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sabato 15 dicembre 2018

Incredulità

Il sole di settembre, abituato ai lenti pomeriggi estivi, indugiava sulla linea del tramonto, incerto se trattenersi ancora o passare dall'altra parte della linea dell'orizzonte. Due ombre lunghe camminavano insieme, mano nella mano. - Siamo arrivati? chiese una - Sì, rispose l'altra con un velo di tristezza che le passava sugli occhi - E' l'ultima porta - Già - Fammi entrare insieme a te, implorò una delle due ombre - Non pensarci nemmeno, rispose perentoria l'altra - Se entri non potrai più uscire e io non voglio che tu entri, non ancora. Io vado avanti, ti dirò com'è - Se è brutto non me lo dirai, lo so - Perché deve essere brutto? Non è niente. Si scivola. Come addormentarsi e io ho tanto sonno. Tu non hai sonno, non devi averne - Devo tornare indietro da solo. Troverò la strada? - La troverai, sarò con te per suggerirtela ogni volta che la perderai - Mi mancherai - Da oggi in poi non saremo mai stati più vicini - Ci vedremo presto? - E' questione di tempo. Prenditi cura di te, sei il mio ricordo più grande - Lo farò ma non chiedermi di non piangere.
Quel pomeriggio pioveva tempo, ne veniva giù tanto, più di quanto non ne cade in interi anni. Quel pomeriggio il tempo veniva giù a dirotto, il tempo di una o più vite. Non ebbi modo di sapere quante.
Il giorno era passato, fitto come pochi di incroci di possibilità e strade che non potevano essere percorse e che si aprivano come ferite nella carne che non sarebbero più rimarginate. Il tempo si comprimeva, come corpo stritolato da una macina, il succo amaro gocciolava, distillato di fiele da bere fino in fondo.  
***
Ricorre quel giorno che incredula chiedesti a una suora se davvero era tuo quel bambino che ti dormiva tra le braccia, "Benedetta ingenuità!", rispose la suora. Oggi le nostre incredulità si toccano e si capovolgono. Allora tu non riuscivi a credere che io fossi nato, oggi io non riesco a credere che tu sia



giovedì 13 dicembre 2018

Di duol ci satolliamo ambi

     Io, pensando tra me, l’estinta madre
Volea stringermi al sen: tre volte corsi,
Quale il mio cor mi sospingea, ver lei,
E tre volte m’usci fuor delle braccia,
Come nebbia sottile, o lieve sogno.
Cura più acerba mi trafisse, e ratto,
Ahi, madre, le diss’io, perchè mi sfuggi
D’abbracciarti bramoso, onde anco a Dite,
Le man gittando l’un dell’altro al collo,
Di duol ci satolliamo ambi, e di pianto?
Fantasma vano, acciò più sempre io m’anga,
Forse l’alta Proserpina mandommi?
     O degli uomini tutti il più infelice,
La veneranda genitrice aggiunse,
No, l’egregia Proserpina, di Giove
La figlia, non t’inganna. È de’ mortali
Tale il destin, dacchè non son più in vita,
Che i muscoli tra sè, l’ossa, ed i nervi
Non si congiungan più: tutto consuma
La gran possanza dell’ardente foco,
Come prima le bianche ossa abbandona,
E vagola per l’aere il nudo spirto.
Ma tu d’uscire alla superna luce
Da questo bujo affretta; e ciò, che udisti,
E porterai nell’anima scolpito,
Penelope da te risappia un giorno.

Omero - Odissea, Libro XI, vv. 265-290
Traduzione di Ippolito Pindemonte (1822)

giovedì 29 novembre 2018

Dell'immaterialismo astorico

I miei amati muretti a secco entrano nella lista degli elementi immateriali dichiarati Patrimonio dell'umanità in quanto rappresentano... Un attimo, un attimo, aspetta un attimo. Immateriali? Che significa immateriali? Non conosco niente di più materiale. Sono carne e sangue quei muretti, sono sudore, se non hai occhi attenti, mani sensibili, non li senti. Quando cammini per i campi li ascolti, ne senti l'odore, il sapore. Li devi toccare per capire. Patrimonio, patrimonio... dal pater... non bastava dirli immateriali, dovevano essere patrimonio immateriale. Dovevano essere spogliati della materia, privati della loro sostanza, messi in formalina, sotto spirito. Ecco, dovevano essere conservati sotto spirito. Lo spirito conserva la materia... Continua la guerra mossa da logos a mater. Esultiamo gente, i muretti a secco, mater(ia) che partorisce logos, diventano patrimonio immateriale. Logos si sostituisce a mater che lo genera... Logos dimentica di essere figlio di mater... "Vergine madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d'etterno consiglio, / tu se' colei che l'umana natura / nobilitasti sì, che 'l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura." Fattura? Macché fattura che poi tocca pagare le tasse, facciamo tutto in nero così paghi meno e siamo contenti entrambi...
Comunque sia, c'è da essere felici di questo riconoscimento, perché grazie a questo riconoscimento la mater(ia) dei muretti a secco può continuare a generare logos. Che almeno il figlio non dimentichi la madre.

mercoledì 21 novembre 2018

Discorsi

- Simone de Beauvoir scriveva che donna non si nasce, si diventa.
- Già, lei pensava che era la società a forgiare quell'eunuco chiamato donna.
- Dici che è tutta qui la forza di quella affermazione?
- de Beauvoir è tra gli autori caleidoscopici, non si smette mai di leggerli. Tu cosa dici?
- Dico che quell'affermazione va letta insieme a quella dove dice che non sarebbe mai capitato a un uomo di scrivere un libro sulla situazione particolare di essere maschio.
- Quindi?
- Per un uomo è ovvio essere uomo, per una donna no. Una donna diventa donna perché assimila i ruoli che la società le ha cucito addosso.
- Non vedo dove sia la novità.
- Aspetta. Per la donna non si tratta di una banale assimilazione passiva. La donna vive nella carne una condizione di minorità che la costringe a porsi domande sulla propria condizione, sull'essere donna. Durante questo percorso va maturando la coscienza della propria identità. Non c'è niente di glorioso in questo, troppo spesso queste identità sono rimaste sepolte sotto la coltre delle identità preparate di volta in volta per la donna dalla società dei maschi. Questo determina frustrazione, disagio. Tuttavia quella condizione di minorità, la necessità di uscire da quella condizione di minorità ha fatto sì che la donna si interrogasse sul proprio divenire donna facendo esplodere quella tensione che si è andata accumulando tra le identità che ha costruito e la gabbia che le era stata preparata. Se leggiamo attentamente le sue parole de Beauvoir contrappone il nascere al divenire come si contrappone una condizione data a una condizione da costruire e, tra le righe, contrappone l'uomo alla donna. L'uomo non diventa nulla, l'uomo nasce uomo. La conseguenza di questo è che l'uomo non ha coscienza della propria identità, la vive come qualcosa di dato una volta per sempre.
- Mi sembra una lettura forzata.
- Forse lo è, ma lo dice lei stessa, un uomo non ha bisogno di scrivere un libro sul suo essere uomo. Essere un uomo è ovvio. E' la necessità di divenire donna che è al centro del discorso. Quello che sta al centro del discorso è la fatica di divenire qualcosa anziché di essere soltanto qualcosa.
- L'uomo non ci fa una bella figura.
- Potremmo andare oltre il tema e dire che il sesso non è rilevante. Quello che conta è essere o meno in una condizione di minorità, qualunque essa sia. Chi è in una condizione di dominanza si vive la sua bella condizione senza troppe domande, acquisisce un modello bello e pronto e, tornando al nostro tema, per sommo paradosso è proprio l'uomo che indossa un vestito che gli è stato cucito addosso, solo che è un vestito comodo che non lo fa interrogare su come sia stato cucito, quali stoffe siano state usate, invece la donna ha sempre indossato un vestito stretto, è ovvio che abbia voluto toglierselo di dosso e indossarne altri. Riconoscersi in una qualsiasi minorità è un fatto morale, è un fatto che ha rilevanza morale perché scatena interrogativi sulla propria condizione e comporta la responsabilità di realizzare un modello di identità che non è scontato, non è precostituito. E' una responsabilità di fronte a sé stessi e di fronte alla storia. Chi indossa un abito preconfezionato non si pone questi problemi.
- E' faticoso essere donna.
- Lo è. E' faticoso diventare qualcosa. E' questo dover continuamente diventare che dobbiamo salvare. Uscire dalla condizione di minorità è necessario ma ha qualcosa di insidioso.
- Cosa?
- Il rischio di non dover più diventare. Cosa saremo quando non dovremo più diventare donne? Se un giorno, spero non lontano, dovessimo scoprire che donna si nasce allora saremmo come l'uomo di cui parla de Beauvoir o forse peggio per quell'insana tendenza a superare il proprio tiranno per piacergli. Noi non dobbiamo smettere di diventare quello che siamo. Quando si esce da una condizione di minorità il rischio è dimenticare le domande che ci fanno essere quello che siamo, il rischio è dare per scontate identità che non abbiamo costruito con la nostra fatica.
- Insomma stai dicendo che dobbiamo rimanere in condizioni di minorità.
- No, non fraintendermi. Sto dicendo che uscire dalle minorità è necessario ma non rappresenta la fine di un percorso di emancipazione. Questo vale per qualsiasi minorità. Il nostro lavoro non sarà mai finito, non potrà mai finire. Non dobbiamo mai smettere di diventare quello che siamo e dobbiamo insegnare agli uomini come smettere i loro abiti, come smettere di nascere uomini per diventarlo, finalmente.

mercoledì 14 novembre 2018

Sacra bestemmia

Luciano - «Tenebrosi pensieri, mani pronte, succhi efficaci, ora propizia, stagione seconda, e nessuno per vederlo. Tu, negra mistura, spremuta a mezzanotte o da erbe selvatiche, tre volte maledette da Ecate, tre volte infette; tu, magica pozione, somministrata dalla natura, che tanta terribile forza possiedi, spegni immediatamente questa florida vita.» (Versa il veleno in un orecchio dell’addormentato)
Amleto - Ei lo avvelena nel giardino per carpirgli il dominio. Ha nome Gonzago; la storia esiste ancora scritta in buon italiano. Vedrete fra poco come l’uccisore si acquista l’amore della moglie di Gonzago.
Ofelia - Il re si alza.
Amleto - Che! atterrito da un fuoco falso!
Regina - Che avete, signore?
Polonio - Sospendete la rappresentazione.
Re - Fate lume... andiamo!
Tutti - Lumi! lumi! lumi! (Tutti escono, fuori di Amleto e di Orazio.)
William Shakespeare - Amleto - Atto III - Scena II - Traduzione di Carlo Rusconi (1901)

Infiorata a Spello, i gigli a Nola, Madonna della Bruna a Matera. Questi tre eventi hanno una cosa in comune, al termine della festa le grandiose opere realizzate con ossessiva cura vengono distrutte, a volte selvaggiamente depredate dalla furia della gente che si scaglia sull'opera. Ho assistito all'infiorata di Spello e ne scrissi tempo fa ma c'era qualcosa che mi sfuggiva. Nelle manifestazioni sacre e devozionali in cui si distrugge l'opera che si edifica con certosina dedizione c'è qualcosa della rabbia popolare che mette in scena quanto accade all'opera-vita di ciascuno. Per anni si costruisce con cura e fatica una vita perché venga oltraggiata da sofferenza e morte. Nel momento della distruzione dell'opera, in quell'esatto momento, si mostra a Dio cosa accade alle nostre vite al termine di quello che a occhi disattenti può sembrare una festa. In quel momento si mostra a Dio di cosa è capace la sua onnipotenza.

