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mercoledì 31 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (77)]

Le teorie sistemiche operano una semplificazione della complessità della realtà, maliziosamente si potrebbe pensare addirittura ad una banalizzazione, ma resta l’utilità cognitiva di certe operazioni di schematizzazione, a patto di non dimenticare la fonte dei nostri schemi, la sua meravigliosa e sconcertante variabilità e mutevolezza. La complessità non nasconde il meccanismo, lo costituisce. Dio e il Diavolo giocano a rimpiattino tra i dettagli!

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La critica alla tradizione socialdemocratica, intorno all’esclusività del lavoro e alla disattenzione per le altre sfere sociali, è fondata perché il nocciolo del lavoro è stato lasciato senza la polpa delle relazioni sociali, senza quello che fa del lavoro un momento di aggregazione e di riconoscimento sociale. Il lavoro è stato difeso ma come mezzo di partecipazione alle spese e ai consumi, non come attività di costruzione della comunità civile. Proprio per questo però la critica è, allo stesso tempo infondata, perché l’impoverimento del lavoro perseguito in maniera sistematica a partire dagli anni ottanta anche a sinistra, l’abbandono delle istanze morali che questo comporta da parte di una socialdemocrazia compiacente ai meccanismi economici, in una sorta di euforia planetaria, ha posto al centro del controbilanciamento al capitalismo qualcosa che continua a chiamarsi lavoro ma che è molto simile a una merce particolare solo perché consente di acquistare altre merci.

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Non ricordo chi, forse Popper, forse Bobbio, affermava che la democrazia è un metodo per sostituire i governanti senza spargimento di sangue. Procedendo per analogie, il discorso scientifico, anch’esso possibile solo democraticamente, costituisce una sorta di sublimazione della violenza sostituendo all’eliminazione degli uomini l’eliminazione delle idee (K. Lorenz, nel contesto evolutivo la nascita del pensiero è la sostituzione delle ipotesi all’esperienza concreta, perisce l’ipotesi, non il soggetto). A molti appariranno lontani i tempi in cui le cose del mondo avevano una certa consistenza!

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Esempio di inappellabile razionalità in un sistema folle: convocazione alle assemblee condominiali. Prima convocazione in orario improponibile per ogni essere razionale, ad esempio le 5 del mattino, possibilmente di domenica, seconda convocazione in orario post lavorativo di un giorno feriale. La ragione di tutto ciò è perfettamente coerente e ligia alla normativa, solo in seconda convocazione l’assemblea può avere luogo senza la maggioranza dei condomini, quasi sempre impossibile da raggiungere. Bene, ma non sarebbe più consono a esseri autenticamente razionali, e magari anche rispettosi della propria intelligenza, formulare, produrre e condividere una norma che dicesse che si dà una sola convocazione, con largo anticipo, chi c’è c’è?

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Dio, così come è stato concepito nella tradizione cattolica, non può avere natura etica, ha l’eternità a disposizione e la storia che rivolge gli eventi vestendoli degli abiti bisunti della ragione e dello scopo. L’uomo, inteso come individuo, ha un tempo limitato e nella sua biografia ha a disposizione un numero limitato di scelte, se non sono buone scelte non sempre ha modo di riparare!
Preferisco l’uomo, nella sua debolezza, nella sua imperfezione, nella sua costante tensione e incertezza al Dio eterno e perfetto della tradizione cattolica.

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Un insospettabile campione del postmodernismo, o della sua caricatura, è proprio Benedetto XVI. Suo malgrado e nonostante l’impegno del suo pontificato. Del resto, cos’altro ci si potrebbe aspettare se una figura autorevole per antonomasia viene puntualmente smentita il giorno dopo una grande dichiarazione? Non per mancanza di rispetto da parte dei suoi detrattori ma per mancanza di fondamento delle sue affermazioni! Per smontare le tesi di Marx ci sono voluti quasi duecento anni, quelle di Platone e Agostino, di Aristotele e Tommaso scricchiolano ma durano ancora, Hegel ha stabilito regole immortali, ai limiti della tautologia! Qualcuno ha detto di Cartesio che la filosofia dopo di lui e fino ai nostri giorni, è stato un immenso lavoro per capire i suoi errori.
Oggi bastano due giorni o meno per accorgersi dei vizi di pensiero di un grande intellettuale! Il relativismo, quello caricaturale, l’unico di cui ci si dovrebbe lamentare, è il prodotto più subdolo che Benedetto XVI ci sta regalando!

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La gigantesca crisi finanziaria del 2007-2008 era tutt’altro che imprevista. Cosa ci si aspettava da un mercato che dagli anni ottanta ha deciso di liberarsi da ogni vincolo di etica pubblica e che da sempre si dice libero dall’etica ambientale? La rete di relazioni che ci lega non permette in alcun modo di prescindere dalla dimensione pubblica dell’economia, sia pure senza pensare alle soluzioni devastanti di inizio secolo scorso. La finitezza delle risorse naturali non consente in alcun modo di concepire un sistema di crescita continua e inarrestabile. L’uomo, si sa, si distingue dall’animale perché in grado di trascendere, forse in seguito ai facili rovesciamenti semantici si sta distinguendo perché in grado di trasalire.
“La misura, se non ce l’hai verrà da sola”, “risparmia quando la madia è piena, perché quando vedi il fondo non c’è più nulla da risparmiare”. Un contadino semianalfabeta dello scorso millennio che ancora porto dentro sapeva molto di più di molti economisti di oggi. Cultura contadina, si dirà, roba d’altri tempi, certo. La cultura contadina è sparita, come molte altre sottoculture per azioni esterne ad essa. Da dove verranno le azioni che faranno sparire la cultura di oggi?

La crisi poteva essere un’occasione per rivedere qualcuno dei paradigmi dominanti della nostra società, primo tra tutti quello del consumo. Invece l’unica strada per superarla è incentivare i consumi. Se questo poteva andare bene per Roosevelt, ho qualche perplessità sulla sua efficacia oggi, dopo la consapevolezza del depauperamento delle risorse naturali, dopo la consapevolezza dei limiti dello sviluppo (traduzione impropria del famoso rapporto del MIT del 1972).

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Guerre di religione, non sono convinto che la causa profonda degli scontri tra i popoli sia da ricondurre al desiderio del divino, sublimazione del limite esistenziale. Fosse così varrebbe l’eliminazione della religione per risolvere i conflitti ed emancipare l’uomo ma così non è stato, questo è stato l’errore dei grandi pensatori dell’800 e inizio 900 Feuerbach, Marx, Nietzsche, Freud.
Indubbiamente ogni proiezione idealistica, e la religione non si sottrae a questa definizione, si presta ad assolutizzazioni pericolose. C’è un nocciolo più elementare che muove l’uomo alla guerra, qualcosa di più antico, di più facile.

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Categoria filosofica del razionale, da 400 anni se ne parla ma da milioni di anni il nostro cervello se ne infischia e va avanti con la modesta categoria del ragionevole. Ci sono buone probabilità che continui ancora a farlo in barba ai nostri discorsi e alle ‘idee chiare e distinte’.

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Che la fatica sia essenziale per il piacere non è un retaggio della cultura cattolica, semmai potremmo leggere questa come una degenerazione vittimistica di qualcosa di molto più originario. La fatica trasferisce qualcosa di noi nell’oggetto desiderato, nell’opera compiuta, è questo fecondare di noi qualcosa d’altro da noi che rende la fatica essenziale al piacere. La fatica ci dà il senso del tempo impiegato a trasferirci altrove, a essere altro. L’uomo, come ogni essere vivente, è creatura che vive nel tempo e di tempo. L’azzeramento del tempo nel compimento delle opere umane sembra una conquista ma il rovescio della medaglia è spogliarlo del piacere di godere del tempo impiegato a trasferire qualcosa di sé altrove.

martedì 30 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (76)]

Per poter parlare di un senso del dovere morale ci devono essere almeno due forze tra loro in tensione: una coscienza del dovere morale e un sano senso del desiderio e interesse personale. Per Kant la tensione tra queste forze è temporanea e alla lunga il dovere morale e la felicità personale devono conciliarsi. Il “bene supremo” e il dovere morale supremo è creare un mondo in cui la felicità derivi dall’esecuzione del dovere morale. Quindi per agire moralmente si deve fare proprio il principio morale, decidere di seguire un principio morale esercitando quell’autonomia di cui ci ha parlato Kant.
Se l’obiettivo è che il principio morale e l’interesse personale coincidano allora il raggiungimento dell’obiettivo vanificherebbe la scelta consapevole del principio morale, poiché non vi sarebbe più alcuna tensione tra dovere morale e interesse personale, presupposto della morale kantiana. Che il legno storto non potesse essere raddrizzato era cosa nota a Kant, forse il regno metafisico della morale era la necessaria, e utile, risposta che il filosofo doveva dare all’aporia che il suo sistema morale aveva aperto nel regno fisico.

lunedì 29 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (75)]

Che l’uomo sia animale sociale si dà per scontato, tuttavia che questa socialità sia una strategia evolutiva relativamente recente non si considera con altrettanta sicurezza. Eppure questo è un dato assodato, soprattutto non è assolutamente scontato che la socialità, così come è apparsa e si è sviluppata nelle comunità umane, ovvero in un contesto tribale relativamente poco numeroso, possa reggere alla necessità di estendere i nostri sentimenti morali a livello globale. La funzione sociale dei dispositivi etici è evidente e secondo il neurobiologo Antonio Damasio le condizioni di conflitto nelle modalità di organizzazione sociale potrebbero rivelare che tali dispositivi “sono ancora nella fase di messa a punto”[1]. Non c'è alcuna garanzia che questi dispositivi continuino ad assicurare la convivenza pacifica. Chi aveva pensato all'equa distribuzione di risorse per assicurare pace e giustizia sociale aveva toccato un punto essenziale della faccenda ma poi la Storia ha avuto fretta di smentire quei pensatori.
In condizioni di scarsità di risorse e di sovraffollamento ci si scanna per accedere a quelle risorse prima di altri, pare brutto dirlo ma questo è un principio ecologico da cui gli esseri umani non sono esonerati. La specificità umana è aver realizzato un modello sociale in cui pochi soggetti possiedono molto determinando così la scarsità di risorse per molti soggetti che si scannano tra loro per assicurarsi e poche risorse disponibili. Nella baruffa della lotta svanisce il fatto che le risorse non scarseggiano affatto, sono solo allocate in maniera assurda e indecente. Una specie davvero sapiens, non c'è che dire!

