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sabato 25 novembre 2017

Dopo il black friday...

Dopo il black friday torna il yellow brown saturday. It's the fall baby e tu non puoi farci niente!


Non ci sono oggetti che tu possa comprare per fermare la caduta delle foglie, nessuna immortalità è così a buon mercato. Ti hanno detto che così compri un po' di immortalità, che la tua mortalità passa negli oggetti che acquisti e che presto moriranno al tuo posto, non è questo che accade. Con gli oggetti acquisti la mortalità dei tuoi simili, di quegli uomini, di quelle donne, di quei bambini che, sottopagati e sfruttati, hanno costruito quegli oggetti e te li hanno consegnati con sconti da sogno, o da incubo. Quale osceno commercio ti hanno indotto a fare. Il vuoto che vuoi riempire è l'abisso in cui prima di te è caduto chi ha dimenticato quale immenso valore morale avesse la misura delle cose, l'equilibrio tra beni e bisogni e il sereno godimento di una condizione in cui non c'è continuo rilancio tra gli uni e gli altri per arrivare all'assurdo infinito che toccheremo al prezzo della totale distruzione. Ti hanno detto che se non fai acquisti non conti nulla, non muovi l'economia, non contribuisci al progresso della specie. Guardalo adesso quel progresso, guarda cosa è diventato e guarda cosa sei diventato tu mentre inseguivi quel progresso. Sei diventato un consumatore! Se prima avevi diritto a rivendicare un ruolo di costruttore, di trasformatore del mondo, adesso non ti resta che andare fiero del ruolo di consumatore del mondo. I contadini che producevano sono diventati consumatori, gli operai che trasformavano sono diventati consumatori. Il consumatore è diventata categoria totalizzante in cui confluisce anche quella di cittadinanza. È questa la mutazione antropologica più devastante dal secondo dopoguerra in avanti e non vedo principe all'orizzonte che liberi da questo sortilegio. Niente più partiti, niente sindacati, nessun corpo intermedio delle democrazie, solo le associazioni dei consumatori hanno titolo di intermediazione tra governati e governanti. Anche tu fai parte a pieno titolo della schiera di consumatori. Adesso tutti facciamo parte della schiera degli sfruttatori, per quanto lontani da chi viene sfruttato, che non ci consentirà più di rivendicare la giustizia che noi stessi neghiamo ai nostri fratelli. E' questo il risultato della macabra danza del consumo. Tutti hanno diritto di sfruttare qualcuno! E' il vecchio adagio mors tua vita mea e non ce ne siamo ancora accorti.
Solo sottraendoci a questo scomposto sabba possiamo riconquistare il nostro sacro finito. Solo negandoci a questo balletto osceno potremo dedicarci al nostro santo nulla che scopriremo essere il tutto che inseguivamo senza riconoscere i nostri stessi desideri.
Forse, come diceva Goffredo Parise in un immenso articolo, "il rimedio è la povertà", una povertà intessuta di ricchezza morale, una povertà nobile se così si può dire. Tornano in mente i tanti interventi di Pier Paolo Pasolini sulla mutazione antropologica del consumismo, torna in mente Enrico Berlinguer quando parlava dell'austerità, da non confondere con quella roba da bassa contabilità di cui si parla oggi. Berlinguer parlava di una austerità che aveva la maestà etica alle spalle ma non fu capito nel suo stesso partito, fu osteggiato da quanti non colsero il portato morale e politico di quel richiamo e si fermarono alla sola dimensione economica. Qualche anno dopo, quando in una celebre intervista venne chiesto a Berlinguer di ricordare quell'appello, concluse con un desolante e, per me, commovente "non fummo ascoltati."

giovedì 23 novembre 2017

La cattura del gatto [Note(9)]