Secondo altri filoni interpretativi queste manifestazioni evocano la distruzione che propizia la rinascita, oppure catalizzano la violenza della collettività sull'oggetto feticcio. Reminiscenze di riti sacrificali antichi, quando si offriva al Dio una vita per saziare la sua fame e risparmiare altre vite. Un agnello sgozzato, un montone bruciato. Una vita per risparmiare vite. Riti crudeli? Sì, certo. Riti che rispecchiano la crudeltà del Dio che si vuole placare. Poi in offerta si dà l'opera, l'impegno per realizzare un simulacro di vita ma queste letture non bastano, non sono sufficienti. Ci sono altre letture possibili, sottese, coesistenti.

La mia lettura pone Dio nel ruolo del Re di Shakespeare nell'Amleto. Come può Dio reggere la rappresentazione di quello scempio? E' una messa in scena, come quella che Amleto concepisce per rivelare il crimine dello zio. Il re non regge la rappresentazione, fugge via. E' questa la forza drammatica della tragedia barocca, mette in scena una bestemmia con i paramenti della preghiera.

lunedì 12 novembre 2018

Cerco parole

Cerco parole, come il minatore pepite, l'archeologo segni di civiltà sepolte, parole calde e antiche, parole che hanno un volto, parole da assaporare pronunciandole quando chiedo indicazioni per la strada che ho perduto, parole mendico come un barbone all'ingresso di una chiesa dove la gente viene a fare spesa di salvezza, parole per comprare illusioni scontate, cerco parole usate, parole dimenticate nelle cantine umide, parole che si trovano solo quando dobbiamo traslocare, dopo aver sollevato pacchi pesanti colmi di niente, parole perdute da anni nelle pieghe dei vestiti, tra i solchi delle mani, tra le pagine dei libri a ingiallire vecchie foto, cerco parole che impetrano, rovesciano clessidre e accendono candele, parole da piegare nelle valigie leggere da portare nei lunghi viaggi, parole che scaldano le mani e impastano l'anima come impasto del pane, parole che danno forma al buio, a volte pesanti come piombo, a volte leggere come bolle di sapone, cerco parole colata di ferro fuso per il calco di una voce che di notte cantava canzoni napoletane per cullare il tempo. Che fai Rosalba, canti? Eh sì, sennò questo tempo non passa mai...

sabato 10 novembre 2018

Vorrei essere queste nuvole

Vorrei essere queste nuvole, guardare la città invecchiare con le sue case antiche e quelle nuove, le strade che nascono come rughe e la gente che si muove, chi nasce, chi muore, chi si giura amore per sempre facendo sorridere il sole, chi non vede la rovina che lontano si prepara. Vorrei essere nuvola che il sole dirada e non sapere che dopotutto non sono altro.

venerdì 9 novembre 2018

La casa

La casa giaceva come giace la carcassa di un animale in decomposizione, con le costole scoperte e i pochi lacerti di carne ai fianchi che attendono il lento lavoro del sole e del vento con la rassegnata pazienza che è dei morti.

giovedì 8 novembre 2018

La luce dorata del tramonto

La luce dorata del tramonto entrava nella stanza disabitata da anni, confidando nella serena stanchezza del giorno per conquistare la complicità degli scuri provati dalle intemperie che le numerose stagioni avevano inciso sul legno. I segreti un tempo custoditi dalle stanze non valevano più la resistenza delle finestre che lasciavano ormai passare i raggi del sole come una città inespugnata da secoli lascia infine passare un esercito invasore che dopo ripetuti assalti ha fiaccato le difese di abitazioni esauste di vita e di tesori da razziare.

mercoledì 7 novembre 2018

Ci fu un tempo


Ci fu un tempo che qui si coltivavano pietre, tutte le stagioni c'era un buon raccolto da donare alle nuove generazioni. Le pietre crescevano in robuste architravi e spessi muri, reggevano varchi e tetti di ripari e case contadine. Ogni pietra era posata con la dedizione del rito, perché una pietra messa male poteva guastare il tempo, incrinare l'equilibrio. Ci fu un tempo che qui si coltivava tempo.



lunedì 5 novembre 2018

Qui, tra viti stanche

Qui, tra viti stanche e ulivi morenti,
le ombre sono solidi corpi di terra e pane,
noi, scolari disattenti, impariamo a passare
dall'altra parte della notte,
il cuore alleniamo e le braccia
a reggere assenza pesante
e cielo di pietra.
Di tanta vita da non contenerla
resta il silenzio tra i rintocchi di una amata pendola
che oscilla come si va da una stanza all'altra
a cercare chi è sempre altrove.

domenica 4 novembre 2018

Mi era rimasto niente tra le mani

Mi era rimasto niente tra le mani ed era ancora tutto. Quando il tramonto rosseggiava e l'eco dell'ultimo canto notturno non era spento la voce ci faceva compagnia nel deserto di attesa. Il vento soffiava sabbia negli occhi e giorni ruvidi di carta vetrata. Ci preparavamo per indossare la nuova pelle, tu  coprivi ferite e lividi, io imparavo l'arte di saperti altrove. Il mondo continua a girare, le stelle brillano ancora a oscena distanza, fermenta il vino nelle botti, l'acqua delle cascate bagna sempre il tuo sogno segreto... non farti rapire questa notte, ricorda di venire a trovarmi.

sabato 3 novembre 2018

La cattura del gatto [Note (80)]

“Qui, in questo supremo pericolo della volontà, si avvicina, come maga che salva e risana, l’arte; soltanto essa può piegare quei pensieri nauseati per l’orrore o l’assurdità dell’esistenza in rappresentazioni con cui si possa vivere: queste sono il sublime, come addomesticamento artistico dell’orrore, e il comico come sfogo artistico del disgusto per l’assurdo. Il coro dei Satiri del ditirambo è l’azione salvatrice dell’arte greca; quelle esaltazioni poc’anzi descritte si esaurirono nel mondo intermedio di questi compagni di Dioniso.” (La nascita della tragedia, F.W. Nietzsche, §sez. 7).
Il sublime e il comico come rappresentazioni speculari eppure distinte dello stesso orrore, l’uomo greco non può farne a meno per fare fronte all’assenza di senso che pure non può restare tale a lungo, così il coro traccia uno spazio virtuale e temporaneo dove delimita i confini del senso. Il senso è l’ancoraggio, temporaneo e irrinunciabile, per non essere travolti dall’assurdo. Ma il senso ha sempre almeno due facce che si specchiano l’una nell’altra, destino contro volontà, leggi della tradizione contro leggi del divenire. Fuori dal coro lo stupore atterrito della maschera si specchia nello stupore meravigliato del filosofo. La tragedia greca, come la politica di Platone nasce dall’abbandono degli dèi e dalla necessità di riempire il vuoto che hanno lasciato. Se mai si è avuta questa consapevolezza era ovvio immaginare questo momento come la nascita dello spirito tragico, uno spirito inorridito di fronte all’insoluto e all’insolubile che tuttavia sfida quell’insolubile facendolo specchiare nell’immagine della sua rappresentazione, contando nella pietrificazione che assicurò a Perseo la salvezza dalla Gorgone.

Oggi siamo di fronte ad una colossale sfida per l’estetica. La sfida potrebbe per certi versi presentarsi come un torpore dei sensi, una sorta di anestesia ma in realtà si stanno riscrivendo i parametri dell’estetica, si sta fondando una nuova estetica. Il sublime e il comico hanno smesso di specchiarsi l’uno nell’altro riconoscendosi quali rappresentazioni distinte della stessa insensatezza. Questo discorso eternamente inconcludente è stato soppiantato dal progressivo incontro della realtà con il patetico e il ridicolo che non si pongono più come rappresentazioni distinte bensì come identificazioni della stessa realtà. Allora non si pone più confine tra la realtà e le sue rappresentazioni, né alcuna linea immaginaria permette di distinguere il patetico dal ridicolo.

venerdì 2 novembre 2018

La cattura del gatto [Note (79)]

“Il Dio, cui i visnuiti e i sivaiti si rivolgono con amante dedizione, non è neppure un giudice. Questa è forse la differenza più macroscopica rispetto al giudaismo, al cristianesimo e all’islamismo. […] Nell’ottica della teologia monistica un giudizio sarebbe assurdo; se infatti l’uomo è parte dell’assoluto, quindi parte di Dio, e se, in secondo luogo, il mondo è un gioco di Dio e, inoltre, Dio è onnipotente, allora un tale giudizio non potrebbe che risolversi in un’autocondanna di Dio, sarebbe come se egli cercasse di scaricare i propri errori su un capro espiatorio.”[1]
Nello spazio tra Dio e mondo si è insinuata, fin dalle origini del pensiero occidentale, l’aporia che non poteva essere risolta e che ha dato inizio alla secolarizzazione. Già Platone nel Politico non poteva che prendere atto della scissione operata e riconoscere che la politica è necessaria agli uomini perché abbandonati dagli dèi. E tuttavia credo che nella necessaria assunzione di responsabilità dell’uomo, che ritroviamo nella successiva tradizione religiosa di matrice paolina, si celi un principio di libertà che non poteva esprimersi se non separando Dio e mondo, dando origine così a quell’aporia creativa che conteneva in sé il seme della modernità.
La tradizione religiosa occidentale di matrice giudaico-cristiana, ha affrontato l’aporia che il monismo induista non conosce, l’ha affrontata e, come è ovvio, non l’ha risolta, ma da questa lotta è nata la società secolarizzata. Nella tradizione islamica la lotta non è stata così radicale perché il contesto giuridico non è mai stato autonomo da quello religioso.
Prendo in prestito i pensieri di un costituzionalista cattolico come Ernst-Wolfgang Böckenförde, “lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso non può garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà”[2]. In nome della libertà si è rinunciato alla fondabilità esterna al contesto in cui si applica. Una libertà autentica non poteva né doveva accettare fondamenti che non fossero interni al discorso della fondabilità, e quindi sempre suscettibile di rivisitazione. Forse il motivo per cui la scienza nasce in occidente è da cercare anche nel coraggio di non evitare le aporie. L’aporia originaria dell’occidente si insinuava tra la volontà di mantenere la libertà dell’uomo e l’onnipotenza divina, questa possibilità diventava sempre meno sostenibile in un tempo che non era più ciclico, in una vita che non dava più possibilità di reincarnazione.
In quello spazio nasce il nichilismo che Nietzsche ha svelato e Heidegger ha riconosciuto fin dalle origini del pensiero occidentale, quando dalla visione monistica parmenidea ebbe luogo la grande scissione tra Dio e mondo[3]. Un nichilismo che è solo banale negazione dei valori per i pensatori della domenica mattina e vincolo di responsabilità per i pensatori[4].