[1] A. Damasio, Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello. Adelphi, 2003, p. 205

domenica 28 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (74)]

Misere creature che nella naturale ricerca del piacere sono costrette a fronteggiare le avversità della vita. Di fronte all’insensatezza del dolore non possono fare altro che cercare una spiegazione, un motivo che ne colmi il vuoto. In origine erano Dèi malvagi e invidiosi dell’umanità a minacciarne la felicità. A loro si offrivano sacrifici e preghiere. Il dolore era scambiabile con quello di altri soggetti, umani o animali, poi il dolore non poté più essere merce di scambio e chi ne era toccato non poté che offrirlo in dono a un solo Dio. Fu così che la tradizione giudaico cristiana, riconobbe la completa responsabilità dell’individuo e abolì i sacrifici, creò un Dio buono che predilige chi soffre facendone uno psicopatico con tendenze al sadismo, esattamente come le sue creature.

sabato 27 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (73)]

Nel Panopticon di Bentham, potente metafora architettonica poi ripresa da Foucault[1], si configurava la modalità di esercizio del potere centralizzato che tutto vede senza essere visto. Bauman è convinto che tale metafora non colga più le modalità di esplicazione del potere. Oggi saremmo “passati da una società di stile panottico a una di stile sinottico: la situazione si è rovesciata e ora sono i molti a controllare i pochi.”[2] Concetto che lascia molte perplessità. Davvero i molti controllano? Si può effettivamente parlare di controllo? Se è vero che il potere centrale è roba d’altri secoli ed è soppiantato da modelli di subordinazione diffusa, resta da capire se nella nostra situazione, in cui manca ogni cenno di potere disciplinativo, come possiamo ancora parlare di potere? Non sarà forse più idoneo parlare di una rete in cui si praticano una serie di operazioni concatenate in maniera meccanica e automatica? Ad una azione segue una reazione che scatena un’altra reazione e così via, in un flusso in cui si perde l'inizio, e probabilmente non più guidato da alcuna ragione cosciente che non sia il mero soddisfacimento di un bisogno facile e immediato che distrae da quanto abbiamo sostenuto caratterizzasse la specie umana. Se questo è vero non è più consentito parlare di potere e le differenze sociali sarebbero solo accidenti dovuti alla contingenza.

[1] M. Foucault, La società disciplinare. In: Antologia, Feltrinelli, 2006, p. 86.
[1] Z. Bauman, Modernità liquida. Laterza, 2002, p. 92

venerdì 26 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (72)]

Non possiamo prescindere dal relazionarci con altri, salvo incorrere nelle degenerazioni non a tutti evidenti di una “società individualista”, ossimoro mostruoso che bene descrive gli aggregati umani dei paesi sviluppati occidentali del XXI secolo. Ad ogni modo resta un fondo tipicamente umano, una reminiscenza della nostra insufficienza anatomica che sfocia nella necessità di fare affidamento sugli altri. Si tratta di una sorta di tendenza innata che, opportunamente concettualizzata, diventa desiderio.
In un sistema religioso il desiderio trova origine e compimento nell’autorità divina, passando attraverso il servizio pastorale. Qui trova espressione la volontà di condividere l’esperienza dell’altro perché questi non ne sopporti il carico da solo, desiderio lodevole, ma che difficilmente si sottrae alla tentazione di non ascoltare il desiderio dell’altro e di preferire all’altro le regole che questi dovrebbe rispettare perché, alla fine dei conti, in queste si estingue il desiderio originario. In un sistema laico il desiderio origina e muore nella collettività di individui che riconoscono di condividere lo stesso destino. Qui non ci sono regole imposte da autorità esterne alla collettività ma l’altro resta il soggetto in cui si compie la necessità di costituire un sistema e il suo scopo.
Per entrambi i sistemi assume un ruolo cardine la responsabilità, il dover rispondere a Dio o alla collettività delle proprie azioni nei confronti dell’altro. Per entrambi i sistemi la pietra dello scandalo è sempre e solo l’altro, per entrambi il fallimento è in prossimità dello scopo.

giovedì 25 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (71)]

Incontro l’altro, mi affaccio dagli argini della sua figura e sporgendo nel vuoto mi interrogo come attraversare la sua distanza. Per stare di fronte all’abisso che ognuno è a sé stesso e agli altri ci vuole coraggio, autentico coraggio. La vertigine può essere fatale e non tutti sono pronti per esserne investiti. Colmiamo l’abisso con montagne di carta straccia per attraversarlo con facilità, troppa facilità. Cumuli di documenti di identità, di certificati, verbali e titoli di studio, dati tanto incontestabili quanto inutili parlano di noi, ci bastano, ce li facciamo bastare per attraversare l’abisso. L’incontestabile vero, “oh, infinita vanità del vero”, sospirava il poeta triste. Quale futile inganno potrebbe portarci più lontano dall’immenso racchiuso in ogni anima? Non erano queste le illusioni che davano senso persino al vivere di Leopardi. Le illusioni del poeta guardavano l’infinito. Le illusioni cui oggi ci affidiamo scontano la loro banalità ammantandosi di verità oggettiva.

mercoledì 24 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (70)]

Uno studio condotto seguendo il tracciato dei cellulari, ha stabilito che la gran parte delle persone ha comportamenti estremamente abitudinari, ai limiti dell’automatismo. Tutti i giorni fanno la stessa strada, dicono grosso modo le stesse cose, e, immancabilmente soffrono della propria routine.
Erich Fromm, parlando di una società costituita da schizofrenici “a basso voltaggio”, affermava “Quando i processi patologici assumono uno schema sociale, perdono il loro carattere individuale […] l’individuo medio non percepisce l’isolamento e la separazione che affliggono lo schizofrenico totale. Anzi, egli si sente a suo agio fra coloro che soffrono della stessa deformazione; invece è la persona completamente sana a sentirsi isolata nella società pazza, e l’incapacità di comunicare può instillarle sofferenze tali da renderla psicotica.”[1]
Se l’automatismo umano è di diversa natura rispetto all’automatismo animale lo si deve cercare nella sofferenza per una natura cui aspira ma che non possiede. Riguardo all’onestà intellettuale di tale aspirazione basta considerare come vengono guardati quanti cercano una propria strada non necessariamente uguale a quella degli altri. Ci si ammanta di cultura ma spesso non è altro che imitazione e assuefazione, scatenata forse da una qualità squisitamente umana, ma non per questo encomiabile, quale è la suggestione.
Se di tanto in tanto qualcuno basta a donare il sigillo dell’unicità all’intera specie umana, allora è proprio vero che chi si accontenta gode.

[1] E. Fromm, Anatomia della distruttività umana. Mondadori, 1975, p. 444

martedì 23 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (69)]

“Come l’annuncio cristiano, il socialismo – quello che resta o merita di restare di esso – è un radicale antinaturalismo: solo in quanto antinaturalismo si può intendere la profezia-speranza marxista della rivolta dei deboli-proletari contro i padroni-forti.”[1] Gianni Vattimo presenta il socialismo come l’antinaturale opposizione ai programmi politici di destra e alla loro “volontà di riportarsi alle differenze «naturali» come motori dell’emancipazione.”[2] Il ricorso alla natura, bisogna ammetterlo, rappresenta un elemento argomentativo dall’indubbio fascino. Il tentativo di trovare sostegno in essa costituisce una sorta di prova che renderebbe inconfutabili le asserzioni di chi vi fa ricorso, chissà perché poi! Al di là dell’insegnamento di Hume sulla incongruenza logica tra verità di fatto (che ragionevolmente potremmo considerare quelle naturali) e loro validità normativa, rimane tuttavia il dubbio su quanto realmente conosciamo della natura, o quanto di essa privilegiamo e tratteniamo nella nostra visione dei fatti!
Non mi è difficile essere d’accordo con Vattimo riguardo all’antinaturalismo del cristianesimo e del socialismo, tuttavia è necessario notare come in tale argomentazione assuma un ruolo rilevante una visione semplicistica della natura, più o meno a torto attribuita a Darwin, ossia la natura come teatro di lotta dove il più forte vince sul più debole. Indubbiamente le metafore del grande naturalista inglese hanno aiutato questa visione ma chissà come mai puntualmente ci sfugge che in natura, oltre alla onnipresente competizione vi sono altrettanti esempi di mutualismo che non sfuggirono a Darwin.
Non sarà che della natura vediamo solo ciò che ci appartiene, ci ha forgiato, ci contiene e che in definitiva siamo? Non sarà che la nostra socialità non è altro, né potrebbe essere altro, che uno strategemma evolutivo dovuto alla scarsità fisica della nostra specie di fronte alle altre specie? Non sarà che noi siamo animali sociali da poco tempo o che le condizioni della socialità sono illusoriamente finite per molti esponenti della nostra specie?
Non si esce dalla natura, la cultura può creare, trasformare e perfino distruggere la natura ma da questa non si esce, i salti ontologici sono buoni per preparare il terreno a discorsi vuoti. Sebbene sia convinzione comune che natura non facit saltus, si possono concepire salti tra differenti stati naturali, senza tuttavia uscirne. Quando l’avremo fatto non lo racconteremo a nessuno.

[1] G. Vattimo, Ecce Comu. Come si ri-diventa ciò che si era. Fazi Editore, 2007, p. 11.
[2] Ibidem

lunedì 22 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (68)]

"Oggi si parla molto di una crisi di fiducia dell’umanità. Di una crisi della fiducia che fino ad oggi avevamo riposto nella natura umana. Potremmo anche dire che si tratta di un panico, che sta per sostituire una vecchia sicurezza. Questa: noi siamo capaci di sbrigare le nostre faccende nella libertà e per mezzo della ragione. Ma non facciamoci illusioni! Questi due concetti etici, anzi etico-estetici, la libertà e la ragione – che l’età classica del cosmopolitismo tedesco ci ha lasciato in eredità come le stimmate della dignità umana – è almeno dalla metà dell’Ottocento, o poco dopo, che non hanno più una bella cera. A poco a poco essi sono andati “fuori corso”. La gente non sa più “che cosa farsene”. Si è lasciato che avvizzissero. Ma questo non fu tanto un successo dei loro avversari, quanto un insuccesso dei loro amici."[1]
Gli amici della libertà e della ragione, mistici di una nuova religione che, nel tentativo di scalzare quelle vecchie, dimenticano i connotati etico-estetici di questi concetti validi solo in un contesto intersoggettivo, che non vivono di vita propria e che non tocca scoprirli in qualche posto nascosto che il tempo rivelerà ma bisogna inventarli giorno per giorno, guardando con un occhio alla loro necessità e con l’altro alla loro infondatezza.