Il rapporto tra beni e bisogni è sempre stato molto complicato e cosa venga prima ha impegnato decine di sociologi, senza che si pervenisse a una conclusione definitiva. L’attenzione si è spostata di volta in volta dalle esigenze primarie a quelle culturali, dalla determinazione biologica ai valori simbolici e da Karl Marx a Marshall Sahlins si è sempre stabilito una sorta di risonanza tra beni e bisogni con una reciproca determinazione e definizione. Se dal punto di vista genealogico la situazione è sicuramente complicata dal punto di vista etico è indubbio che i bisogni, in quanto espressione di un desiderio, si pongono in rapporto con i beni come i fini si pongono con i mezzi. Questo ovviamente non chiarisce il problema su cosa venga prima ma pone un certo limite alla crescita di feticci.
Tornando al dilemma genealogico, oggi appare diatriba di tempi passati che ha perso ogni interesse poiché è oltre modo evidente che l’ordine tra beni e bisogni è stato definitivamente chiarito per quella sottoclasse di beni conosciuti come beni di consumo, fortunatamente per i beni affettivi e relazionali la faccenda è ancora magnificamente complessa ma si sta lavorando in proposito per dipanare la matassa!
I beni di consumo vengono creati, il loro significato costruito contestualmente alla loro emergenza con meccanismi di manipolazione sociale complessi e difficilmente prevedibili, tuttavia in caso di successo, che significa acquisto e diffusione dei beni, entra in gioco una singolare asimmetria tra la precarietà del bene di consumo, che deve essere effimero per definizione, e la perduranza dell’immagine creata, quest’ultima diventa quasi intoccabile e costituisce l’autentico capostipite di beni successivi. Una cultura comunicativa che costruisce più di quanto gli sia concesso decostruire fornisce, suo malgrado, supporto a tale meccanismo. La comunicazione costruttiva avviene in un contesto produttivo di aggiunta e arricchimento (puoi fare, puoi costruire, puoi creare…), mentre il contesto della comunicazione decostruttiva è di ordine morale percepito come elemento penalizzante (non puoi fare, non puoi costruire, non puoi creare…). Un processo regolare, circolare di creazione ed erosione di significati è sempre un processo con bilancio positivo, con il risultato di creare immense discariche di significati difficili da decomporre.
Il contesto comunicativo è fondamentalmente asimmetrico, si può dire tutto e il suo contrario ma le modalità costruens e destruens della comunicazione non hanno pari dignità. La società rifiuta il “polemico” poiché rifiuta il conflitto, forse con qualche ragione ma spesso per pigrizia intellettuale più che per razionale opposizione che a sua volta sancirebbe conflitto. Non è follia riabilitare, sebbene senza la minima pretesa moralizzatrice o di coercizione, una funzione destruens di pari dignità della funzione costruens nella comunicazione allo scopo di aggiungere un elemento “spazzino” di molti rifiuti mentali. Occorre sviluppare la funzione destruens in un contesto di “diversa creazione”, occorre fornirle un contesto culturale in cui può essere espressa senza apparire l’urlo di un pazzo, dando per scontate le capacità mentali di chi la esprime.

mercoledì 15 novembre 2017

Dolorose partenze

Noi salentini siamo viaggiatori riluttanti. Ogni partenza è un trauma natale che tocca pur attraversare! Nelle famiglie i racconti di viaggi sono spesso accompagnati da ricordi di povertà e di terre lontane e più generose da coltivare. Trasferte brevi che duravano una stagione, eppure dolorose da lasciare tracce nella memoria delle generazioni a venire, oppure trasferte dalla durata infinita, mai definitive, perché insieme alla partenza si accarezzava come il più amato dei figli l’idea del ritorno. Da queste terre si parte malvolentieri e si ritorna sempre. La storia del Salento, come di tanto Sud, non è storia di partenze ma di continui ritorni. Ogni viaggio è un viaggio iniziatico, un rito di ingresso in un nuovo mondo che ha come punto di arrivo esattamente il punto di partenza. E’ naturale che ogni iniziazione costi sacrificio e sudore, non solo dell’anima. E’ la stessa terra a chiedere un pegno di dolore, come tributo per il viaggio da intraprendere.

