"E un'altra cosa so della felicità, che essa è muta. È la perfezione e non consente di essere interrogata. Soltanto il suo esatto contrario ce ne offre, benché approssimativa, una misura. Lo specchio della felicità è il dolore, le sue tenebre danno rilievo a delle forme altrimenti accecanti." Vasco Pratolini, La costanza della ragione, 1963.
Non ricordo più come ci incontrammo ma al primo incontro mi diede una rosa bianca che non ho più dimenticato. Volevo dirle che ne avevo ricevuta una uguale quando sono nato ma forse non avrebbe capito.
Ci scambiammo i nomi e i volti, il mio forse appassito dopo poche ore, il suo ancora disegnato di un gentile sorriso.
Indossava il suo nome con timida eleganza, altri l'avrebbero chiamata discrezione, io sapevo, ne ero convinto, che le costava fatica indossare un abito che poche donne indossano, una pelle troppo sensibile per un sole uguale per tutti. Mi donò il suo nome come si dona una carta preziosa per avvolgere anche i ricordi che non mi appartengono, oggi che mi mescolo tra la folla per continuare a fingere che tutto abbia un senso.
Non basta sentire il proprio dolore per essere vivi. Non basta. Per essere veramente vivi bisogna anche sentire il dolore degli altri. Solo così ci si può preparare alla morte, altrimenti la morte non è qualcosa che abbiamo davanti ma alle nostre spalle. Essersi lasciata la morte alle spalle, sogno oggi largamente realizzato, salvo improvvisi risvegli, significa essere già morti e questo fa di quegli improvvisi e spiacevoli risvegli un sogno nel sogno. Un doppio sogno che facciamo da morti.
Sentire il bisogno di camminare così a lungo da non sapere più se le gambe che fanno male sono tue o di un altro. È questo vivere?
E quando sentiamo solo il dolore degli altri? magari dell'altra che hai accanto? Ma non riesci a fare granché per dissiparne la sofferenza, non riesci a convincerla che passerà? Che morte è quella? O che genere di sogno?
RispondiEliminaConosco quella sofferenza, temo che siamo in tanti a conoscerla, forse tutti, è devastante e lascia segni che non vanno via ma quando associo il sentimento del dolore al vivere non parlo solo di quello, parlo del dolore di chi è lontano, sconosciuto, eppure simile, tanto simile da sentire la sua sofferenza. Un tempo gli altri erano i vicini del quartiere, del villaggio, del paese. Gli altri erano vicini, li conoscevi per nome, conoscevi le loro storie, non potevi non essere coinvolto nelle loro storie, nella loro sofferenza. I media ci hanno fatto conoscere eventi lontani ma non ci fanno sentire vicini gli altri che vivono quegli eventi. Gli altri restano lontani. Se nel primo pensiero parlo di un dolore prossimo, negli altri due è un dolore 'remoto', che tanto remoto non è mai.
EliminaCondivido i vostri commenti. Aggiungo che i media e questa società totalmente esteriorizzata (dove tutto è materializzato fuori di noi) ci fa dimenticare cosa vive dentro di noi allontanandoci dagli altri, ma usando sistemi di massa validi per tutti.
RispondiEliminaUn salutone