchi nel Dialogo, Fondamentalismo e religioni, MicroMega 3/2007, p. 194.
[9] V. Cestari, R. Brambilla, I disturbi dell’apprendimento e della memoria. In: Le malattie del cervello. Le Scienze, quaderni n. 119, p. 72.
[10] C. Bertoni-Freddari, Plasticità sinaptica del cervello senile e demente. In: Le malattie del cervello. Le Scienze, quaderni n. 119, p. 86-87.
[11] http://lescienze.espresso.repubblica.it/articolo/Sfida_ai_nuovi_neuroni/1338185
[12] C. Bertoni-Freddari, op. cit., p. 86-87.
[13] P. Ehrlich, op. cit., p. 166.
[14] P. Ehrlich, op. cit., p. 167-168.
[15] E. Fromm, Essere o avere. Mondadori, 1977, p. 229.
[16] E. Fromm, op. cit., p. 194.
[17] E. Bloch, Il principio speranza, Garzanti, 1994. Cfr. G. Fornero, S. Tassinari, Le filosofie del novecento. Bruno Mondadori, Vol 1, p. 507. “Ciò che Bloch dice dell’uomo («L’uomo è ciò che ha ancora molte cose davanti a sé») lo potrebbe ripetere anche della natura, che ritiene percorsa da un impulso originario, una sorta di ‘fame’ di essere che la mantiene sempre incompiuta, protesa al nuovo e al futuro di un non-essere-ancora.”
Documenti disponibili in rete:
G. Micheletti, Il gergo dell'essere. Il linguaggio heideggeriano secondo Löwith, Calogero, Adorno e Ortega y Gasset, 2002.
M. Guffanti, Attendere e domandare: Esser-ci, mondo e metafisica in Essere e Tempo di Martin Heidegger.
[18] C. Darwin, L'origine delle specie. Boringhieri, 1967, p. 554. Sono le ultime parole di un libro che ha sconvolto il mondo. La sua prima edizione vide la luce nel 1859, dopo una soffertissima gestazione. Da quel momento molti non si sono ancora ripresi!
Quest'anno ricorrono 200 anni dalla nascita di Charles Robert Darwin e 150 anni dalla pubblicazione dell'Origine.
Buon compleanno Maestro.
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