[1] Robert Musil, Sulla stupidità e altri scritti. Sulla Stupidità (1937), Oscar Mondadori, 1986, p. 252-253.

domenica 21 ottobre 2018

Rosa che non teme i serpenti

Rosa che non teme i serpenti
dorme al sole di un'estate ostinata.
Rosa non ha più fretta di svegliarsi
alle prime ore dell'alba.

Svegliati anima mia,
torna a scalciare i sassi,
la noia d'essere immobili
li ucciderebbe, tu li sai vivi,
tu conosci i segreti delle pietre
che tessono i destini
della poca gente che nasce
in quest'isola mancata.
Svegliati anima mia
che fa freddo in questa notte assolata,
torna a rimescolare le sorti che i sassi
fermi agli angoli delle strade
hanno deciso, incuranti.

La cattura del gatto [Note (67)]

Nei frammenti postumi Nietzsche afferma che non esistono fatti ma solo interpretazioni, “noi non possiamo constatare alcun fatto «in sé»” . Non è possibile prescindere dall’elemento valutativo dei fenomeni nel loro accadere, il fatto accade per sé ma ci raggiunge perché c’è una valutazione, il fatto senza valutazione (fatto in sé) non esiste (per noi). Non è il fatto a essere negato ma la constatazione del fatto senza valutazione. Che un grave lasciato a una certa altezza in un sistema gravitazionale cada non si possono avere dubbi, ma non si possono avere dubbi neanche sul fatto che il nostro sistema percettivo deve essere predisposto a una valutazione di alto e basso per poterlo osservare. Da questo a dire che la caduta sia buona o cattiva, la cosa si arricchisce (o si impoverisce) di una valutazione e si complica ulteriormente. In definitiva il fatto (per noi) ha sempre una valenza morale ma il fatto morale è e resta un ossimoro. Il fatto morale è già una valutazione, per cui è chiaro che non si tratta più di un fatto.

sabato 20 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (66)]

Nello Zhuang-zi, uno dei pilastri del pensiero taoista, si legge: “Come ha potuto il Tao oscurarsi al punto che debba essere distinzione tra vero e falso? Come ha potuto la parola offuscarsi al punto che vi debba essere distinzione tra all’affermazione e la negazione?”[1] e poche pagine dopo, “la comparsa di bene e male altera la nozione del Tao.”[2] Il Tao insegna che in origine era l’indistinto, il nulla. Sul piano cosmogonico il taoismo ha le idee decisamente più chiare di molte altre tradizioni religiose, non cade nella trappola del regressum ad infinitum, tuttavia nei suoi insegnamenti etici riecheggia lo stesso monito che risuona fin dalle prime pagine del Genesi (16,17) nell’Antico Testamento: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti.”
Indipendentemente dalla necessità o meno di un intervento esterno, sta di fatto che il nulla indistinto si cristallizza in una qualche forma. Una volta stabilita questa forma incontra le resistenze di un cosmo che a sua volta ha preso forma, non dispone più di tutta la libertà originaria (se di libertà si può parlare) ma è costretta o indotta, secondo i punti di vista, a imboccare alcune direzioni mentre altre sono ormai impossibili o incompatibili con le condizioni al contorno. Queste direzioni possibili per quanto numerose sono limitate, se non per altri motivi almeno perché devono essere compatibili con l’esistenza e permanenza della forma.
Spostandoci dall’ambito cosmologico a quello psicologico, poiché è innegabile che sia il Tao sia la Bibbia siano stati scritti da mani umane per quanto (forse) guidate, l’aspirazione al primordiale indistinto in un caso e il rinnegamento del giudizio manifestano, sebbene da punti di vista diversi, il desiderio della non esistenza, una sorta di “volontà” di non azione nelle faccende terrene per assurgere a una libertà primigenia che è tanto affascinante quanto concettualmente insostenibile.
Sicuramente di fronte all’insensatezza cosmica non si può che prendere atto della intrinseca coerenza del Tao, trattandosi di un indistinto che non agisce ma che da sé diviene, mentre l’indistinto biblico è agito da un dio che giudica del suo operato e “vide che era cosa buona”. Dall’incoerenza giudaico-cristiana non poteva che derivare un occidente schizoide, insofferente alla vita e che, alternandosi tra inazione ed eccesso di azione, si avvicina sempre più a quell’agognato nulla.
L’uomo partecipa, discrimina, trasforma, ha voglia di universalità ma non può rinunciare al ruolo attivo, all’azione, altrimenti è solo polvere indifferente. In effetti nessuna tradizione religiosa, ma neanche scientifica, prende sotto gamba questa situazione, tuttavia si tratta di capire se questa polvere vuole assumersi l’insopportabile peso della scelta, almeno fino a che è presente in forma di carne e sangue, oppure se vuole bearsi di un nulla che a conti fatti non è neanche concepibile.
Parafrasando Sartre e rovesciando il suo celebre detto potremmo scoprire che siamo liberi solo grazie ai nostri vincoli.

[1] Zhuang-zi [Chuang-tzu], Adelphi, 1992, p. 23.
[2] Op. cit., p. 26

venerdì 19 ottobre 2018

Magari...

Magari mi sveglio e tutto torna in ordine... Magari mi addormento e tutto torna in ordine.

Magari… voce antica, reminiscenza bizantina, memoria di radici greche, di mare, di canti contadini, di terra rossa e di promesse di felicità, μακαριος. Magari… evocazione di sortilegi salentini di certa allitterazione, forse comune radice linguistica, la macària delle fattucchiere, figlie dell’abisso che promettono futuro, macare parenti di Ade che ebbe una figlia, Μακαρία, Macaria, dea della buona morte, quel magari ultimo che a volte è negato… Μακαρία è fuggita, qui più nessuno la onora e allora tocca morire come capita.

La cattura del gatto [Note (65)]

In Giappone viene fornito, insieme alle play-station, un kit con vitamine e un collirio per alleviare la stanchezza oculare. Modello del parassita intelligente: si evita di uccidere il proprio ospite per trarne il massimo beneficio per un tempo più lungo possibile.
Si potrebbe leggere il parassitismo come una forma degenerata del mutualismo o, in vena di ottimismo, rovesciare il paradigma e sperare ancora nel futuro?

Quel tale dice il vero, per questo abbiamo cambiato la Verità.

giovedì 18 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (64)]

Possiamo parlare di salti ontologici, capriole metafisiche, piroette teoretiche. Possiamo discettare su tutte le possibili caratteristiche esclusive dell’uomo ma resta una proprietà precipua e forse esclusiva di homo sapiens che è la suggestionabilità. La (supposta) perdita degli istinti ha comportato, tra le altre cose, la variabilità delle reazioni rispetto a moduli geneticamente prefissati. L’uomo è sottoposto a uno spettro di stimoli ben più ampio di qualunque altro animale, sebbene tale spettro sia comunque limitato dalla struttura anatomica e dalla fisiologia che il processo evolutivo ha determinato. Ad ogni modo, seguendo l’insegnamento di Gehlen, tale apertura comporta la selezione di alcuni stimoli le cui risposte da parte della nostra specie concorrono alla definizione di un mondo culturale. Se questa proprietà è condizione principale dello sviluppo culturale umano è altrettanto vero che è condizione del possibile regresso.
Attualmente il più potente strumento di suggestione è dato dal modello del facile successo aperto a tutti con ricchi quiz a premi, partecipazione a programmi televisivi che scoprono un qualche talento, fosse anche saper defecare 5 kg di merda in unica soluzione, informazione in pillole e veline plastificate che assurgono al gotha delle soubrette.
L’apparizione in tv è la massima aspirazione. Beato chi canta, balla, litiga, vince. Lo sfigato lavora. Non ha importanza quale lavoro svolga, lo sfigato è uno che non ha saputo rischiare, uno che non ha vinto, in fin dei conti, l’equazione è facile, si tratta di un perdente! Via di questo passo con la lenta e inesorabile demolizione di ogni criterio di specializzazione, sofferenza del processo di individuazione e abbandono dello sforzo di costruzione di una propria specificità, di una propria sfera di eccellenza. La mediocrità è alla portata di tutti.

mercoledì 17 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (63)]

A-letheia, verità come s-velamento, non nascondimento, ciò che viene alla luce. Fascinoso concetto che non dissimula una visione paranoide del mondo che ci si offre, visione che può farsi risalire a origine remota e intrinseca nella costituzione umana che vive spogliata di quegli istinti che pre-costituiscono il percepito e in questa condizione post-istintuale o a-istintuale la lasciano alla mutevole costituzione di significati di un processo culturale instabile e sempre mutevole. I tentativi di congelamento, di entificazione direbbe Heidegger, non mancano e di volta in volta hanno solo apparentemente mutato forma, fede religiosa, ragione hegeliana, fiducia nella scienza positivista e nel progresso e, possiamo esserne certi, qualcosa in futuro si troverà, fosse anche nichilistica rassegnazione.
Nell’attesa, per non concedere troppo al nichilismo, l’atavica e disperata esigenza di continuità dell’uomo di fronte all’imprevedibilità del tempo che lo minaccia è compensata dalla sostituibilità di prodotti e merci. Feroce destino, si arriva ad avere nostalgia delle vecchie soluzioni!

martedì 16 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (62)]