[1] H. von Stietencron, Mondo e divinità: concezioni degli indù. In: Hans Küng, Josef van Ess, Heinrich von Stietencron, Heinz Bechert, Cristianesimo e religioni universali. Introduzione al dialogo con islamismo, induismo e buddhismo. Mondadori, 1986, p. 235.
[2] Cit. in G. Zagrebelsky, Contro l’etica della verità. Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 10-11.
[3] U. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente….
[4] G. Vattimo, Oltre l’interpretazione….

giovedì 1 novembre 2018

La cattura del gatto [Note (78)]

Vladimir Luxuria vince l’isola dei famosi, qualcuno grida allo scandalo, qualcuno proclama il trionfo sui pregiudizi. Dell’una e dell’altra posizione la cosa imbarazzante e vera è che i mutamenti della nostra ‘modernità’, siano essi conquiste o degenerazioni, passano anche attraverso un reality show. La mia pessimistica perplessità è se ormai passino solo attraverso un reality show.

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Il problema di tutte le ipostasi di Dio, la Natura, la Ragione, la Storia, il Destino, lo stesso Dio, ce lo ha insegnato Karl Popper a proposito del metodo scientifico. Non è la loro dimostrabilità o la loro verificabilità, giacché ognuna di esse può essere dimostrata vera in una qualunque circostanza dato un lasso temporale sufficiente, ma è proprio la loro sottrazione alla falsificazione. Questo non è qualcosa di speculare alla verificabilità, come potrebbe sembrare a una lettura superficiale ma è qualcosa di completamente differente poiché la verificabilità, la non verificabilità e la falsificabilità di una qualunque visione della realtà sono comunque categorie che si sottopongono al confronto, al dialogo, mentre la non falsificabilità vi si sottrae. Data la nostra capacità di percepire e conoscere rilevando i contrasti spaziali e temporali di ciò che osserviamo, il problema, anche di ordine epistemologico, delle spiegazioni non falsificabili è gettare un manto di omogeneità sull’epistéme che impedisce ogni forma di autentico movimento della conoscenza, che di fatto non si muove dalle stesse premesse che hanno dato origine a una spiegazione non falsificabile.

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Oggi, attraverso un banale apparecchio televisivo, un computer o un telefonino, ognuno può vivere esperienze che un tempo erano inimmaginabili, può raggiungere luoghi un tempo lontanissimi. La vita perde la sua corporalità e valica i confini dimensionali della nostra psiche, ci rende virtualmente ubiquitari moltiplicando la nostra presenza. Le esperienze si moltiplicano e scorrono troppo veloci perché qualcosa lasci traccia nei nostri vecchi apparati emotivi. Le tragedie sono solo elettroni che proiettano immagini su uno schermo, nessun autentico dolore è più possibile, l’unica pena del contrappasso permesso resta qualche attacco d’ansia e passeggere sindromi di panico. Il vero dolore distrarrebbe dalla pubblicità che avvolge ogni evento!

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Arnold Gehlen sosteneva che l’uomo è un animale culturale, in altre parole l’uomo non può sottrarsi al vivere il contesto naturale attraverso il filtro della sua stessa cultura. La natura dell’uomo è la sua cultura e la natura per l’uomo è un fatto culturale. Tuttavia appare evidente che ciò, più che un dato di fatto, costituisca lo sforzo dell’uomo, ossia far rimanere la natura un fatto culturale (e la cultura un fatto naturale) e non diventi invece qualcosa che sta al di là della cultura. La cultura trascende i limiti naturali, su questo possiamo essere d’accordo, ma in essi si inscrive e in essi trova i suoi vincoli. Trascendere non è travalicare ma è lanciare lo sguardo oltre i confini del dato senza perderne memoria.

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E’ facile osservare come nei bambini e negli adolescenti sorga la necessità di possedere oggetti perché non soffrano complessi di inferiorità nei confronti dei loro coetanei. In effetti si tratta spesso di un desiderio che si innesca per imitazione. Hegel ci ha insegnato quale sia il valore del possesso al fine del riconoscimento sociale, ma se il bambino ricorre agli oggetti, l’adulto una volta individuatosi si presume sappia ricorrere soprattutto a beni non alienabili.
La società attuale è composta prevalentemente da bambini che non diventano adulti. La crescita economica ha visto tra i suoi “effetti collaterali” il degrado ambientale e relazionale “compensati” dalla disponibilità materiale. Sono in molti a sostenere o a sperare che le crisi economiche siano un fattore determinante per il cambiamento nei nostri stili di vita, le speranze si reggono sull’assunto che la compensazione non funziona più. Da parte mia ho il sospetto che la compensazione funziona ancora e che il massimo che possa accadere è un pianto corale che durerà poco. Il tempo di superare la crisi, come ogni altro animale non sapiens!

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Consumate gente! In tempi di crisi, determinata in fin dei conti dal consumo senza bisogno e senza regole, il consumo ci salverà. Se non basta la liquidità c’è sempre il credito, lo stesso che, una volta rovesciato nella sua immagine speculare, ha determinato la crisi. Qualcuno potrebbe essere perplesso, ma si tratta di banale omeopatia economica! Come facciamo a non capirla?
Eppure c’è qualcosa di assurdamente oggettivo nell’esortazione al consumo, un’oggettività generata ad hoc proprio per non svelare la sua assurdità. Una sorta di verità sociale che abbiamo contribuito, volente o nolente a costruire. Se non consumiamo, leggi «compriamo più di quanto ci serve perché una parte sia “funzionalmente” gettata via», le aziende non producono per cui non avranno bisogno dei lavoratori, che saranno licenziati o messi in cassa integrazione. In questo modo i lavoratori diventano strumenti in mano di pochi che per continuare a guadagnare grandi somme dandone via briciole, generano un contesto di verità in cui i lavoratori non possono fare altro che desiderare il consumo che li consuma.
Questa, in sintesi, è l’oggettività del consumo che risolve i problemi del consumo!

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“Che Carlo Martello fermasse a Tours e Poiters un distaccamento arabo viene registrato con soddisfazione soltanto nei testi scolastici europei; nelle fonti arabe non si dice nulla al riguardo, si era perduta da tempo la visione d’insieme. Anche le crociate furono per i musulmani avvenimenti locali in una regione che anche senza di esse era dilaniata dalle guerre dei piccoli principi; per lungo tempo non si conobbe un’atmosfera da guerra di religione ed esse diventarono un simbolo solo quando nel nostro secolo gli arabi scoprirono i paralleli con il colonialismo europeo e con la politica israeliana di espansione.”
Senza ombra di dubbio lo Spirito della Storia sceglie i posti e i tempi dove manifestarsi, basta aspettare, mettere in moto qualche pensatore occidentale e un’accozzaglia di eventi vengono cuciti dal filo della Ragione!

mercoledì 31 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (77)]

Le teorie sistemiche operano una semplificazione della complessità della realtà, maliziosamente si potrebbe pensare addirittura ad una banalizzazione, ma resta l’utilità cognitiva di certe operazioni di schematizzazione, a patto di non dimenticare la fonte dei nostri schemi, la sua meravigliosa e sconcertante variabilità e mutevolezza. La complessità non nasconde il meccanismo, lo costituisce. Dio e il Diavolo giocano a rimpiattino tra i dettagli!

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La critica alla tradizione socialdemocratica, intorno all’esclusività del lavoro e alla disattenzione per le altre sfere sociali, è fondata perché il nocciolo del lavoro è stato lasciato senza la polpa delle relazioni sociali, senza quello che fa del lavoro un momento di aggregazione e di riconoscimento sociale. Il lavoro è stato difeso ma come mezzo di partecipazione alle spese e ai consumi, non come attività di costruzione della comunità civile. Proprio per questo però la critica è, allo stesso tempo infondata, perché l’impoverimento del lavoro perseguito in maniera sistematica a partire dagli anni ottanta anche a sinistra, l’abbandono delle istanze morali che questo comporta da parte di una socialdemocrazia compiacente ai meccanismi economici, in una sorta di euforia planetaria, ha posto al centro del controbilanciamento al capitalismo qualcosa che continua a chiamarsi lavoro ma che è molto simile a una merce particolare solo perché consente di acquistare altre merci.

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Non ricordo chi, forse Popper, forse Bobbio, affermava che la democrazia è un metodo per sostituire i governanti senza spargimento di sangue. Procedendo per analogie, il discorso scientifico, anch’esso possibile solo democraticamente, costituisce una sorta di sublimazione della violenza sostituendo all’eliminazione degli uomini l’eliminazione delle idee (K. Lorenz, nel contesto evolutivo la nascita del pensiero è la sostituzione delle ipotesi all’esperienza concreta, perisce l’ipotesi, non il soggetto). A molti appariranno lontani i tempi in cui le cose del mondo avevano una certa consistenza!

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Esempio di inappellabile razionalità in un sistema folle: convocazione alle assemblee condominiali. Prima convocazione in orario improponibile per ogni essere razionale, ad esempio le 5 del mattino, possibilmente di domenica, seconda convocazione in orario post lavorativo di un giorno feriale. La ragione di tutto ciò è perfettamente coerente e ligia alla normativa, solo in seconda convocazione l’assemblea può avere luogo senza la maggioranza dei condomini, quasi sempre impossibile da raggiungere. Bene, ma non sarebbe più consono a esseri autenticamente razionali, e magari anche rispettosi della propria intelligenza, formulare, produrre e condividere una norma che dicesse che si dà una sola convocazione, con largo anticipo, chi c’è c’è?

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Dio, così come è stato concepito nella tradizione cattolica, non può avere natura etica, ha l’eternità a disposizione e la storia che rivolge gli eventi vestendoli degli abiti bisunti della ragione e dello scopo. L’uomo, inteso come individuo, ha un tempo limitato e nella sua biografia ha a disposizione un numero limitato di scelte, se non sono buone scelte non sempre ha modo di riparare!
Preferisco l’uomo, nella sua debolezza, nella sua imperfezione, nella sua costante tensione e incertezza al Dio eterno e perfetto della tradizione cattolica.

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Un insospettabile campione del postmodernismo, o della sua caricatura, è proprio Benedetto XVI. Suo malgrado e nonostante l’impegno del suo pontificato. Del resto, cos’altro ci si potrebbe aspettare se una figura autorevole per antonomasia viene puntualmente smentita il giorno dopo una grande dichiarazione? Non per mancanza di rispetto da parte dei suoi detrattori ma per mancanza di fondamento delle sue affermazioni! Per smontare le tesi di Marx ci sono voluti quasi duecento anni, quelle di Platone e Agostino, di Aristotele e Tommaso scricchiolano ma durano ancora, Hegel ha stabilito regole immortali, ai limiti della tautologia! Qualcuno ha detto di Cartesio che la filosofia dopo di lui e fino ai nostri giorni, è stato un immenso lavoro per capire i suoi errori.
Oggi bastano due giorni o meno per accorgersi dei vizi di pensiero di un grande intellettuale! Il relativismo, quello caricaturale, l’unico di cui ci si dovrebbe lamentare, è il prodotto più subdolo che Benedetto XVI ci sta regalando!