Prendiamo la stazione ferroviaria di Lecce per esempio, perché ogni partenza che meriti dignità di viaggio iniziatico si fa in treno, non sono ammessi altri mezzi di trasporto. La stazione di Lecce è un luogo concepito per rendere dolorosa la partenza, “ché a tacer tanto duolo è cosa dura, e poco ha doglia chi, dolendo, tace.” Quando si parte da questa stazione il distacco diventa lancinante anche perché le ferite dell’anima sono spesso sovrastate dalla fatica del corpo e resta nella memoria una feroce incertezza se faccia più male il cuore per essere dovuto partire o per aver dovuto prendere il treno per partire. Se la sventura vuole che il treno da prendere parta da un binario diverso dal primo, che si incontra appena dopo l’ingresso alla stazione, allora tocca fare una doppia rampa di scale per scendere nel corridoio sotterraneo e una per risalire al binario desiderato.

Alla stazione di Lecce le barriere architettoniche hanno la precisa e impeccabile funzione di rendere la partenza un evento più che mai doloroso. Niente scale mobili, nessun ascensore né carrelli elevatori. Ogni dettaglio concorre a rendere il distacco dalla propria terra un evento scioccante che lascia segni indelebili nello spirito e nel fisico non solo del viaggiatore ma anche dei parenti più stretti che lo avranno accompagnato alla stazione per gli immancabili saluti alla partenza e se la buona sorte ha voluto che gli amati parenti siano in età avanzata arrivano al binario addolorati per la partenza del caro congiunto e sfiatati per le amare scale che hanno dovuto percorrere di corsa. Non è uno scherzo riaversi dal trauma del distacco quando si parte dalla stazione di Lecce. E se i viaggiatori sono anziani, disabili o famiglie con passeggini, prendere il treno diventa soggetto per epiche narrazioni di erculee fatiche che si tramandano di padre in figlio per almeno sette generazioni. Un dolore incancellabile nella storia familiare anche perché quando parte un salentino, insieme a lui si muovono generi alimentari di lunga tradizione: vino, marmellate, pomodori e fichi secchi, tutto rigorosamente fatto in casa e accuratamente disposto in comode scatole di cartone approntate alla bisogna. E' uno strazio di inaudita crudeltà non poter portare con sé vettovaglie di sopravvivenza per gli ostacoli da attraversare prima di arrivare al treno. E' come se la stessa terra si opponesse all'esodo dei suoi prodotti e con essi a quello del viaggiatore. E' un'esperienza che chiede tempra, altrimenti che viaggio iniziatico sarebbe?

Alla stazione di Lecce tutto è pensato per il viaggiatore giovane, forte e in buona salute o per il viaggiatore perfetto, quello che viaggia leggero, ma noi salentini qualcosa da casa dobbiamo portarla con noi ed è facile che le nostre valigie si appesantiscano di sapori, odori e voci che ci portiamo dietro, insieme alla fatica che ci costa partire.

Matilde Surano e Antonio Caputo.

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lunedì 6 novembre 2017

Promemoria

Diciamoci la verità, adottando una visione disincantata dei sistemi politici possiamo dire che la democrazia è un discreto metodo per smorzare i conflitti tra le classi sociali.  La classe meno agiata potrebbe dire che la democrazia è utile alle classi agiate per tutelare i propri interessi evitando rivolte e sollevamenti. Anche la classe agiata potrebbe convenire sul punto e riconoscere la necessità di un patto tra le classi perché la tutela continui a essere efficace con beneficio di entrambe le classi: la classe agiata continua rimanere tale, quella meno agiata migliora le proprie condizioni di vita. Per un certo periodo questo patto c'è stato poi... lasciamo perdere. Comunque sia anche la democrazia ha le sue involuzioni, come ogni altro sistema umano del resto, ma quando farà ritorno l'imbecille proposta di introdurre una patente per votare ricordarsi di rileggere questa pagina di Antonio Gramsci.