I rituali religiosi sono sorti in un contesto tribale, come del resto qualsiasi altra forma rituale. Non so se il contesto tribale costituisca una conditio sine qua non per la genesi delle forme rituali e non credo sia importante stabilirlo, il nucleo della faccenda sta nel fatto che storicamente l’uomo si è organizzato prevalentemente in piccole comunità e solo recentemente si hanno grandi centri urbani, sebbene si trovino tracce di questa tendenza in tempi remoti. Ad ogni modo le grandi religioni monoteiste, ebraismo, cristianesimo e islam si sono sviluppate in contesti tribali. In questa osservazione non vi è naturalmente nulla che ne diminuisca il valore, salvo non voler accettare il fenomeno religioso come evento prettamente umano che risponde a esigenze squisitamente umane e consegnarlo a epifanie divine che a questo punto ne diminuirebbero l’interesse di una buona parte di umanità.
L’organizzazione tribale è caratteristica precipua di homo sapiens e non basta certo qualche secolo per cancellare una eredità che viene da milioni di anni di evoluzione dell’uomo e che lo vedono parte di gruppi non molto numerosi, di poche centinaia di individui. Non bisogna essere arguti antropologi o fini sociologi per riconoscere che molte manifestazioni di disagio dell’uomo occidentale possono essere ricondotte a una organizzazione urbana che mette a dura prova le potenzialità e le capacità relazionali dell’uomo con il rischio di originare fobie e malessere in individui sempre più isolati. Le cause del disagio non sono sicuramente esauribili a singoli fattori ma è importante porre attenzione al possibile ruolo che le dimensioni delle comunità umane hanno nelle dinamiche relazionali.
Una realtà tribale, o comunque una piccola comunità, è caratterizzata tra le altre cose da una rete di reciproca conoscenza dalle cui maglie non vi è modo di passare. Questo comporta da una parte una rete di solidarietà che rende il soggetto integrato nella comunità che lo accoglie e dall’altra parte comporta notevoli difficoltà di autonomizzazione dell’individuo che si trova spesso a dover faticosamente separare l’ambito privato da quello pubblico.
Comunque sia, tralasciando le possibili degenerazioni da “imbreeding culturale”, che ci porterebbero lontano dal discorso che qui si vuole affrontare, resta il fatto che un soggetto all’interno di una piccola comunità è conosciuto per nome, si sa di lui chi sono i suoi genitori e chi sono i genitori di questi, insomma è inserito in una catena di discendenza che lo colloca precisamente in un punto dello spazio e del tempo che lo mette al riparo da possibili rischi identitari. Nel mio sud si direbbe che il soggetto si sa a chi appartiene. Il “vantaggio” identitario non è disgiunto dal suo rovescio, ossia dalla latenza, a volte protratta per la vita intera, della domanda “chi sono?”. Magari la domanda viene posta, ma senza la reale volontà di dare una risposta diversa da quella che la comunità ha già assegnato e ciò che la comunità non può sapere. I sentimenti, i sogni, i desideri, le più remote aspirazioni, rimangono seppellite sotto la coltre di una facile certezza.
In realtà tribali sono nate le credenze religiose, probabilmente o sicuramente per s-piegare, nel senso etimologico del termine (togliere dalle pieghe), ciò che appare ins-piegabile per dare un ordine a ciò che appare disordinato e intorno a tali credenze sono cresciuti edifici politici e morali che istituiscono i comportamenti delle comunità che secondo un preciso ordinamento rituale avrebbero, in alcuni casi assecondato gli eventi naturali, in altri casi indotto gli eventi a favorire la comunità stessa. Tra il primo atteggiamento, assecondare gli eventi, e il secondo, indurre gli eventi c’è l’abisso antropologico che separa la cultura della Grecia antica, con la sua dimensione tragica e inesorabile della vita, dalla cultura occidentale moderna che a partire dalla sua matrice giudaico cristiana di fatto non accetta il divenire e cerca in tutti i modi di fissarlo in cornici stabili di carattere soteriologico o di carattere scientifico.
Nell’atto di nascita del rituale religioso è presente l’esigenza di universalizzazione che pone rimedio al molteplice che diviene e mette al riparo l’unico dalla decadenza. Così la fissazione dell’eterno mutevole comincia quando alla varietà dell’esperienza soggettiva si sostituisce l’immutabilità dell’universale oggettivato. Da un punto di vista epistemologico questo è stato il passo decisivo per la nascita del pensiero scientifico e questo filone può essere fatto risalire fino a Platone. D’altro canto, con la tradizione cristiana e con il rovesciamento del concetto di anima platonica, che da strumento epistemico diventa con Agostino strumento penitenziale, nasce il concetto di individuo e nasce intorno al concetto di ricettacolo di verità e allo stesso tempo di colpa e di punibilità individuale.
Il concetto di individuo, equivalente e sostituto di ogni singolo uomo, nasce con la lacerazione tra le ormai inevitabili esigenze di autonomia e l’obbedienza che deve alla tradizione che lo ha generato. La Riforma luterana rappresenta l’esito di tale processo di rottura. La tensione tra opposte esigenze è continuamente attiva ed è nel suo manifestarsi che operano le antinomie della Chiesa dei nostri giorni dove la libertà della scelta individuale confligge con la dottrina comunitaria. Il concetto di universale cui il rituale religioso ricorre per porre rimedio al mutevole esclude ogni possibile sviluppo del concetto di poliversale appiattendo ogni differenza in un’unica sostanza. “Amico dell’uomo, e nemico di quasi tutti gli uomini con cui ha avuto a che fare” diceva Thomas Carlyle del marchese di Mirabeau. Questo è il risultato con cui oggi tocca fare i conti ed è un risultato che ci ha lasciato in eredità un processo di oggettivazione dell’individuo che subentra totalmente a quello di soggettivazione dell’individuo.
Ormai assegnato alla Storia, che alcuni riconoscono bizzarra e imprevedibile, altri vedono linearmente progressiva, l’Uomo prende il posto degli uomini, ma gli uomini non abitano la Storia, abitano nelle loro case piccole o grandi, nelle loro piccole storie, nelle singole biografie fatte di accidenti e di scelte a volte lodevoli a volte deprecabili ma comunque sia scelte, alternative che si danno nei contesti sociali che vivono e di cui nessuno può dirsi totalmente e completamente esonerato.
Oggi viviamo in un’epoca in cui le piccole comunità con tratti tribali sono, a dir poco, desuete e i mass media creano una fitta rete di relazioni che collega individui appartenenti a comunità diverse che pure non si conoscono e che pur essendo collegati continueranno a non conoscersi perché alla sostanza carnale dei contatti di una volta è subentrato l’asettico impulso elettronico. Le piccole comunità presentano una rete di solidarietà dove tutti si conoscono per nome e storicamente il collante di questo tessuto è di matrice religiosa. L’idea di cancellare la dimensione religiosa si è già dimostrata fallimentare, è quindi necessario chiedersi quale ruolo possa avere l’evento religioso, che nato in un contesto tribale deve confrontarsi con il mondo cosiddetto globale?
Potrebbe sembrare paradossale ma forse la religione dovrebbe tornare a una dimensione tribale dove prima di parlare all’Uomo deve saper parlare a quel particolare uomo o a quella particolare donna, proprio quello o quella che pongono precise domande etiche. E allora dalla domanda “Chi è l’Uomo?” si deve passare alle domande ben più impegnative “Chi sei?”, “Cosa desideri?”, “Quali sono le tue speranze e i tuoi desideri?”.
Rispondere a queste istanze con soluzioni di distribuzione territoriale delle gerarchie ecclesiastiche è come cercare soluzioni quantitative e di configurazione geometrica alle esigenze di qualità relazionale e alla sete di esistenza. Non si tratta di raggiungere questo o quell’esponente di un credo religioso o di un altro, si tratta di ascoltare quel particolare ragazzo che si sente escluso perché ama un altro ragazzo, si tratta di ascoltare quella donna che non può o non vuole avere un figlio, di sentire il lamento di quell’uomo o di quella donna che non ce la fa più a sopportare un dolore che non gli fa vivere più nulla di umano, non lo fa riconoscere a sé stesso come un umano, di ascoltare quell’uomo e quella donna che non possono più vivere insieme, si tratta di spogliarsi di tutto meno che della nostra pelle che continuamente si rinnova e così nudi ricominciare a parlare dell’etica.
Laddove si chiede di morire non si può rispondere con anatemi, laddove si chiede il riconoscimento di diritti civili di persone che si amano non si può rispondere con fondamenti teologici, laddove si chiede di dibattere sui registri del diritto, della storia, della libertà di espressione, del bisogno di essere riconosciuti all'interno di un contesto sociale non si può opporre il silenzio e l’immutabilità della Legge, tutto questo è possibile farlo solo rinnegando gli uomini per l’Uomo.
Il sommo poeta, per bocca di Beatrice, diceva “Temer si dee di sole quelle cose / c’hanno potenza di fare altrui male; / de l’altre no, ché non son paurose.”[1] Compito arduo e impegnativo è guardare in faccia l’altro, conoscerlo di persona e prima di chiedersi “come posso fare del bene?” chiedergli “in che modo posso farti del male?”.

[1] Inferno II canto vv. 88-90

lunedì 15 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (61)]

L’uomo è un animale sociale? Decisamente sì, è nella sua natura di animale scarsamente attrezzato con abitudini alimentari piuttosto riprovevoli, dopotutto si trattava di uno spazzino della savana. Per evitare confusioni dovute alle sempre più ricorrenti manifestazioni di esasperato egoismo è necessario riconoscere che al termine sociale noi assegniamo un significato morale che non fa parte della natura bensì di un edificio culturale tipicamente umano e che implica scelte che possono essere differenti in relazione ai contesti storici e geografici. Confondendo le due istanze, morale e naturale, si potrebbe addirittura sostenere che l’uomo non è più un animale sociale. Non si deve tuttavia neanche dimenticare che la socialità è una strategia evolutiva sviluppata come risposta possibile e compatibile con la riproduzione in un determinato contesto. Sulla scala temporale dell’evoluzione nulla è dato per sempre.

domenica 14 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (60)]

“Chiunque può avere la macchina del colore preferito, purché sia nera.”, non ricordo a memoria la frase di Henry Ford ma il senso è fedele. Negli anni successivi alla II guerra mondiale l’offerta era giovane e incontrava una domanda sorpresa e altrettanto giovane, anzi più giovane dell’offerta e senza troppe pretese. Il progresso tecnologico e l’evoluzione del capitalismo hanno consentito di incrementare la domanda rendendola esigente e innescando un processo a feedback positivo nel quale probabilmente Ford si sarebbe trovato in difficoltà. Attualmente è in opera un meccanismo perverso in cui i bisogni vengono indotti ed estratti dalla società fin da quando, ancora immaturi, hanno cominciato a essere formulati in germe affinché l’offerta di beni segua la domanda, ma di fatto precedendola. Di questa tautologia il mercato vive!
Se abbiamo a cuore il nostro futuro occorre mettere in moto un meccanismo che susciti nel contesto sociale una domanda che sia in linea con i criteri della sostenibilità ambientale e sociale in modo che l’offerta del contesto capitalista sia indotta, o costretta, a seguirne le richieste. Questo panorama non potrà essere possibile senza rivedere alla radice molti concetti dell’economia, e se ciò possa essere fatto in un contesto capitalista può lasciare perplessi ma sta di fatto che la riforma del capitale appare l’unica via se non si vuole ricorrere a sogni rivoluzionari o non si vuole attendere che siano i limiti naturali ad imporla.