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La gigantesca crisi finanziaria del 2007-2008 era tutt’altro che imprevista. Cosa ci si aspettava da un mercato che dagli anni ottanta ha deciso di liberarsi da ogni vincolo di etica pubblica e che da sempre si dice libero dall’etica ambientale? La rete di relazioni che ci lega non permette in alcun modo di prescindere dalla dimensione pubblica dell’economia, sia pure senza pensare alle soluzioni devastanti di inizio secolo scorso. La finitezza delle risorse naturali non consente in alcun modo di concepire un sistema di crescita continua e inarrestabile. L’uomo, si sa, si distingue dall’animale perché in grado di trascendere, forse in seguito ai facili rovesciamenti semantici si sta distinguendo perché in grado di trasalire.
“La misura, se non ce l’hai verrà da sola”, “risparmia quando la madia è piena, perché quando vedi il fondo non c’è più nulla da risparmiare”. Un contadino semianalfabeta dello scorso millennio che ancora porto dentro sapeva molto di più di molti economisti di oggi. Cultura contadina, si dirà, roba d’altri tempi, certo. La cultura contadina è sparita, come molte altre sottoculture per azioni esterne ad essa. Da dove verranno le azioni che faranno sparire la cultura di oggi?

La crisi poteva essere un’occasione per rivedere qualcuno dei paradigmi dominanti della nostra società, primo tra tutti quello del consumo. Invece l’unica strada per superarla è incentivare i consumi. Se questo poteva andare bene per Roosevelt, ho qualche perplessità sulla sua efficacia oggi, dopo la consapevolezza del depauperamento delle risorse naturali, dopo la consapevolezza dei limiti dello sviluppo (traduzione impropria del famoso rapporto del MIT del 1972).

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Guerre di religione, non sono convinto che la causa profonda degli scontri tra i popoli sia da ricondurre al desiderio del divino, sublimazione del limite esistenziale. Fosse così varrebbe l’eliminazione della religione per risolvere i conflitti ed emancipare l’uomo ma così non è stato, questo è stato l’errore dei grandi pensatori dell’800 e inizio 900 Feuerbach, Marx, Nietzsche, Freud.
Indubbiamente ogni proiezione idealistica, e la religione non si sottrae a questa definizione, si presta ad assolutizzazioni pericolose. C’è un nocciolo più elementare che muove l’uomo alla guerra, qualcosa di più antico, di più facile.

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Categoria filosofica del razionale, da 400 anni se ne parla ma da milioni di anni il nostro cervello se ne infischia e va avanti con la modesta categoria del ragionevole. Ci sono buone probabilità che continui ancora a farlo in barba ai nostri discorsi e alle ‘idee chiare e distinte’.

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Che la fatica sia essenziale per il piacere non è un retaggio della cultura cattolica, semmai potremmo leggere questa come una degenerazione vittimistica di qualcosa di molto più originario. La fatica trasferisce qualcosa di noi nell’oggetto desiderato, nell’opera compiuta, è questo fecondare di noi qualcosa d’altro da noi che rende la fatica essenziale al piacere. La fatica ci dà il senso del tempo impiegato a trasferirci altrove, a essere altro. L’uomo, come ogni essere vivente, è creatura che vive nel tempo e di tempo. L’azzeramento del tempo nel compimento delle opere umane sembra una conquista ma il rovescio della medaglia è spogliarlo del piacere di godere del tempo impiegato a trasferire qualcosa di sé altrove.

martedì 30 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (76)]

Per poter parlare di un senso del dovere morale ci devono essere almeno due forze tra loro in tensione: una coscienza del dovere morale e un sano senso del desiderio e interesse personale. Per Kant la tensione tra queste forze è temporanea e alla lunga il dovere morale e la felicità personale devono conciliarsi. Il “bene supremo” e il dovere morale supremo è creare un mondo in cui la felicità derivi dall’esecuzione del dovere morale. Quindi per agire moralmente si deve fare proprio il principio morale, decidere di seguire un principio morale esercitando quell’autonomia di cui ci ha parlato Kant.
Se l’obiettivo è che il principio morale e l’interesse personale coincidano allora il raggiungimento dell’obiettivo vanificherebbe la scelta consapevole del principio morale, poiché non vi sarebbe più alcuna tensione tra dovere morale e interesse personale, presupposto della morale kantiana. Che il legno storto non potesse essere raddrizzato era cosa nota a Kant, forse il regno metafisico della morale era la necessaria, e utile, risposta che il filosofo doveva dare all’aporia che il suo sistema morale aveva aperto nel regno fisico.

lunedì 29 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (75)]

Che l’uomo sia animale sociale si dà per scontato, tuttavia che questa socialità sia una strategia evolutiva relativamente recente non si considera con altrettanta sicurezza. Eppure questo è un dato assodato, soprattutto non è assolutamente scontato che la socialità, così come è apparsa e si è sviluppata nelle comunità umane, ovvero in un contesto tribale relativamente poco numeroso, possa reggere alla necessità di estendere i nostri sentimenti morali a livello globale. La funzione sociale dei dispositivi etici è evidente e secondo il neurobiologo Antonio Damasio le condizioni di conflitto nelle modalità di organizzazione sociale potrebbero rivelare che tali dispositivi “sono ancora nella fase di messa a punto”[1]. Non c'è alcuna garanzia che questi dispositivi continuino ad assicurare la convivenza pacifica. Chi aveva pensato all'equa distribuzione di risorse per assicurare pace e giustizia sociale aveva toccato un punto essenziale della faccenda ma poi la Storia ha avuto fretta di smentire quei pensatori.
In condizioni di scarsità di risorse e di sovraffollamento ci si scanna per accedere a quelle risorse prima di altri, pare brutto dirlo ma questo è un principio ecologico da cui gli esseri umani non sono esonerati. La specificità umana è aver realizzato un modello sociale in cui pochi soggetti possiedono molto determinando così la scarsità di risorse per molti soggetti che si scannano tra loro per assicurarsi e poche risorse disponibili. Nella baruffa della lotta svanisce il fatto che le risorse non scarseggiano affatto, sono solo allocate in maniera assurda e indecente. Una specie davvero sapiens, non c'è che dire!

[1] A. Damasio, Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello. Adelphi, 2003, p. 205

domenica 28 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (74)]

Misere creature che nella naturale ricerca del piacere sono costrette a fronteggiare le avversità della vita. Di fronte all’insensatezza del dolore non possono fare altro che cercare una spiegazione, un motivo che ne colmi il vuoto. In origine erano Dèi malvagi e invidiosi dell’umanità a minacciarne la felicità. A loro si offrivano sacrifici e preghiere. Il dolore era scambiabile con quello di altri soggetti, umani o animali, poi il dolore non poté più essere merce di scambio e chi ne era toccato non poté che offrirlo in dono a un solo Dio. Fu così che la tradizione giudaico cristiana, riconobbe la completa responsabilità dell’individuo e abolì i sacrifici, creò un Dio buono che predilige chi soffre facendone uno psicopatico con tendenze al sadismo, esattamente come le sue creature.

sabato 27 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (73)]

Nel Panopticon di Bentham, potente metafora architettonica poi ripresa da Foucault[1], si configurava la modalità di esercizio del potere centralizzato che tutto vede senza essere visto. Bauman è convinto che tale metafora non colga più le modalità di esplicazione del potere. Oggi saremmo “passati da una società di stile panottico a una di stile sinottico: la situazione si è rovesciata e ora sono i molti a controllare i pochi.”[2] Concetto che lascia molte perplessità. Davvero i molti controllano? Si può effettivamente parlare di controllo? Se è vero che il potere centrale è roba d’altri secoli ed è soppiantato da modelli di subordinazione diffusa, resta da capire se nella nostra situazione, in cui manca ogni cenno di potere disciplinativo, come possiamo ancora parlare di potere? Non sarà forse più idoneo parlare di una rete in cui si praticano una serie di operazioni concatenate in maniera meccanica e automatica? Ad una azione segue una reazione che scatena un’altra reazione e così via, in un flusso in cui si perde l'inizio, e probabilmente non più guidato da alcuna ragione cosciente che non sia il mero soddisfacimento di un bisogno facile e immediato che distrae da quanto abbiamo sostenuto caratterizzasse la specie umana. Se questo è vero non è più consentito parlare di potere e le differenze sociali sarebbero solo accidenti dovuti alla contingenza.

[1] M. Foucault, La società disciplinare. In: Antologia, Feltrinelli, 2006, p. 86.
[1] Z. Bauman, Modernità liquida. Laterza, 2002, p. 92

venerdì 26 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (72)]

Non possiamo prescindere dal relazionarci con altri, salvo incorrere nelle degenerazioni non a tutti evidenti di una “società individualista”, ossimoro mostruoso che bene descrive gli aggregati umani dei paesi sviluppati occidentali del XXI secolo. Ad ogni modo resta un fondo tipicamente umano, una reminiscenza della nostra insufficienza anatomica che sfocia nella necessità di fare affidamento sugli altri. Si tratta di una sorta di tendenza innata che, opportunamente concettualizzata, diventa desiderio.
In un sistema religioso il desiderio trova origine e compimento nell’autorità divina, passando attraverso il servizio pastorale. Qui trova espressione la volontà di condividere l’esperienza dell’altro perché questi non ne sopporti il carico da solo, desiderio lodevole, ma che difficilmente si sottrae alla tentazione di non ascoltare il desiderio dell’altro e di preferire all’altro le regole che questi dovrebbe rispettare perché, alla fine dei conti, in queste si estingue il desiderio originario. In un sistema laico il desiderio origina e muore nella collettività di individui che riconoscono di condividere lo stesso destino. Qui non ci sono regole imposte da autorità esterne alla collettività ma l’altro resta il soggetto in cui si compie la necessità di costituire un sistema e il suo scopo.
Per entrambi i sistemi assume un ruolo cardine la responsabilità, il dover rispondere a Dio o alla collettività delle proprie azioni nei confronti dell’altro. Per entrambi i sistemi la pietra dello scandalo è sempre e solo l’altro, per entrambi il fallimento è in prossimità dello scopo.

giovedì 25 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (71)]

Incontro l’altro, mi affaccio dagli argini della sua figura e sporgendo nel vuoto mi interrogo come attraversare la sua distanza. Per stare di fronte all’abisso che ognuno è a sé stesso e agli altri ci vuole coraggio, autentico coraggio. La vertigine può essere fatale e non tutti sono pronti per esserne investiti. Colmiamo l’abisso con montagne di carta straccia per attraversarlo con facilità, troppa facilità. Cumuli di documenti di identità, di certificati, verbali e titoli di studio, dati tanto incontestabili quanto inutili parlano di noi, ci bastano, ce li facciamo bastare per attraversare l’abisso. L’incontestabile vero, “oh, infinita vanità del vero”, sospirava il poeta triste. Quale futile inganno potrebbe portarci più lontano dall’immenso racchiuso in ogni anima? Non erano queste le illusioni che davano senso persino al vivere di Leopardi. Le illusioni del poeta guardavano l’infinito. Le illusioni cui oggi ci affidiamo scontano la loro banalità ammantandosi di verità oggettiva.

mercoledì 24 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (70)]

Uno studio condotto seguendo il tracciato dei cellulari, ha stabilito che la gran parte delle persone ha comportamenti estremamente abitudinari, ai limiti dell’automatismo. Tutti i giorni fanno la stessa strada, dicono grosso modo le stesse cose, e, immancabilmente soffrono della propria routine.
Erich Fromm, parlando di una società costituita da schizofrenici “a basso voltaggio”, affermava “Quando i processi patologici assumono uno schema sociale, perdono il loro carattere individuale […] l’individuo medio non percepisce l’isolamento e la separazione che affliggono lo schizofrenico totale. Anzi, egli si sente a suo agio fra coloro che soffrono della stessa deformazione; invece è la persona completamente sana a sentirsi isolata nella società pazza, e l’incapacità di comunicare può instillarle sofferenze tali da renderla psicotica.”[1]
Se l’automatismo umano è di diversa natura rispetto all’automatismo animale lo si deve cercare nella sofferenza per una natura cui aspira ma che non possiede. Riguardo all’onestà intellettuale di tale aspirazione basta considerare come vengono guardati quanti cercano una propria strada non necessariamente uguale a quella degli altri. Ci si ammanta di cultura ma spesso non è altro che imitazione e assuefazione, scatenata forse da una qualità squisitamente umana, ma non per questo encomiabile, quale è la suggestione.
Se di tanto in tanto qualcuno basta a donare il sigillo dell’unicità all’intera specie umana, allora è proprio vero che chi si accontenta gode.