Q13 §30. Il numero e la qualità nei regimi rappresentativi. Uno dei luoghi comuni più banali che si vanno ripetendo contro il sistema elettivo di formazione degli organi statali è questo, che il «numero sia in esso legge suprema» e che la «opinione di un qualsiasi imbecille che sappia scrivere (e anche di un analfabeta, in certi paesi), valga, agli effetti di determinare il corso politico dello Stato, esattamente quanto quella di chi allo Stato e alla Nazione dedichi le sue migliori forze» ecc. (le formulazioni sono molte, alcune anche più felici di questa riportata, che è di Mario da Silva, nella «Critica Fascista» del 15 agosto 1932, ma il contenuto è sempre uguale). Ma il fatto è che non è vero, in nessun modo, che il numero sia «legge suprema», né che il peso dell’opinione di ogni elettore sia «esattamente» uguale. I numeri, anche in questo caso, sono un semplice valore strumentale, che danno una misura e un rapporto e niente di più. E che cosa poi si misura? Si misura proprio l’efficacia e la capacità di espansione e di persuasione delle opinioni di pochi, delle minoranze attive, delle élites, delle avanguardie ecc. ecc. cioè la loro razionalità o storicità o funzionalità concreta. Ciò vuol dire che non è vero che il peso delle opinioni dei singoli sia «esattamente» uguale. Le idee e le opinioni non «nascono» spontaneamente nel cervello di ogni singolo: hanno avuto un centro di formazione, di irradiazione, di diffusione, di persuasione, un gruppo di uomini o anche una singola individualità che le ha elaborate e presentate nella forma politica d’attualità. La numerazione dei «voti» è la manifestazione terminale di un lungo processo in cui l’influsso massimo appartiene proprio a quelli che «dedicano allo Stato e alla Nazione le loro migliori forze» (quando lo sono). Se questo presunto gruppo di ottimati, nonostante le forze materiali sterminate che possiede, non ha il consenso della maggioranza, sarà da giudicare o inetto o non rappresentante gli interessi «nazionali» che non possono non essere prevalenti nell’indurre la volontà nazionale in un senso piuttosto che in un altro. «Disgraziatamente» ognuno è portato a confondere il proprio «particulare» con l’interesse nazionale e quindi a trovare «orribile» ecc. che sia la «legge del numero» a decidere; è certo miglior cosa diventare élite per decreto. Non si tratta pertanto di chi «ha molto» intellettualmente che si sente ridotto al livello dell’ultimo analfabeta, ma di chi presume di aver molto e che vuole togliere all’uomo «qualunque» anche quella frazione infinitesima di potere che egli possiede nel decidere sul corso della vita statale.

Dalla critica (di origine oligarchica e non di élite) al regime parlamentaristico (è strano che esso non sia criticato perché la razionalità storicistica del consenso numerico è sistematicamente falsificata dall’influsso della ricchezza), queste affermazioni banali sono state estese a ogni sistema rappresentativo, anche non parlamentaristico, e non foggiato secondo i canoni della democrazia formale. Tanto meno queste affermazioni sono esatte. In questi altri regimi il consenso non ha nel momento del voto una fase terminale, tutt’altro. Il consenso è supposto permanentemente attivo, fino al punto che i consenzienti potrebbero essere considerati come «funzionari» dello Stato e le elezioni un modo di arruolamento volontario di funzionari statali di un certo tipo, che in un certo senso potrebbe ricollegarsi (in piani diversi) al self-government. Le elezioni avvenendo non su programmi generici e vaghi, ma di lavoro concreto immediato, chi consente si impegna a fare qualcosa di più del comune cittadino legale, per realizzarli, a essere cioè una avanguardia di lavoro attivo e responsabile. L’elemento «volontariato» nell’iniziativa non potrebbe essere stimolato in altro modo per le più larghe moltitudini, e quando queste non siano formate di cittadini amorfi, ma di elementi produttivi qualificati, si può intendere l’importanza che la manifestazione del voto può avere. (Queste osservazioni potrebbero essere svolte più ampiamente e organicamente, mettendo in rilievo anche altre differenze tra i diversi tipi di elezionismo, a seconda che mutano i rapporti generali sociali e politici: rapporto tra funzionari elettivi e funzionari di carriera ecc.). (Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, 1948.)
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