sabato 13 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (59)]

Passaggi di paradigmi socioculturali dall’era industriale a quella post-industriale, o forse si tratterà di convivenza di paradigmi in onore al politeismo weberiano?
– da uno schema esplicativo lineare dei fenomeni a uno schema di rete complessa, e all’estremo perdita di centralità del concetto di causalità. Umberto Eco direbbe da una struttura ad albero porfiriano a una struttura enciclopedica per la definizione delle “ontologie” conoscitive. Quelli che si fanno prendere la mano dai mutamenti, solitamente i più entusiasti della de-generazione informatica, già parlano di logica circolare, e sebbene si tratti di una chimera molti sono convinti che la logica sia proprio così!
– dalla rasserenante fiducia nella stabilità alla inquietante certezza della variabilità, paradigma favorito o conseguente al riconoscimento dei limiti della crescita della produzione e della struttura asimmetrica tra le ‘aspirazioni’ degli uomini non sempre fondate sulle capacità della terra che li ospita;
– dalla cultura della precisione alla cultura del ‘pressappoco’. L’asse centrale dei valori si sposta, o ritorna, dalla quantità alla qualità, dalla razionalità all’emotività. Si spera non si tratti del ricorrente rigurgito di romanticismo desideroso del solito “qualcosa di più”;
– dal culturalismo monolitico al multiculturalismo. Ritengo il relativismo culturale una delle più importanti conquiste intellettuali del secolo scorso. Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni ‘intellettuali’ chiusi a riccio in analisi facili facili non impedisce l’identità ma è presupposto per riconoscere le identità, non è anticamera al ‘facciamo come ci pare’ ma negazione della one best way culturale. Come ci ha insegnato Isaiah Berlin, il riccio sa una cosa grande ma nell’attesa che ce la riveli speriamo non sia troppo chiedere l’abolizione della la caccia alle volpi.
– da un paradigma produttivo centrato sulla materialità ad uno prevalentemente immateriale. Daniel Bell, in The coming of post-industrial society, al terziario affianca il quaternario – sindacati, banche, assicurazioni - e il quinario – servizi per la salute, educazione, ricerca, tempo libero, pubblica amministrazione. Naturalmente la compartimentazione è assolutamente inesistente poiché i settori economici sfumano l’uno nell’altro ma con un po’ di fantasia e non poco sforzo potremmo vendere un chilo di pane e un corso di formazione di 200 ore full immersion per insegnare a mangiarlo.
– dalla centralità del lavoro si passa alla centralità del tempo libero, non-lavoro, otium; da homo faber a homo ludens. La disoccupazione non è vista più come problema sociale ma come annuncio della fine del lavoro, non decomposizione della vecchia organizzazione economica e sociale ma nascita di una nuova organizzazione. Generalmente il disoccupato, poco avvezzo con i discorsi degli intellettuali, non si accorge di tutto ciò e banalizza la questione deprimendosi e talvolta suicidandosi.
– dalla ovvietà della distribuzione della ricchezza in base al lavoro produttivo alla necessità di distribuire la ricchezza non più in base al lavoro produttivo, soprattutto se il lavoro serve solo a ingrossare le statistiche dell’occupazione. Bertrand de Jouvenel ci fa notare che mamme che si scambiano i rispettivi figli diventano baby-sitter e accrescono il PIL!
– dalla prevalenza di comportamenti competitivi (strategicamente efficaci in casi di sottoaffollamento?) alla necessità di comportamenti mutualistici (inevitabilmente fruttuosi in caso di sovraffollamento?).
– dal breve termine al lungo termine, ma sempre fermamente miopi.
– dalla ‘semplice’ contrapposizione di poche classi sociali (2 x Marx) i cui ogni soggetto sapeva riconoscersi al conflitto di molteplici modelli sociali in singoli individui.
– perdita di centralità di singoli settori produttivi (rete ecologica lineare e semplice) e dipendenza diffusa da molteplici settori (rete ecologica a reticolo e complessa).
– passaggio del ruolo egemonico dalla comunità caratterizzata da limiti circoscritti alla società globalizzata e successivo riconoscimento della centralità dell’individuo (dall’oggettivismo al soggettivismo).
– dai bisogni che precedono i beni ai beni che inducono bisogni (passaggio dalla scoperta all’invenzione di Zsuzsa Hegedus – Il presente è l’avvenire – Interessante la tesi di Agnes Heller sulla distinzione tra bisogni fondamentali o radicali di natura qualitativa e bisogni indotti o alienati di natura quantitativa – da questa distinzione deduco una forte asimmetria tra beni e bisogni, è sempre più evidente la creazione di beni per bisogni prematuri o immaturi per essere fruiti nella piena soddisfazione. Soddisfiamo embrioni di bisogni che non possiamo riconoscere nella loro forma definitiva.
– dal pensiero concettuale e astratto che caratterizzerebbe la differenza umana al pensiero cosiddetto concreto dell’immagine, o come direbbe Sartori, al post-pensiero che caratterizza il passaggio (o il ritorno?) dal mundus intellectualis al mundus sensibilis.
Si tratta di poli opposti ma non so dire nulla sulla direzione da un polo all’altro. Molti sfumano l’uno nell’altro ma niente di serio naturalmente!
L’economia, che è ormai costituisce il codice trascrittivo universale della realtà, riesce a leggere queste transizioni e tenerne il passo? È uno strumento adeguato a interpretare i valori che si profilano nei nuovi paradigmi?
Almeno per quanto riguarda l’ambito produttivo, l’economia si trova di fronte alla necessità di riconoscere che incremento di produttività (produzione per unità di tempo) comporta inevitabilmente minore disponibilità di lavoro in un contesto di saturazione del mercato (se non saranno i bisogni a saturarsi, sarà la terra ad esautorarsi). L’economia può gestire questa situazione considerando l’inalienabilità del principio etico dell’uguaglianza, ovvero sarà in grado di riconoscere una fetta della produzione a chi, necessariamente, non lavorerà?
“…l’organizzazione sociale non riesce a tenere dietro al progresso tecnologico: le macchine cambiano più velocemente delle abitudini, delle mentalità e delle norme.”[1] “…gli antropologi chiamano cultural gap: la nostra resistenza alle innovazioni, anche quando esse sono palesemente vantaggiose. Questo rifiuto psicologico e culturale è dovuto al fatto che, nel corso di una determinata fase della nostra vita e della nostra storia, i circuiti logici del nostro cervello si strutturano in base all’esperienza, creando una rete sinaptica sufficientemente solida che consente grandi risparmi di energia attraverso la coazione a ripetere sempre le medesime decisioni, le medesime reazioni, le medesime abitudini…Il cultural gap è un meccanismo spontaneo di difesa nei confronti dei cambiamenti.”[2]

[1] D. de Masi, Il futuro del lavoro. Fatica e ozio nella società post-industriale, R.C.S. Libri, 1999, p. 10.
[2] Op. cit., p. 54.

venerdì 12 ottobre 2018

Oggi è giorno di alta marea


Oggi è giorno di alta marea,
oggi lo sento nella carne lo strazio del mare
quando l'acqua è lacerata
dalle ferite inferte dalla luna.
Che fai tu, luna, in ciel?
Nulla sai tu, luna, del dolore che infliggi,
nulla sai dei flutti che sollevi.
Risalgono parole usate,
riecheggiano voci amate,
dal fondo emergono sorrisi
che coprono conchiglie
e scogli aguzzi di giorni allodinici.
Sulla linea di marea
l'acqua rimescola destini,
corre lungo i solchi brevi delle mani,
disegna eterne attese e disperati voli.
Sulla linea di marea
l'acqua spacca le ore e i minuti,
segna il confine tra i desideri,
soglia amara che toglie il respiro e la vista
dell'orizzonte che sanguina luce.
Sulla linea di marea
l'acqua scombina lacerti di memorie,
rovescia le assenze,
rende incerte le distanze.
Sulla linea di marea
i vivi di oggi e i vivi di ieri si salutano
con una lacrima e un "aspettami".

Una gemma salata nasce dagli occhi
per dissetare tempo e dolore,
mentre la città tumore cresce
e noi corriamo, anime metastatiche
sempre pronte a morire altrove.

La cattura del gatto [Note (58)]

Nell'attuale quadro economico l’ambiente resta confinato a cornice, contesto nel quale l’uomo svolge le sue attività produttive. E’ evidente però che l’attuale modello economico, caratterizzato da un insostenibile vortice di produzione e consumo, è analogo al taglio del ramo su cui siamo seduti sebbene anche tale immagine sia diventata tristemente insufficiente. Nonostante si ravvisino movimenti culturali che indicano la necessità di superare questa visione il paradigma è ancora saldo.
L’uomo, per quanto disperatamente tenti di “elevarsi” sulla natura, non è altro dall’ambiente. A ben guardare questi tentativi sono tanto inutili quanto ridicoli. L’ambiente è oggetto e soggetto della nostra esistenza, costruzione e costruttore dei nostri moduli percettivi, significato e significante, l’ambiente non può essere considerato solo come qualcosa a cui stare attenti in quanto troppo delicato o perché minacciato, è bene in sé non distinto da noi.
In un racconto Oliver Sacks descrive il caso di un suo paziente che tenta di buttare via dal letto la propria gamba perché non la riconosce come sua[1]. Ebbene, forse la situazione è proprio questa.