[1] E. Fromm, Anatomia della distruttività umana. Mondadori, 1975, p. 444

martedì 23 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (69)]

“Come l’annuncio cristiano, il socialismo – quello che resta o merita di restare di esso – è un radicale antinaturalismo: solo in quanto antinaturalismo si può intendere la profezia-speranza marxista della rivolta dei deboli-proletari contro i padroni-forti.”[1] Gianni Vattimo presenta il socialismo come l’antinaturale opposizione ai programmi politici di destra e alla loro “volontà di riportarsi alle differenze «naturali» come motori dell’emancipazione.”[2] Il ricorso alla natura, bisogna ammetterlo, rappresenta un elemento argomentativo dall’indubbio fascino. Il tentativo di trovare sostegno in essa costituisce una sorta di prova che renderebbe inconfutabili le asserzioni di chi vi fa ricorso, chissà perché poi! Al di là dell’insegnamento di Hume sulla incongruenza logica tra verità di fatto (che ragionevolmente potremmo considerare quelle naturali) e loro validità normativa, rimane tuttavia il dubbio su quanto realmente conosciamo della natura, o quanto di essa privilegiamo e tratteniamo nella nostra visione dei fatti!
Non mi è difficile essere d’accordo con Vattimo riguardo all’antinaturalismo del cristianesimo e del socialismo, tuttavia è necessario notare come in tale argomentazione assuma un ruolo rilevante una visione semplicistica della natura, più o meno a torto attribuita a Darwin, ossia la natura come teatro di lotta dove il più forte vince sul più debole. Indubbiamente le metafore del grande naturalista inglese hanno aiutato questa visione ma chissà come mai puntualmente ci sfugge che in natura, oltre alla onnipresente competizione vi sono altrettanti esempi di mutualismo che non sfuggirono a Darwin.
Non sarà che della natura vediamo solo ciò che ci appartiene, ci ha forgiato, ci contiene e che in definitiva siamo? Non sarà che la nostra socialità non è altro, né potrebbe essere altro, che uno strategemma evolutivo dovuto alla scarsità fisica della nostra specie di fronte alle altre specie? Non sarà che noi siamo animali sociali da poco tempo o che le condizioni della socialità sono illusoriamente finite per molti esponenti della nostra specie?
Non si esce dalla natura, la cultura può creare, trasformare e perfino distruggere la natura ma da questa non si esce, i salti ontologici sono buoni per preparare il terreno a discorsi vuoti. Sebbene sia convinzione comune che natura non facit saltus, si possono concepire salti tra differenti stati naturali, senza tuttavia uscirne. Quando l’avremo fatto non lo racconteremo a nessuno.

[1] G. Vattimo, Ecce Comu. Come si ri-diventa ciò che si era. Fazi Editore, 2007, p. 11.
[2] Ibidem

lunedì 22 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (68)]

"Oggi si parla molto di una crisi di fiducia dell’umanità. Di una crisi della fiducia che fino ad oggi avevamo riposto nella natura umana. Potremmo anche dire che si tratta di un panico, che sta per sostituire una vecchia sicurezza. Questa: noi siamo capaci di sbrigare le nostre faccende nella libertà e per mezzo della ragione. Ma non facciamoci illusioni! Questi due concetti etici, anzi etico-estetici, la libertà e la ragione – che l’età classica del cosmopolitismo tedesco ci ha lasciato in eredità come le stimmate della dignità umana – è almeno dalla metà dell’Ottocento, o poco dopo, che non hanno più una bella cera. A poco a poco essi sono andati “fuori corso”. La gente non sa più “che cosa farsene”. Si è lasciato che avvizzissero. Ma questo non fu tanto un successo dei loro avversari, quanto un insuccesso dei loro amici."[1]
Gli amici della libertà e della ragione, mistici di una nuova religione che, nel tentativo di scalzare quelle vecchie, dimenticano i connotati etico-estetici di questi concetti validi solo in un contesto intersoggettivo, che non vivono di vita propria e che non tocca scoprirli in qualche posto nascosto che il tempo rivelerà ma bisogna inventarli giorno per giorno, guardando con un occhio alla loro necessità e con l’altro alla loro infondatezza.

[1] Robert Musil, Sulla stupidità e altri scritti. Sulla Stupidità (1937), Oscar Mondadori, 1986, p. 252-253.

domenica 21 ottobre 2018

Rosa che non teme i serpenti

Rosa che non teme i serpenti
dorme al sole di un'estate ostinata.
Rosa non ha più fretta di svegliarsi
alle prime ore dell'alba.

Svegliati anima mia,
torna a scalciare i sassi,
la noia d'essere immobili
li ucciderebbe, tu li sai vivi,
tu conosci i segreti delle pietre
che tessono i destini
della poca gente che nasce
in quest'isola mancata.
Svegliati anima mia
che fa freddo in questa notte assolata,
torna a rimescolare le sorti che i sassi
fermi agli angoli delle strade
hanno deciso, incuranti.

La cattura del gatto [Note (67)]

Nei frammenti postumi Nietzsche afferma che non esistono fatti ma solo interpretazioni, “noi non possiamo constatare alcun fatto «in sé»” . Non è possibile prescindere dall’elemento valutativo dei fenomeni nel loro accadere, il fatto accade per sé ma ci raggiunge perché c’è una valutazione, il fatto senza valutazione (fatto in sé) non esiste (per noi). Non è il fatto a essere negato ma la constatazione del fatto senza valutazione. Che un grave lasciato a una certa altezza in un sistema gravitazionale cada non si possono avere dubbi, ma non si possono avere dubbi neanche sul fatto che il nostro sistema percettivo deve essere predisposto a una valutazione di alto e basso per poterlo osservare. Da questo a dire che la caduta sia buona o cattiva, la cosa si arricchisce (o si impoverisce) di una valutazione e si complica ulteriormente. In definitiva il fatto (per noi) ha sempre una valenza morale ma il fatto morale è e resta un ossimoro. Il fatto morale è già una valutazione, per cui è chiaro che non si tratta più di un fatto.

sabato 20 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (66)]

Nello Zhuang-zi, uno dei pilastri del pensiero taoista, si legge: “Come ha potuto il Tao oscurarsi al punto che debba essere distinzione tra vero e falso? Come ha potuto la parola offuscarsi al punto che vi debba essere distinzione tra all’affermazione e la negazione?”[1] e poche pagine dopo, “la comparsa di bene e male altera la nozione del Tao.”[2] Il Tao insegna che in origine era l’indistinto, il nulla. Sul piano cosmogonico il taoismo ha le idee decisamente più chiare di molte altre tradizioni religiose, non cade nella trappola del regressum ad infinitum, tuttavia nei suoi insegnamenti etici riecheggia lo stesso monito che risuona fin dalle prime pagine del Genesi (16,17) nell’Antico Testamento: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti.”
Indipendentemente dalla necessità o meno di un intervento esterno, sta di fatto che il nulla indistinto si cristallizza in una qualche forma. Una volta stabilita questa forma incontra le resistenze di un cosmo che a sua volta ha preso forma, non dispone più di tutta la libertà originaria (se di libertà si può parlare) ma è costretta o indotta, secondo i punti di vista, a imboccare alcune direzioni mentre altre sono ormai impossibili o incompatibili con le condizioni al contorno. Queste direzioni possibili per quanto numerose sono limitate, se non per altri motivi almeno perché devono essere compatibili con l’esistenza e permanenza della forma.
Spostandoci dall’ambito cosmologico a quello psicologico, poiché è innegabile che sia il Tao sia la Bibbia siano stati scritti da mani umane per quanto (forse) guidate, l’aspirazione al primordiale indistinto in un caso e il rinnegamento del giudizio manifestano, sebbene da punti di vista diversi, il desiderio della non esistenza, una sorta di “volontà” di non azione nelle faccende terrene per assurgere a una libertà primigenia che è tanto affascinante quanto concettualmente insostenibile.
Sicuramente di fronte all’insensatezza cosmica non si può che prendere atto della intrinseca coerenza del Tao, trattandosi di un indistinto che non agisce ma che da sé diviene, mentre l’indistinto biblico è agito da un dio che giudica del suo operato e “vide che era cosa buona”. Dall’incoerenza giudaico-cristiana non poteva che derivare un occidente schizoide, insofferente alla vita e che, alternandosi tra inazione ed eccesso di azione, si avvicina sempre più a quell’agognato nulla.
L’uomo partecipa, discrimina, trasforma, ha voglia di universalità ma non può rinunciare al ruolo attivo, all’azione, altrimenti è solo polvere indifferente. In effetti nessuna tradizione religiosa, ma neanche scientifica, prende sotto gamba questa situazione, tuttavia si tratta di capire se questa polvere vuole assumersi l’insopportabile peso della scelta, almeno fino a che è presente in forma di carne e sangue, oppure se vuole bearsi di un nulla che a conti fatti non è neanche concepibile.
Parafrasando Sartre e rovesciando il suo celebre detto potremmo scoprire che siamo liberi solo grazie ai nostri vincoli.

[1] Zhuang-zi [Chuang-tzu], Adelphi, 1992, p. 23.
[2] Op. cit., p. 26

venerdì 19 ottobre 2018

Magari...

Magari mi sveglio e tutto torna in ordine... Magari mi addormento e tutto torna in ordine.

Magari… voce antica, reminiscenza bizantina, memoria di radici greche, di mare, di canti contadini, di terra rossa e di promesse di felicità, μακαριος. Magari… evocazione di sortilegi salentini di certa allitterazione, forse comune radice linguistica, la macària delle fattucchiere, figlie dell’abisso che promettono futuro, macare parenti di Ade che ebbe una figlia, Μακαρία, Macaria, dea della buona morte, quel magari ultimo che a volte è negato… Μακαρία è fuggita, qui più nessuno la onora e allora tocca morire come capita.