[1] O.W. Sacks, L’uomo che scambio sua moglie per un cappello, Adelphi, 1986.

giovedì 11 ottobre 2018

Sul penoso mondo dei maschi

Papa Francesco contro l'aborto.
L'ennesimo caso di un maschietto che discetta del corpo delle donne. L'invidia degli uomini non ha molte forme.
E' l'intervento di un elefante in una cristalleria. Si dipinge un atto doloroso come fosse una cosa fatta a cuor leggero. Non ho conosciuto nessuna donna che abbia affrontato un aborto senza gravi sofferenze, materiali e psicologiche. Se ce ne sono che considerano l'aborto un contraccettivo sono un numero esiguo e siamo nell'ambito del patologico. Il papa parla dell'interruzione volontaria di gravidanza ignorando la dimensione storica e sociale dell'aborto, per non dire della dimensione psicologica che calpesta allegramente. La 194 è intervenuta a disciplinare qualcosa che esisteva da prima e in maniera incontrollata. L'aborto non l'ha inventato la 194 e questa legge insieme alla regolazione dell'interruzione di gravidanza introdusse un apparato di assistenza e formazione che dal 1978 ha più che dimezzato il ricorso all'aborto e non solo perché si è fatto e si fa di tutto per rendere inapplicata una legge dello Stato utilizzando l'obiezione di coscienza come un cavallo di Troia ma proprio perché uno degli obiettivi della legge è accrescere il livello di consapevolezza della maternità. Io a differenza di papi e ministri sono solito parlare dopo aver consultato dati e storia, si veda il capitolo 6 di questo rapporto Istat prima di parlare di questi temi. Si legga attentamente questo documento di Lorenza Perini prima di dipingere una idilliaca versione da maschietti. Il papa offende le donne, i medici che operano nel contesto ammesso da una legge dello Stato, offende quella legge e in uno Stato degno di questo nome e fiero del suo ordinamento laico si presenterebbero formali rimostranze a una autorità di un paese straniero che si permette di chiamare sicari quanti si attengono al rispetto di una legge che ne sancisce l'operato. Chiamare sicari quanti quella legge fanno rispettare è diffamazione, accusare di assassinio le donne che per diversi motivi ricorrono all'interruzione volontaria di gravidanza è da criminale, mostra un'insensibilità di fronte a un sancta sanctorum del dolore che ha del mostruoso, è indegno di qualsiasi uomo. Bisogna tornare a fare seriamente informazione su questi temi e inchiodare ai fatti chiunque ne parli, dati alla mano e poi direi anche un'altra cosa. Suggerirei a noi maschietti di fare un passo indietro quando parliamo della carne delle donne, qualcosa che sappiamo per sentito dire, qualcosa che i maschietti non digeriscono da milioni di anni, che ci è arrivato da lontano e che facciamo di tutto per contaminare con gli altri pruriti che ci tormentano... una forma di invidia, come accennavo, forse proprio l'invidia di non poter dare la vita...

***

Ecco cosa c'era prima della 194 del '78, forse Bergoglio ne auspica il ritorno.

Codice penale italiano (1930), Libro II, Titolo X: Dei delitti contro la integrità e la sanità della stirpe (Art. 545. Aborto di donna non consenziente. Chiunque cagiona l'aborto di una donna, senza il consenso di lei, è punito con la reclusione da sette a dodici anni. Art. 546. Aborto di donna consenziente. Chiunque cagiona l'aborto di una donna, col consenso di lei, è punito con la reclusione da due a cinque anni. La stessa pena si applica alla donna che ha consentito all'aborto. Si applica la disposizione dell'articolo precedente: 1. se la donna è minore degli anni quattordici, o, comunque, non ha capacità d'intendere o di volere; 2. se il consenso è estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero e` carpito con inganno. Art. 547. Aborto procuratosi dalla donna. La donna che si procura l'aborto e` punita con la reclusione da uno a quattro anni. Art. 548. Istigazione all'aborto. Chiunque fuori dei casi di concorso nel reato preveduto dall'articolo precedente, istiga una donna incinta ad abortire, somministrandole mezzi idonei, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni).

La cattura del gatto [Note (57)]

Psiche e Techne hanno velocità comparabili? Bisognerebbe tenere in maggiore considerazione le diverse dinamiche di biologia e cultura e i loro intrecci e, cosa ancor più complicata, la diversa velocità di adattamento dell’umano a moduli culturali che toccano differenti aspetti della sua vita. Ci adattiamo presto all’utilizzo di un computer, meno rapidamente a ciò che implica, che tra l’altro potrebbe restare ignoto per molto tempo. Apprezziamo la velocità di un aereo per attraversare continenti ma i nostri ritmi circadiani, forgiati da milioni di anni, sono fuori uso per un paio di giorni. Sono esempi forse banali ma aprono la domanda se fisiologia e cultura potranno mai essere allineate? E’ possibile concepire una funzione in linea teorica che traduca i tempi dell’una nell’altra? E soprattutto, in caso di risposta positiva a entrambe le domande, saremmo ancora uomini?

mercoledì 10 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (56)]

I beni di consumo vengono creati, il loro significato costruito contestualmente alla loro emergenza con meccanismi di manipolazione sociale complessi e difficilmente prevedibili, tuttavia in caso di successo, ossia di diffusione, l’immagine creata diventa quasi intoccabile e resa tale da una cultura comunicativa che costruisce più di quanto gli sia concesso decostruire.
La comunicazione costruttiva avviene in un contesto produttivo di aggiunta e arricchimento (puoi fare, puoi costruire, puoi creare…), mentre il contesto della comunicazione decostruttiva è di ordine morale che troppo spesso è percepito come elemento penalizzante (non puoi fare, non puoi costruire, non puoi creare…). Un processo regolare, circolare di creazione ed erosione di significati è sempre un processo con bilancio positivo, con il risultato di creare immense discariche di significati difficili da decomporre.
Il contesto comunicativo è fondamentalmente asimmetrico, si può dire tutto e il suo contrario ma le modalità costruens e destruens dell’intelletto non hanno pari dignità. Il contesto sociale rifiuta il “polemico” poiché rifiuta “polemos”, il conflitto, forse con qualche ragione ma spesso per pigrizia intellettuale più che per razionale opposizione che a sua volta sancirebbe conflitto. Il diritto non si occupa di chi loda (neanche se in tono di equilibrato sarcasmo) ma di chi denigra. Non è follia riabilitare, purché senza la minima pretesa moralizzatrice o di coercizione, una funzione destruens di pari dignità della funzione costruens della comunicazione allo scopo di aggiungere un elemento “spazzino” di molti rifiuti mentali. Occorre sviluppare la funzione destruens in un contesto di “diversa creazione”, occorre fornirle un contesto culturale in cui può essere espressa senza apparire l’urlo di un pazzo, dando per scontate le capacità mentali di chi la esprime.

martedì 9 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (55)]

Abbiamo bisogno di un buon sistema di traduzione quando interagiamo con gli altri. Ognuno si esprime attraverso il proprio sistema di valori, attraverso il proprio modo di interpretare il proprio vissuto. La reciproca comprensione non può prescindere dalla dotazione di un buon sistema di traduttori semantici interiormente sviluppati. Non si tratta solo di adottare un insostenibile linguaggio comune basato su regole logiche ma di applicare un sistema di traduttori che consentono la comunicazione.

lunedì 8 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (54)]

Il 23 gennaio 2008 un uomo colpito da attacco cardiaco muore a Trento durante la celebrazione della messa, il rito non si interrompe. Il mondo va avanti e la vita continua, lo sappiamo, non possiamo pretendere che il mondo si fermi, neanche per un attimo, e poi il rito è un patto con il passato che non può essere sciolto impunemente. Quando il rito prende il sopravvento il Tao muore. Per questo siamo occidentali!

domenica 7 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (53)]

“L’etica e i codici morali sono necessari all’uomo per via del conflitto tra intelligenza e impulso. Se l’uomo possedesse o la sola intelligenza o il solo impulso, non avrebbe bisogno dell’etica. […] Un’etica che consenta agli uomini di vivere felicemente deve collocarsi a metà strada tra i due poli dell’impulso e del controllo. E’ da questo conflitto insito nella natura umana che nasce l’esigenza dell’etica.”[1]
Senza entrare nei dettagli di un concetto polisemico come quello di intelligenza e nelle sue molteplici dimensioni (emotiva, razionale, individuale, sociale, ecc…), quella che l’uomo solitamente chiama in causa per distinguersi dal resto del mondo animale è un prodotto per niente scontato della natura. D’altra parte la volontà o gli impulsi, intesi come il conatus di Spinoza, costituiscono l’inevitabile desiderio di conservazione ed espansione dell’essere. Se la volontà trova facile fondamento nell’essere meno scontata è la fondabilità della volontà morale che presume la mediazione dell’intelligenza.
Nel discorso etico il pensiero di Hume ha tracciato un solco incolmabile tra le descrizioni, relative all’essere, di pertinenza della scienza, e le prescrizioni o valutazioni, relative al dover essere, di pertinenza dell’etica. Quella che George Edward Moore ha chiamato la “fallacia naturalistica” altro non è che l’effettiva indeducibilità del dover essere dall’essere che aveva individuato il filosofo scozzese.
Fernando Savater prende le distanze da questa posizione e in Etica come amor proprio si chiede, in maniera molto perentoria, “da dove diavolo potremmo tirar fuori qualsiasi dover essere se non dall’essere che abbiamo a disposizione?”[2] e considera la distinzione tra essere e dover essere uno pseudo-problema. Indubbiamente “ciò che per l’uomo vale, è quello che l’uomo vuole; però l’uomo non può volere qualsiasi cosa, deve volere in accordo con quello che è”[3], tuttavia il dovere essere, presuppone una scelta che resta indeducibile dall’essere. L’uomo può volere solo in accordo con quello che è perché non può oltrepassare i limiti stabiliti, di volta in volta e sempre mutevoli, dalla sua storia evolutiva e dalla contingenza, tuttavia il suo volere può volgersi in molte direzioni. Il fatto che l’uomo “deve volere” costituisce l’essenza del conatus spinoziano ma da questo non si deduce affatto né l’oggetto del suo volere né il tipo di accordo con l’essere.
Savater ha il merito di individuare il paradigma della fondabilità etica nell’amor proprio dell’individuo, un paradigma privo di una metafisica che solo un uomo come Kant poteva concepire senza mala fede, ma nonostante la condivisibilità della tesi centrale di Savater fatico a seguire il filosofo spagnolo nel ragionamento che sembra delineare una deducibilità del dover essere dall’essere. Se concepiamo volere e dovere come due sfere di dimensioni e posizioni mutevoli immerse nell’indefinito essere, con la sfera del volere che include quella del dovere, in questi termini tutti i possibili dover essere sono in qualche modo vincolati al volere e in ultima istanza all’essere, ma questo non dice nulla sulla loro deducibilità dall’essere. L’essere da cui possiamo concepire la deducibilità è già un voler essere, inoltre di tutti i possibili dover essere solo alcuni costituiscono oggetto di interesse per un comportamento etico.
Savater assegna il dover essere a una dimensione storicamente determinatasi e afferma che “l’uomo non può inventarsi completamente, ma neppure smettere completamente di inventarsi”[4], tuttavia il giusnaturalismo di Savater crea un ponte, a mio avviso pericolante, tra essere e volere, entrambi ontologicamente dati, e dover essere, sempre imprevedibile e la cui datità ontologica è tutt’altro che scontata. Ritornando a Hume, le verità sulle materie di fatto non possono essere inferite a priori dall’esperienza secondo criteri logici tipici delle relazioni tra idee[5] e i risultati della volontà sono spesso materie di fatto. Se siamo liberi l’unico ponte tra essere/volere e dovere è la scelta individuale nel contesto collettivo, scelta sempre imprevedibile e i cui esiti, in fin dei conti, sono sempre imprevedibili. L’etica è la ricerca di un accordo, frutto di un’intelligenza sociale, in cui la scelta individuale possa esprimersi, mentre la volontà dell’essere è una proprietà del vivente che non ha necessità di estendersi oltre l’individuo. La vita che vuole sé stessa fonda sicuramente la speranza, l’incerta letizia di Spinoza, ma non dice nulla sulla sua qualità né su chi parteciperà di quella speranza.

[1] B. Russell, Un’etica per la politica. (1954). Laterza, Bari, 1994, p. 8-9.
[2] F. Savater, Etica come amor proprio. (1988). Laterza, Bari, 1998, p. 7.
[3] Op. cit., p. 8.
[4] Ivi.
[5] D. Hume, Ricerche sull’intelletto umano e sui principii della morale. Laterza 1980, p. 41.

sabato 6 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (52)]

Le innovazioni tecniche non possono non riflettersi sul nostro modo di percepire il mondo. Se per tecnica accettiamo una definizione ampia, strumentale, ossia qualunque strumento materiale o culturale di interazione con l’ambiente che ci circonda, non possiamo pensare che il tempo o lo spazio, almeno non quelli assoluti, qualora dovessero esistere, siano percepiti nella stessa maniera da Kant o da un uomo di oggi. Il tempo e lo spazio subiscono contrazioni o dilatazioni che dipendono dall’apparato tecnico materiale e culturale di un determinato contesto storico.
Da questa prospettiva si possono considerare curiose influenze dell’informatica. Senza prendere la cosa troppo sul serio mi riferisco a una apparentemente innocua e sicuramente utile funzione di annullamento dell’ultima operazione presente in quasi tutti i software oggi in uso: l’undo. Sarebbe persino banale ricordare che nella vita reale, fatta di carne e ossa e non solo di bit di informazione, non esiste nulla di simile, e senza mettere in discussione la relatività di Einstein le passeggiate nel tempo le abbiamo viste solo al cinema.
Eppure quante volte sarà capitato di sentire quella frustrante sensazione di non poter annullare l’ultima operazione che abbiamo già compiuto. In un momento la realtà virtuale sostituisce quella tangibile meno suscettibile di reversibilità e dall’impudente operazione ne usciamo stremati e scherniti.
Non si tratta di una semplice evoluzione della società mediatica delle comunicazioni, dove pure tra i soggetti di una relazione viene posto un filtro, un medium, nel quale le relazioni si modificano necessariamente rispetto alle intime intenzioni dei soggetti comunicanti (ma già Pirandello ci aveva messo in guardia del rischio, e senza informatica). Il mutamento di paradigma dettato dall’informatica è più radicale, non parliamo più di una variazione di carattere quantitativo di spazio e tempo comprimibili o dilatabili ma pur sempre finiti e irreversibili bensì di una trasformazione qualitativa degli a priori kantiani.
Nessuna paura, se un giorno dovessimo perdere completamente questi a priori potremmo trovarli facilmente facendoli squillare come facciamo oggi con il cellulare o, per i più tradizionalisti, il cordless di casa!

venerdì 5 ottobre 2018

La rosa bianca è tornata a casa

La rosa bianca è tornata a casa,
chi l'ha vista almeno una volta
è sorpreso di petali sciupati.
Il suo chiarore resta negli occhi,
il suo profumo nelle narici.
Distratto ti volti appena e la vedi,
davanti al mare attende onde lente,
chiede consigli agli antichi ulivi,
meravigliata si guarda le mani
ferite dalle sue forti spine.

La cattura del gatto [Note (51)]

La dialettica hegeliana del servo e del padrone presenta risvolti decisamente sorprendenti nella civiltà contemporanea. A differenza della società dell’ottocento caratterizzata da confini netti in una polarità dialettica, oggi la figura del padrone da cui il servo deve emanciparsi o la figura del servo in cui il padrone può riconoscersi sono divenute così vaghe da essere spesso confuse, l’una e l’altra, nello stesso soggetto. Se adottiamo il paradigma della classe sociale, appare evidente che nell’ottocento servo e padrone appartenevano a classi sociali differenti, mentre oggi le due figure sono confuse e spesso coincidenti nei soggetti appartenenti alla cosiddetta classe media. Un capolavoro di “evoluzione sociale”, per stemperare i conflitti dialettici. Farli implodere all’interno di un solo polo dell’asse dialettico.
Nella sempre più estesa classe media la dialettica coincide con la sintesi e, in un capolavoro di rovesciamenti, il servo non sa più individuare un soggetto cui indirizzare le sue rivendicazioni di emancipazione. Il padrone, nonostante alcune illusioni che da sempre rendono asimmetrica questa polarità dialettica, non sa bene verso chi esercitare il proprio dominio.
Indipendentemente da echi di rivendicazioni vi è l'impossibilità di individuare un soggetto in un contesto sistemico dove i confini di ciascuno sfumano nell’altro e le individualità sono in fin dei conti meri concetti operativi di una macchina globale che procede da sé senza troppa autocoscienza.
Nel frattempo i pochi soggetti delle classi alte prosperano!

giovedì 4 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (50)]

Sebbene l’armonia sia di difficile definizione ognuno di noi è in qualche modo sensibile a una certa consonanza estetica. Possiamo senz’altro dire che l’armonia si manifesta quando non vi sono discrasie tra gli elementi che compongono un oggetto, sia esso un’opera, un discorso, una vita. Le diverse parti di un insieme, di qualunque natura esso sia, presentano una misteriosa o ragionata corrispondenza tra loro senza reciprocamente smentirsi o, peggio, contraddirsi. Quando si ha la fortuna di essere di fronte a qualcosa di armonioso si gode una sensazione di pienezza e di piacere che non è soltanto fisico e non si esaurisce in un momento presente ma riverbera in tutte le sfere del proprio essere e lascia impronte nel proprio passato quanto nel proprio futuro. Insomma, un’esperienza di questo tipo è una sorta di porta che conduce dal prima al dopo e che ci trasforma in qualcosa di diverso.
L’uomo, si dice, cerca naturalmente l’armonia. Platone ce l’ha insegnato, gli stoici e le diverse tradizioni mistiche ce ne hanno dato numerosi esempi. Tuttavia, lungi dall’essere qualcosa di definitivamente dato, neanche l’armonia si sottrae a una sorta di addomesticamento e assume talvolta caratteristiche singolari che hanno l’aspetto della narcosi collettiva. Contrariamente a quello che solitamente si sostiene, vi sono ambiti in cui la negazione dell’armonia non reca alcun disturbo e passando attraverso le abitudini diventa costume.
In base a queste brevi considerazioni si può tranquillamente pensare che vestire abiti di damascato ricamato con filo d’oro e copricapo tempestato di pietre preziose incastonate e richiamare il mondo occidentale a una vita povera e meno attenta ai beni materiali possa essere espressione di millenaria saggezza!

mercoledì 3 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (49)]

Quando si tenta di spiegare il perché dei fenomeni naturali, il ricorso al concetto di materia, spesso accompagnato dall’epiteto “bruta”, desta sempre un certo imbarazzo nelle menti poco avvezze a rinunciare a un altro concetto che, come quello di materia, ha avuto alterne fortune e sicuri fraintendimenti nella storia del pensiero, quello del “senso”. Le temute, prima che comprese, spiegazioni “puramente materialiste” lasciano poco soddisfatti perché rinuncerebbero a porsi la domanda in cui Günther Anders riconosceva il fondamento del “senso”, ossia “che aveva in mente il creatore?”[1] svelando la dimensione teologica del ricorso al concetto di senso.
La materia, se guardiamo bene alla “fonte dell’idealismo rachitico”[2] che Musil denunciava agli inizi del secolo scorso e che in Occidente ha la sua origine nel pensiero di Platone, rivela una natura non meno “bruta” del tanto agognato pensiero e dell’ancor più ambito spirito. Infatti, già qualche decennio prima di Anders, Robert Musil chiariva “la differenza tra causalità e motivazione. La causalità cerca la regolarità, constata ciò che è soggetto ad un vincolo permanente. La motivazione spiega il ‘motivo’ suscitando un impulso ad agire, a sentire, a pensare nello stesso modo. Su ciò si fonda la distinzione di cui s’è detto fra esperienza scientifica e esperienza di vita”[3]. In risposta al conteso primato della conoscenza tra le posizioni naturalistiche e romantiche Musil faceva notare come “dal naturalismo nacque una realtà senza spirito, dall’espressionismo uno spirito senza realtà: non era ‘spirito’ né l’uno, né l’altro. Ma dall’altro lato s’avanza quella certa razionalità asciutta come un pesce secco che noi tedeschi ben conosciamo, e i due contendenti sono più o meno della stessa forza.[4]
La materia manifesta processi di auto-organizzazione nel mondo inorganico e vivente che si prestano a molteplici letture. Il grande inganno della complessità degli organismi viventi può essere letto in chiave causale ma, ammettiamolo pure, non si sottrae a una lettura in chiave motivazionale. Per quanto riguarda quest’ultima chiave di lettura possiamo anche sostenere che si tratta di tesi rigettabili e di nessun interesse scientifico ma il punto essenziale è che resta valida l’impossibilità di escludere i fondamenti pregiudiziali della conoscenza tanto per un soggetto che affronta l’esistente con gli strumenti del raziocinio scientifico quanto per il soggetto che li affronta con quelli della fede. Diventa abbastanza comico osservare come, a volte, i due modi di pensare, qualcuno parlerebbe addirittura di magisteri, si mescolino. Non sono rare invocazioni a una fantomatica logica che condurrebbe dall’inorganico al vivente e successivamente alla coscienza, come potrebbe essere altrimenti del resto, se a formulare tale logica è un pensiero cosciente? Da parte mia invoco una epoché, per quanto ne so la logica non dovrebbe avere alcun ruolo in questa vicenda.
La logica dei processi in questo ambito (materia organica/biologica che succede a quella inorganica) è un vestito che possiamo cucire solo a posteriori. Se vogliamo usare la logica per interpretare ciò che fa parte degli osservabili, bene, ma inevitabilmente insorgono problemi epistemologici se la invochiamo per interpretare il passaggio dal non osservabile all’osservabile.
E’ evidente che siamo partecipi di una materia che si auto-organizza, ciò che mi lascia perplesso sono le premesse di un discorso motivazionale ovvero della inevitabilità degli esiti. Penso sinceramente che i meccanismi validi per spiegare gli eventi biologici “sono tanto importanti per noi quanto irrilevanti nell’economia complessiva dell’universo” (Edoardo Boncinelli, nell’introduzione all’edizione italiana del libro di E. Mayr[5]).
Il senso non è certamente cosa da liquidare con un semplice «non esiste», occorre stabilire con onestà quale statuto ontologico va dato al senso, se quello della scoperta o quello dell’invenzione, del già dato eppure nascosto o della continua costruzione. Anders sostiene che “il nostro concetto di senso appunto è solo storicamente deducibile, ma non spiegabile filosoficamente”[6] e, per scongiurare eventuali rivendicazioni da parte di scienziati troppo frettolosi di celebrare inutili, quanto fasulle, vittorie sull’indagine filosofica, afferma “che la loro esistenza a sua volta potrebbe essere insensata, non se ne sono accorti, accecati come sono dalla bellezza e dalla necessità”[7].
Di qui, l’ approfondimento del “possibile antropologico”.