La cattura del gatto [Note (65)]

In Giappone viene fornito, insieme alle play-station, un kit con vitamine e un collirio per alleviare la stanchezza oculare. Modello del parassita intelligente: si evita di uccidere il proprio ospite per trarne il massimo beneficio per un tempo più lungo possibile.
Si potrebbe leggere il parassitismo come una forma degenerata del mutualismo o, in vena di ottimismo, rovesciare il paradigma e sperare ancora nel futuro?

Quel tale dice il vero, per questo abbiamo cambiato la Verità.

giovedì 18 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (64)]

Possiamo parlare di salti ontologici, capriole metafisiche, piroette teoretiche. Possiamo discettare su tutte le possibili caratteristiche esclusive dell’uomo ma resta una proprietà precipua e forse esclusiva di homo sapiens che è la suggestionabilità. La (supposta) perdita degli istinti ha comportato, tra le altre cose, la variabilità delle reazioni rispetto a moduli geneticamente prefissati. L’uomo è sottoposto a uno spettro di stimoli ben più ampio di qualunque altro animale, sebbene tale spettro sia comunque limitato dalla struttura anatomica e dalla fisiologia che il processo evolutivo ha determinato. Ad ogni modo, seguendo l’insegnamento di Gehlen, tale apertura comporta la selezione di alcuni stimoli le cui risposte da parte della nostra specie concorrono alla definizione di un mondo culturale. Se questa proprietà è condizione principale dello sviluppo culturale umano è altrettanto vero che è condizione del possibile regresso.
Attualmente il più potente strumento di suggestione è dato dal modello del facile successo aperto a tutti con ricchi quiz a premi, partecipazione a programmi televisivi che scoprono un qualche talento, fosse anche saper defecare 5 kg di merda in unica soluzione, informazione in pillole e veline plastificate che assurgono al gotha delle soubrette.
L’apparizione in tv è la massima aspirazione. Beato chi canta, balla, litiga, vince. Lo sfigato lavora. Non ha importanza quale lavoro svolga, lo sfigato è uno che non ha saputo rischiare, uno che non ha vinto, in fin dei conti, l’equazione è facile, si tratta di un perdente! Via di questo passo con la lenta e inesorabile demolizione di ogni criterio di specializzazione, sofferenza del processo di individuazione e abbandono dello sforzo di costruzione di una propria specificità, di una propria sfera di eccellenza. La mediocrità è alla portata di tutti.

mercoledì 17 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (63)]

A-letheia, verità come s-velamento, non nascondimento, ciò che viene alla luce. Fascinoso concetto che non dissimula una visione paranoide del mondo che ci si offre, visione che può farsi risalire a origine remota e intrinseca nella costituzione umana che vive spogliata di quegli istinti che pre-costituiscono il percepito e in questa condizione post-istintuale o a-istintuale la lasciano alla mutevole costituzione di significati di un processo culturale instabile e sempre mutevole. I tentativi di congelamento, di entificazione direbbe Heidegger, non mancano e di volta in volta hanno solo apparentemente mutato forma, fede religiosa, ragione hegeliana, fiducia nella scienza positivista e nel progresso e, possiamo esserne certi, qualcosa in futuro si troverà, fosse anche nichilistica rassegnazione.
Nell’attesa, per non concedere troppo al nichilismo, l’atavica e disperata esigenza di continuità dell’uomo di fronte all’imprevedibilità del tempo che lo minaccia è compensata dalla sostituibilità di prodotti e merci. Feroce destino, si arriva ad avere nostalgia delle vecchie soluzioni!

martedì 16 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (62)]

I rituali religiosi sono sorti in un contesto tribale, come del resto qualsiasi altra forma rituale. Non so se il contesto tribale costituisca una conditio sine qua non per la genesi delle forme rituali e non credo sia importante stabilirlo, il nucleo della faccenda sta nel fatto che storicamente l’uomo si è organizzato prevalentemente in piccole comunità e solo recentemente si hanno grandi centri urbani, sebbene si trovino tracce di questa tendenza in tempi remoti. Ad ogni modo le grandi religioni monoteiste, ebraismo, cristianesimo e islam si sono sviluppate in contesti tribali. In questa osservazione non vi è naturalmente nulla che ne diminuisca il valore, salvo non voler accettare il fenomeno religioso come evento prettamente umano che risponde a esigenze squisitamente umane e consegnarlo a epifanie divine che a questo punto ne diminuirebbero l’interesse di una buona parte di umanità.
L’organizzazione tribale è caratteristica precipua di homo sapiens e non basta certo qualche secolo per cancellare una eredità che viene da milioni di anni di evoluzione dell’uomo e che lo vedono parte di gruppi non molto numerosi, di poche centinaia di individui. Non bisogna essere arguti antropologi o fini sociologi per riconoscere che molte manifestazioni di disagio dell’uomo occidentale possono essere ricondotte a una organizzazione urbana che mette a dura prova le potenzialità e le capacità relazionali dell’uomo con il rischio di originare fobie e malessere in individui sempre più isolati. Le cause del disagio non sono sicuramente esauribili a singoli fattori ma è importante porre attenzione al possibile ruolo che le dimensioni delle comunità umane hanno nelle dinamiche relazionali.
Una realtà tribale, o comunque una piccola comunità, è caratterizzata tra le altre cose da una rete di reciproca conoscenza dalle cui maglie non vi è modo di passare. Questo comporta da una parte una rete di solidarietà che rende il soggetto integrato nella comunità che lo accoglie e dall’altra parte comporta notevoli difficoltà di autonomizzazione dell’individuo che si trova spesso a dover faticosamente separare l’ambito privato da quello pubblico.
Comunque sia, tralasciando le possibili degenerazioni da “imbreeding culturale”, che ci porterebbero lontano dal discorso che qui si vuole affrontare, resta il fatto che un soggetto all’interno di una piccola comunità è conosciuto per nome, si sa di lui chi sono i suoi genitori e chi sono i genitori di questi, insomma è inserito in una catena di discendenza che lo colloca precisamente in un punto dello spazio e del tempo che lo mette al riparo da possibili rischi identitari. Nel mio sud si direbbe che il soggetto si sa a chi appartiene. Il “vantaggio” identitario non è disgiunto dal suo rovescio, ossia dalla latenza, a volte protratta per la vita intera, della domanda “chi sono?”. Magari la domanda viene posta, ma senza la reale volontà di dare una risposta diversa da quella che la comunità ha già assegnato e ciò che la comunità non può sapere. I sentimenti, i sogni, i desideri, le più remote aspirazioni, rimangono seppellite sotto la coltre di una facile certezza.
In realtà tribali sono nate le credenze religiose, probabilmente o sicuramente per s-piegare, nel senso etimologico del termine (togliere dalle pieghe), ciò che appare ins-piegabile per dare un ordine a ciò che appare disordinato e intorno a tali credenze sono cresciuti edifici politici e morali che istituiscono i comportamenti delle comunità che secondo un preciso ordinamento rituale avrebbero, in alcuni casi assecondato gli eventi naturali, in altri casi indotto gli eventi a favorire la comunità stessa. Tra il primo atteggiamento, assecondare gli eventi, e il secondo, indurre gli eventi c’è l’abisso antropologico che separa la cultura della Grecia antica, con la sua dimensione tragica e inesorabile della vita, dalla cultura occidentale moderna che a partire dalla sua matrice giudaico cristiana di fatto non accetta il divenire e cerca in tutti i modi di fissarlo in cornici stabili di carattere soteriologico o di carattere scientifico.
Nell’atto di nascita del rituale religioso è presente l’esigenza di universalizzazione che pone rimedio al molteplice che diviene e mette al riparo l’unico dalla decadenza. Così la fissazione dell’eterno mutevole comincia quando alla varietà dell’esperienza soggettiva si sostituisce l’immutabilità dell’universale oggettivato. Da un punto di vista epistemologico questo è stato il passo decisivo per la nascita del pensiero scientifico e questo filone può essere fatto risalire fino a Platone. D’altro canto, con la tradizione cristiana e con il rovesciamento del concetto di anima platonica, che da strumento epistemico diventa con Agostino strumento penitenziale, nasce il concetto di individuo e nasce intorno al concetto di ricettacolo di verità e allo stesso tempo di colpa e di punibilità individuale.
Il concetto di individuo, equivalente e sostituto di ogni singolo uomo, nasce con la lacerazione tra le ormai inevitabili esigenze di autonomia e l’obbedienza che deve alla tradizione che lo ha generato. La Riforma luterana rappresenta l’esito di tale processo di rottura. La tensione tra opposte esigenze è continuamente attiva ed è nel suo manifestarsi che operano le antinomie della Chiesa dei nostri giorni dove la libertà della scelta individuale confligge con la dottrina comunitaria. Il concetto di universale cui il rituale religioso ricorre per porre rimedio al mutevole esclude ogni possibile sviluppo del concetto di poliversale appiattendo ogni differenza in un’unica sostanza. “Amico dell’uomo, e nemico di quasi tutti gli uomini con cui ha avuto a che fare” diceva Thomas Carlyle del marchese di Mirabeau. Questo è il risultato con cui oggi tocca fare i conti ed è un risultato che ci ha lasciato in eredità un processo di oggettivazione dell’individuo che subentra totalmente a quello di soggettivazione dell’individuo.
Ormai assegnato alla Storia, che alcuni riconoscono bizzarra e imprevedibile, altri vedono linearmente progressiva, l’Uomo prende il posto degli uomini, ma gli uomini non abitano la Storia, abitano nelle loro case piccole o grandi, nelle loro piccole storie, nelle singole biografie fatte di accidenti e di scelte a volte lodevoli a volte deprecabili ma comunque sia scelte, alternative che si danno nei contesti sociali che vivono e di cui nessuno può dirsi totalmente e completamente esonerato.
Oggi viviamo in un’epoca in cui le piccole comunità con tratti tribali sono, a dir poco, desuete e i mass media creano una fitta rete di relazioni che collega individui appartenenti a comunità diverse che pure non si conoscono e che pur essendo collegati continueranno a non conoscersi perché alla sostanza carnale dei contatti di una volta è subentrato l’asettico impulso elettronico. Le piccole comunità presentano una rete di solidarietà dove tutti si conoscono per nome e storicamente il collante di questo tessuto è di matrice religiosa. L’idea di cancellare la dimensione religiosa si è già dimostrata fallimentare, è quindi necessario chiedersi quale ruolo possa avere l’evento religioso, che nato in un contesto tribale deve confrontarsi con il mondo cosiddetto globale?
Potrebbe sembrare paradossale ma forse la religione dovrebbe tornare a una dimensione tribale dove prima di parlare all’Uomo deve saper parlare a quel particolare uomo o a quella particolare donna, proprio quello o quella che pongono precise domande etiche. E allora dalla domanda “Chi è l’Uomo?” si deve passare alle domande ben più impegnative “Chi sei?”, “Cosa desideri?”, “Quali sono le tue speranze e i tuoi desideri?”.
Rispondere a queste istanze con soluzioni di distribuzione territoriale delle gerarchie ecclesiastiche è come cercare soluzioni quantitative e di configurazione geometrica alle esigenze di qualità relazionale e alla sete di esistenza. Non si tratta di raggiungere questo o quell’esponente di un credo religioso o di un altro, si tratta di ascoltare quel particolare ragazzo che si sente escluso perché ama un altro ragazzo, si tratta di ascoltare quella donna che non può o non vuole avere un figlio, di sentire il lamento di quell’uomo o di quella donna che non ce la fa più a sopportare un dolore che non gli fa vivere più nulla di umano, non lo fa riconoscere a sé stesso come un umano, di ascoltare quell’uomo e quella donna che non possono più vivere insieme, si tratta di spogliarsi di tutto meno che della nostra pelle che continuamente si rinnova e così nudi ricominciare a parlare dell’etica.
Laddove si chiede di morire non si può rispondere con anatemi, laddove si chiede il riconoscimento di diritti civili di persone che si amano non si può rispondere con fondamenti teologici, laddove si chiede di dibattere sui registri del diritto, della storia, della libertà di espressione, del bisogno di essere riconosciuti all'interno di un contesto sociale non si può opporre il silenzio e l’immutabilità della Legge, tutto questo è possibile farlo solo rinnegando gli uomini per l’Uomo.
Il sommo poeta, per bocca di Beatrice, diceva “Temer si dee di sole quelle cose / c’hanno potenza di fare altrui male; / de l’altre no, ché non son paurose.”[1] Compito arduo e impegnativo è guardare in faccia l’altro, conoscerlo di persona e prima di chiedersi “come posso fare del bene?” chiedergli “in che modo posso farti del male?”.