[1] G. Anders, L’uomo è antiquato, Vol. II, Bollati Boringhieri, 2007, p. 357.
[2] R. Musil, Spirito ed esperienza. Note per i lettori scampati al tramonto dell’occidente, 1921. In Sulla stupidità e altri scritti, Oscar Mondadori, 1986. p. 103.
[3] R. Musil, op. cit., p. 93.
[4] R. Musil, op. cit., p. 103.
[5] Ernst Mayr, L’unicità della biologia - Sull’autonomia di una disciplina scientifica, Raffaello Cortina Editore, 2005, p. XII
[6] G. Anders, op. cit., p. 357.
[7] G. Anders, op. cit., p. 358.

martedì 2 ottobre 2018

Alla mia rosa dell'alba

9 settembre alle ore 11:30
Nel mese del tramonto, quando le nuvole sono in tumulto nel cielo azzurro tragico dei fiori di cicoria, brucia il timore di non riconoscere la terra che ti partorì. Braccia avvizzite i rami, fronte solcata di rughe i canali di poca acqua che non dilava veleni. Ombre lunghe ricordano che è passata l'ora dell'anno quando umani e dèi si confondono.

10 settembre alle ore 21:37
“Noi, che sprechiamo i dolori.
Come li affrettiamo mentre essi tristi, durano,
a vedere se finiscono, forse. E sono invece
la fronda del nostro inverno, il nostro sempreverde cupo
uno dei tempi dell’anno segreto, ma non solo
tempo, – son luogo, sede, campo, suolo, dimora.”
Rilke, dalla Decima Elegia duinese

11 settembre alle ore 07:55


11 settembre alle ore 07:59


11 settembre alle ore 14:28
Occhi di ragazza
Questo viaggio prima o poi
Sarà finito
Una spiaggia vuota senza mare
Io dovrò vedere in voi

11 settembre alle ore 16:25
Il cuore è un carretto impazzito che cigola mentre corre veloce in discesa verso il mare su strade sassose e campi rossi di papaveri. Stille di sangue diventate fiori per benevolenza dell'ulivo che attende i figli suoi per donare il riposo della papaverina alle vite vissute in fretta, come non ci fosse tempo da perdere.


12 settembre alle ore 10:17
Ancora navighiamo su zattere di fortuna
con vele lacere e vento forte.
Nessuna terra in vista
ché la terra fa paura che il viaggio finisca.
Siamo abituati alla burrasca
delle onde feroci dei campi d'orto
per coltivare perle di arcobaleni
sotto serre basse, tra le anime di pietra
che affiorano in questo mare sterminato.


13 settembre alle ore 18:57
Dormi bambina che domani avremo altri voli da spiccare, a braccia aperte per sfiorare ulivi e serpi. Corri bambina, tra i campi resinosi di tabacco che la vita ti resta incollata addosso come un ricordo ostinato che torna ogni notte insonne.

13 settembre alle ore 21:07
Offri in dono il tempo nella veste bianca che tieni sollevata, fu fatta per il gran saluto quella veste ma la girandola di carta non si fermò, il mare doveva ancora trovare riparo nei tuoi occhi dietro gli occhiali da sole. La veste d'angelo fu ricucita perché non si butta via niente, bottoni sulla schiena, via le maniche, accorciamola un po'. E' perfetta per passare un giorno al mare. Dimmi, sei felice davanti al mare?
Oggi mi sanguina la memoria e non c'è medicazione a portata di mano per fermare questa emorragia di tempo. Un esercito di miserabili si accalca alla porta di casa mia, molti li conosco, di altri m'hanno parlato, vestono abiti lisi, hanno visi consumati. La porta è stretta, si passa uno alla volta. Vogliono entrare tutti, sgomitano, si spingono, si azzuffano tra di loro e restano fuori, esausti, feriti, nessuno riesce a entrare. Sanguinano i giorni e le attese, restano fuori casa, doloranti, in attesa che la ressa finisca.


13 settembre alle ore 22:30
La madre bambina tornò a casa ridendo,
sul viso cercava le rughe di anni a venire,
lasciti di un tempo ottuso che non voleva arrivare.
Barattò gli anni con un ricordo ostinato
perché non mancassero lacrime,
acqua santa per battezzare il mondo senza dèi.

14 settembre alle ore 21:29
Requiem aeternam dona eis, Domine.
Lascia che riposino Signore,
che la terra non sia fredda.
Libera nos Domine de morte aeterna
in die illa tremenda.
Da quale trono potrai giudicare, Domine?
Non hanno atteso il giorno delle lacrime per piangere,
il dolore si è riconosciuto nello specchio dei loro occhi.
Cos’altro potrai chiedere nel giorno del giudizio?

Kyrie eleison, Kriste eleison.
Pietà per tuo figlio che muore sempre,
ogni giorno, non solo in croce,
quasi mai innocente.
Agnus Dei que tollis peccata mundi
miserere nobis.
Miserere per i crimini
che dobbiamo compiere.

Mors stupebit et natura,
cum resurget creatura.
Lasciaci dormire Domine,
nel giorno tremendo saremo stanchi per risorgere
e altri giorni ricorderemmo da chiederti conto.
Libera eas de ore leonis.
L’antica promessa non ricordiamo più
e il pane quotidiano non è mancato
per nutrire la bocca del leone,
morte stupita per sogni e attese.

Requiem aeternam dona nobis, Domine,
et lux perpetua lucebit nobis.

15 settembre alle ore 17:51
Se non fossi un ricordo mi dimenticherei.


15 settembre alle ore 23:12
Ho una vecchia tazza che ci facevo colazione da bambino, è crepata e non tiene il latte caldo, la custodisco in una vetrina per guardarla e ricordare le colazioni che non avrò più. Non ho la colla adatta per ripararla. Mi dicono di buttarla via ma non posso farlo.
Mi si è sbreccata l'anima, caduta a terra per distrazione che ancora mi mordo le mani. La metterò nella vetrina, accanto alla vecchia tazza, in attesa di trovare la colla giusta per ripararle.


17 settembre alle ore 15:46


17 settembre alle ore 16:11
Le nostre case sono così, anche quando stanno per crollare te lo dicono strappandoti un sorriso.


18 settembre alle ore 12:06
«Accompagnamento? Quale accompagnamento? Io vi accompagno tutti. Se mi danno l'accompagnamento mi tolgono la patente. Io voglio tornare a guidare, voglio riprendermi la mia vita.»
Ho bevuto latte di leonessa che rende l'anima viva e inquieta.


18 settembre alle ore 22:18
Non è importante sapere se è a fuoco.


21 settembre alle ore 13:08
"Non ti conosco ma so a chi appartieni."

22 settembre alle ore 15:31
Videmus nunc per speculum in aenigmate


22 settembre alle ore 16:33
Sentinella, quanto resta della notte?


23 settembre alle ore 14:46
Ogni pietra ha il suo posto, ogni pietra è al suo posto, in una geometrica, metafisica precisione. Ogni pietra deve cercare il proprio posto, in armonia con le altre. Qual è il posto di una pietra quando mancano le pietre angolari che la sostengono?


23 settembre alle ore 22:38
Senza valigie partimmo per tornare dove il viaggio cominciò. Non era lunga la strada, poca mercanzia serviva, grilli e lucertole indicavano il cammino, profumo di legna e gocce di papaveri lastricavano la strada bianca, rovi ai lati, rami tesi per graffiare braccia e gambe, offerte del nostro pellegrinaggio. Attraversammo il giorno leggeri come rondini, la notte come stelle, coda di ghiaccio i desideri, appena il tempo di esprimerli e un tuffo il buio, uno sguardo fisso al cielo che avevamo nel cuore, fatica il respiro per inghiottire la vita. Qui si muore per fare dispetto al sole e alla pioggia lontana, anneghiamo nelle lacrime di dèi fuggiti, foglie argentine tra sassi e terra avara. Aspettiamo un'alba che conoscemmo per sentito dire come una promessa, come in una messa, le ginocchia si piegarono, rami di vite, e il dolore ci restò sulla pelle, resina che non si lava. I nostri morti ci hanno insegnato l'arte dell'attesa senza ritorni e le parole custodite nei forzieri di silenzio.

24 settembre alle ore 16:17
Autoritratto


26 settembre alle ore 11:07
Le nostre vite sono l'esame di coscienza di Dio.

27 settembre alle ore 10:31
Ho fatto un sogno. Una tassa sulle parole dette.

27 settembre alle ore 17:25 ·
La controra di settembre, quando il sole sanguina luce.


30 settembre alle ore 22:10
"«Io vidi i signori lì in sala d'attesa» disse K., «la loro attesa mi parve così inutile.»" Kafka, Il processo.


***

...il tempo scorre perché certi orologi continuano a tenerne il passo...


Mia rosa dell'alba,
chi ti recise troppo presto
lasciò qui il tuo profumo.

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