[1] Inferno II canto vv. 88-90

lunedì 15 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (61)]

L’uomo è un animale sociale? Decisamente sì, è nella sua natura di animale scarsamente attrezzato con abitudini alimentari piuttosto riprovevoli, dopotutto si trattava di uno spazzino della savana. Per evitare confusioni dovute alle sempre più ricorrenti manifestazioni di esasperato egoismo è necessario riconoscere che al termine sociale noi assegniamo un significato morale che non fa parte della natura bensì di un edificio culturale tipicamente umano e che implica scelte che possono essere differenti in relazione ai contesti storici e geografici. Confondendo le due istanze, morale e naturale, si potrebbe addirittura sostenere che l’uomo non è più un animale sociale. Non si deve tuttavia neanche dimenticare che la socialità è una strategia evolutiva sviluppata come risposta possibile e compatibile con la riproduzione in un determinato contesto. Sulla scala temporale dell’evoluzione nulla è dato per sempre.

domenica 14 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (60)]

“Chiunque può avere la macchina del colore preferito, purché sia nera.”, non ricordo a memoria la frase di Henry Ford ma il senso è fedele. Negli anni successivi alla II guerra mondiale l’offerta era giovane e incontrava una domanda sorpresa e altrettanto giovane, anzi più giovane dell’offerta e senza troppe pretese. Il progresso tecnologico e l’evoluzione del capitalismo hanno consentito di incrementare la domanda rendendola esigente e innescando un processo a feedback positivo nel quale probabilmente Ford si sarebbe trovato in difficoltà. Attualmente è in opera un meccanismo perverso in cui i bisogni vengono indotti ed estratti dalla società fin da quando, ancora immaturi, hanno cominciato a essere formulati in germe affinché l’offerta di beni segua la domanda, ma di fatto precedendola. Di questa tautologia il mercato vive!
Se abbiamo a cuore il nostro futuro occorre mettere in moto un meccanismo che susciti nel contesto sociale una domanda che sia in linea con i criteri della sostenibilità ambientale e sociale in modo che l’offerta del contesto capitalista sia indotta, o costretta, a seguirne le richieste. Questo panorama non potrà essere possibile senza rivedere alla radice molti concetti dell’economia, e se ciò possa essere fatto in un contesto capitalista può lasciare perplessi ma sta di fatto che la riforma del capitale appare l’unica via se non si vuole ricorrere a sogni rivoluzionari o non si vuole attendere che siano i limiti naturali ad imporla.

sabato 13 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (59)]

Passaggi di paradigmi socioculturali dall’era industriale a quella post-industriale, o forse si tratterà di convivenza di paradigmi in onore al politeismo weberiano?
– da uno schema esplicativo lineare dei fenomeni a uno schema di rete complessa, e all’estremo perdita di centralità del concetto di causalità. Umberto Eco direbbe da una struttura ad albero porfiriano a una struttura enciclopedica per la definizione delle “ontologie” conoscitive. Quelli che si fanno prendere la mano dai mutamenti, solitamente i più entusiasti della de-generazione informatica, già parlano di logica circolare, e sebbene si tratti di una chimera molti sono convinti che la logica sia proprio così!
– dalla rasserenante fiducia nella stabilità alla inquietante certezza della variabilità, paradigma favorito o conseguente al riconoscimento dei limiti della crescita della produzione e della struttura asimmetrica tra le ‘aspirazioni’ degli uomini non sempre fondate sulle capacità della terra che li ospita;
– dalla cultura della precisione alla cultura del ‘pressappoco’. L’asse centrale dei valori si sposta, o ritorna, dalla quantità alla qualità, dalla razionalità all’emotività. Si spera non si tratti del ricorrente rigurgito di romanticismo desideroso del solito “qualcosa di più”;
– dal culturalismo monolitico al multiculturalismo. Ritengo il relativismo culturale una delle più importanti conquiste intellettuali del secolo scorso. Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni ‘intellettuali’ chiusi a riccio in analisi facili facili non impedisce l’identità ma è presupposto per riconoscere le identità, non è anticamera al ‘facciamo come ci pare’ ma negazione della one best way culturale. Come ci ha insegnato Isaiah Berlin, il riccio sa una cosa grande ma nell’attesa che ce la riveli speriamo non sia troppo chiedere l’abolizione della la caccia alle volpi.
– da un paradigma produttivo centrato sulla materialità ad uno prevalentemente immateriale. Daniel Bell, in The coming of post-industrial society, al terziario affianca il quaternario – sindacati, banche, assicurazioni - e il quinario – servizi per la salute, educazione, ricerca, tempo libero, pubblica amministrazione. Naturalmente la compartimentazione è assolutamente inesistente poiché i settori economici sfumano l’uno nell’altro ma con un po’ di fantasia e non poco sforzo potremmo vendere un chilo di pane e un corso di formazione di 200 ore full immersion per insegnare a mangiarlo.
– dalla centralità del lavoro si passa alla centralità del tempo libero, non-lavoro, otium; da homo faber a homo ludens. La disoccupazione non è vista più come problema sociale ma come annuncio della fine del lavoro, non decomposizione della vecchia organizzazione economica e sociale ma nascita di una nuova organizzazione. Generalmente il disoccupato, poco avvezzo con i discorsi degli intellettuali, non si accorge di tutto ciò e banalizza la questione deprimendosi e talvolta suicidandosi.
– dalla ovvietà della distribuzione della ricchezza in base al lavoro produttivo alla necessità di distribuire la ricchezza non più in base al lavoro produttivo, soprattutto se il lavoro serve solo a ingrossare le statistiche dell’occupazione. Bertrand de Jouvenel ci fa notare che mamme che si scambiano i rispettivi figli diventano baby-sitter e accrescono il PIL!
– dalla prevalenza di comportamenti competitivi (strategicamente efficaci in casi di sottoaffollamento?) alla necessità di comportamenti mutualistici (inevitabilmente fruttuosi in caso di sovraffollamento?).
– dal breve termine al lungo termine, ma sempre fermamente miopi.
– dalla ‘semplice’ contrapposizione di poche classi sociali (2 x Marx) i cui ogni soggetto sapeva riconoscersi al conflitto di molteplici modelli sociali in singoli individui.
– perdita di centralità di singoli settori produttivi (rete ecologica lineare e semplice) e dipendenza diffusa da molteplici settori (rete ecologica a reticolo e complessa).
– passaggio del ruolo egemonico dalla comunità caratterizzata da limiti circoscritti alla società globalizzata e successivo riconoscimento della centralità dell’individuo (dall’oggettivismo al soggettivismo).
– dai bisogni che precedono i beni ai beni che inducono bisogni (passaggio dalla scoperta all’invenzione di Zsuzsa Hegedus – Il presente è l’avvenire – Interessante la tesi di Agnes Heller sulla distinzione tra bisogni fondamentali o radicali di natura qualitativa e bisogni indotti o alienati di natura quantitativa – da questa distinzione deduco una forte asimmetria tra beni e bisogni, è sempre più evidente la creazione di beni per bisogni prematuri o immaturi per essere fruiti nella piena soddisfazione. Soddisfiamo embrioni di bisogni che non possiamo riconoscere nella loro forma definitiva.
– dal pensiero concettuale e astratto che caratterizzerebbe la differenza umana al pensiero cosiddetto concreto dell’immagine, o come direbbe Sartori, al post-pensiero che caratterizza il passaggio (o il ritorno?) dal mundus intellectualis al mundus sensibilis.
Si tratta di poli opposti ma non so dire nulla sulla direzione da un polo all’altro. Molti sfumano l’uno nell’altro ma niente di serio naturalmente!
L’economia, che è ormai costituisce il codice trascrittivo universale della realtà, riesce a leggere queste transizioni e tenerne il passo? È uno strumento adeguato a interpretare i valori che si profilano nei nuovi paradigmi?
Almeno per quanto riguarda l’ambito produttivo, l’economia si trova di fronte alla necessità di riconoscere che incremento di produttività (produzione per unità di tempo) comporta inevitabilmente minore disponibilità di lavoro in un contesto di saturazione del mercato (se non saranno i bisogni a saturarsi, sarà la terra ad esautorarsi). L’economia può gestire questa situazione considerando l’inalienabilità del principio etico dell’uguaglianza, ovvero sarà in grado di riconoscere una fetta della produzione a chi, necessariamente, non lavorerà?
“…l’organizzazione sociale non riesce a tenere dietro al progresso tecnologico: le macchine cambiano più velocemente delle abitudini, delle mentalità e delle norme.”[1] “…gli antropologi chiamano cultural gap: la nostra resistenza alle innovazioni, anche quando esse sono palesemente vantaggiose. Questo rifiuto psicologico e culturale è dovuto al fatto che, nel corso di una determinata fase della nostra vita e della nostra storia, i circuiti logici del nostro cervello si strutturano in base all’esperienza, creando una rete sinaptica sufficientemente solida che consente grandi risparmi di energia attraverso la coazione a ripetere sempre le medesime decisioni, le medesime reazioni, le medesime abitudini…Il cultural gap è un meccanismo spontaneo di difesa nei confronti dei cambiamenti.”[2]

[1] D. de Masi, Il futuro del lavoro. Fatica e ozio nella società post-industriale, R.C.S. Libri, 1999, p. 10.
[2] Op. cit., p. 54.

venerdì 12 ottobre 2018

Oggi è giorno di alta marea


Oggi è giorno di alta marea,
oggi lo sento nella carne lo strazio del mare
quando l'acqua è lacerata
dalle ferite inferte dalla luna.
Che fai tu, luna, in ciel?
Nulla sai tu, luna, del dolore che infliggi,
nulla sai dei flutti che sollevi.
Risalgono parole usate,
riecheggiano voci amate,
dal fondo emergono sorrisi
che coprono conchiglie
e scogli aguzzi di giorni allodinici.
Sulla linea di marea
l'acqua rimescola destini,
corre lungo i solchi brevi delle mani,
disegna eterne attese e disperati voli.
Sulla linea di marea
l'acqua spacca le ore e i minuti,
segna il confine tra i desideri,
soglia amara che toglie il respiro e la vista
dell'orizzonte che sanguina luce.
Sulla linea di marea
l'acqua scombina lacerti di memorie,
rovescia le assenze,
rende incerte le distanze.
Sulla linea di marea
i vivi di oggi e i vivi di ieri si salutano
con una lacrima e un "aspettami".

Una gemma salata nasce dagli occhi
per dissetare tempo e dolore,
mentre la città tumore cresce
e noi corriamo, anime metastatiche
sempre pronte a morire altrove.

La cattura del gatto [Note (58)]

Nell'attuale quadro economico l’ambiente resta confinato a cornice, contesto nel quale l’uomo svolge le sue attività produttive. E’ evidente però che l’attuale modello economico, caratterizzato da un insostenibile vortice di produzione e consumo, è analogo al taglio del ramo su cui siamo seduti sebbene anche tale immagine sia diventata tristemente insufficiente. Nonostante si ravvisino movimenti culturali che indicano la necessità di superare questa visione il paradigma è ancora saldo.
L’uomo, per quanto disperatamente tenti di “elevarsi” sulla natura, non è altro dall’ambiente. A ben guardare questi tentativi sono tanto inutili quanto ridicoli. L’ambiente è oggetto e soggetto della nostra esistenza, costruzione e costruttore dei nostri moduli percettivi, significato e significante, l’ambiente non può essere considerato solo come qualcosa a cui stare attenti in quanto troppo delicato o perché minacciato, è bene in sé non distinto da noi.
In un racconto Oliver Sacks descrive il caso di un suo paziente che tenta di buttare via dal letto la propria gamba perché non la riconosce come sua[1]. Ebbene, forse la situazione è proprio questa.

[1] O.W. Sacks, L’uomo che scambio sua moglie per un cappello, Adelphi, 1986.

giovedì 11 ottobre 2018

Sul penoso mondo dei maschi

Papa Francesco contro l'aborto.
L'ennesimo caso di un maschietto che discetta del corpo delle donne. L'invidia degli uomini non ha molte forme.
E' l'intervento di un elefante in una cristalleria. Si dipinge un atto doloroso come fosse una cosa fatta a cuor leggero. Non ho conosciuto nessuna donna che abbia affrontato un aborto senza gravi sofferenze, materiali e psicologiche. Se ce ne sono che considerano l'aborto un contraccettivo sono un numero esiguo e siamo nell'ambito del patologico. Il papa parla dell'interruzione volontaria di gravidanza ignorando la dimensione storica e sociale dell'aborto, per non dire della dimensione psicologica che calpesta allegramente. La 194 è intervenuta a disciplinare qualcosa che esisteva da prima e in maniera incontrollata. L'aborto non l'ha inventato la 194 e questa legge insieme alla regolazione dell'interruzione di gravidanza introdusse un apparato di assistenza e formazione che dal 1978 ha più che dimezzato il ricorso all'aborto e non solo perché si è fatto e si fa di tutto per rendere inapplicata una legge dello Stato utilizzando l'obiezione di coscienza come un cavallo di Troia ma proprio perché uno degli obiettivi della legge è accrescere il livello di consapevolezza della maternità. Io a differenza di papi e ministri sono solito parlare dopo aver consultato dati e storia, si veda il capitolo 6 di questo rapporto Istat prima di parlare di questi temi. Si legga attentamente questo documento di Lorenza Perini prima di dipingere una idilliaca versione da maschietti. Il papa offende le donne, i medici che operano nel contesto ammesso da una legge dello Stato, offende quella legge e in uno Stato degno di questo nome e fiero del suo ordinamento laico si presenterebbero formali rimostranze a una autorità di un paese straniero che si permette di chiamare sicari quanti si attengono al rispetto di una legge che ne sancisce l'operato. Chiamare sicari quanti quella legge fanno rispettare è diffamazione, accusare di assassinio le donne che per diversi motivi ricorrono all'interruzione volontaria di gravidanza è da criminale, mostra un'insensibilità di fronte a un sancta sanctorum del dolore che ha del mostruoso, è indegno di qualsiasi uomo. Bisogna tornare a fare seriamente informazione su questi temi e inchiodare ai fatti chiunque ne parli, dati alla mano e poi direi anche un'altra cosa. Suggerirei a noi maschietti di fare un passo indietro quando parliamo della carne delle donne, qualcosa che sappiamo per sentito dire, qualcosa che i maschietti non digeriscono da milioni di anni, che ci è arrivato da lontano e che facciamo di tutto per contaminare con gli altri pruriti che ci tormentano... una forma di invidia, come accennavo, forse proprio l'invidia di non poter dare la vita...

***

Ecco cosa c'era prima della 194 del '78, forse Bergoglio ne auspica il ritorno.

Codice penale italiano (1930), Libro II, Titolo X: Dei delitti contro la integrità e la sanità della stirpe (Art. 545. Aborto di donna non consenziente. Chiunque cagiona l'aborto di una donna, senza il consenso di lei, è punito con la reclusione da sette a dodici anni. Art. 546. Aborto di donna consenziente. Chiunque cagiona l'aborto di una donna, col consenso di lei, è punito con la reclusione da due a cinque anni. La stessa pena si applica alla donna che ha consentito all'aborto. Si applica la disposizione dell'articolo precedente: 1. se la donna è minore degli anni quattordici, o, comunque, non ha capacità d'intendere o di volere; 2. se il consenso è estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero e` carpito con inganno. Art. 547. Aborto procuratosi dalla donna. La donna che si procura l'aborto e` punita con la reclusione da uno a quattro anni. Art. 548. Istigazione all'aborto. Chiunque fuori dei casi di concorso nel reato preveduto dall'articolo precedente, istiga una donna incinta ad abortire, somministrandole mezzi idonei, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni).

La cattura del gatto [Note (57)]

Psiche e Techne hanno velocità comparabili? Bisognerebbe tenere in maggiore considerazione le diverse dinamiche di biologia e cultura e i loro intrecci e, cosa ancor più complicata, la diversa velocità di adattamento dell’umano a moduli culturali che toccano differenti aspetti della sua vita. Ci adattiamo presto all’utilizzo di un computer, meno rapidamente a ciò che implica, che tra l’altro potrebbe restare ignoto per molto tempo. Apprezziamo la velocità di un aereo per attraversare continenti ma i nostri ritmi circadiani, forgiati da milioni di anni, sono fuori uso per un paio di giorni. Sono esempi forse banali ma aprono la domanda se fisiologia e cultura potranno mai essere allineate? E’ possibile concepire una funzione in linea teorica che traduca i tempi dell’una nell’altra? E soprattutto, in caso di risposta positiva a entrambe le domande, saremmo ancora uomini?

mercoledì 10 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (56)]

I beni di consumo vengono creati, il loro significato costruito contestualmente alla loro emergenza con meccanismi di manipolazione sociale complessi e difficilmente prevedibili, tuttavia in caso di successo, ossia di diffusione, l’immagine creata diventa quasi intoccabile e resa tale da una cultura comunicativa che costruisce più di quanto gli sia concesso decostruire.
La comunicazione costruttiva avviene in un contesto produttivo di aggiunta e arricchimento (puoi fare, puoi costruire, puoi creare…), mentre il contesto della comunicazione decostruttiva è di ordine morale che troppo spesso è percepito come elemento penalizzante (non puoi fare, non puoi costruire, non puoi creare…). Un processo regolare, circolare di creazione ed erosione di significati è sempre un processo con bilancio positivo, con il risultato di creare immense discariche di significati difficili da decomporre.
Il contesto comunicativo è fondamentalmente asimmetrico, si può dire tutto e il suo contrario ma le modalità costruens e destruens dell’intelletto non hanno pari dignità. Il contesto sociale rifiuta il “polemico” poiché rifiuta “polemos”, il conflitto, forse con qualche ragione ma spesso per pigrizia intellettuale più che per razionale opposizione che a sua volta sancirebbe conflitto. Il diritto non si occupa di chi loda (neanche se in tono di equilibrato sarcasmo) ma di chi denigra. Non è follia riabilitare, purché senza la minima pretesa moralizzatrice o di coercizione, una funzione destruens di pari dignità della funzione costruens della comunicazione allo scopo di aggiungere un elemento “spazzino” di molti rifiuti mentali. Occorre sviluppare la funzione destruens in un contesto di “diversa creazione”, occorre fornirle un contesto culturale in cui può essere espressa senza apparire l’urlo di un pazzo, dando per scontate le capacità mentali di chi la esprime.

martedì 9 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (55)]

Abbiamo bisogno di un buon sistema di traduzione quando interagiamo con gli altri. Ognuno si esprime attraverso il proprio sistema di valori, attraverso il proprio modo di interpretare il proprio vissuto. La reciproca comprensione non può prescindere dalla dotazione di un buon sistema di traduttori semantici interiormente sviluppati. Non si tratta solo di adottare un insostenibile linguaggio comune basato su regole logiche ma di applicare un sistema di traduttori che consentono la comunicazione.

lunedì 8 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (54)]

Il 23 gennaio 2008 un uomo colpito da attacco cardiaco muore a Trento durante la celebrazione della messa, il rito non si interrompe. Il mondo va avanti e la vita continua, lo sappiamo, non possiamo pretendere che il mondo si fermi, neanche per un attimo, e poi il rito è un patto con il passato che non può essere sciolto impunemente. Quando il rito prende il sopravvento il Tao muore. Per questo siamo occidentali!

domenica 7 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (53)]

“L’etica e i codici morali sono necessari all’uomo per via del conflitto tra intelligenza e impulso. Se l’uomo possedesse o la sola intelligenza o il solo impulso, non avrebbe bisogno dell’etica. […] Un’etica che consenta agli uomini di vivere felicemente deve collocarsi a metà strada tra i due poli dell’impulso e del controllo. E’ da questo conflitto insito nella natura umana che nasce l’esigenza dell’etica.”[1]
Senza entrare nei dettagli di un concetto polisemico come quello di intelligenza e nelle sue molteplici dimensioni (emotiva, razionale, individuale, sociale, ecc…), quella che l’uomo solitamente chiama in causa per distinguersi dal resto del mondo animale è un prodotto per niente scontato della natura. D’altra parte la volontà o gli impulsi, intesi come il conatus di Spinoza, costituiscono l’inevitabile desiderio di conservazione ed espansione dell’essere. Se la volontà trova facile fondamento nell’essere meno scontata è la fondabilità della volontà morale che presume la mediazione dell’intelligenza.
Nel discorso etico il pensiero di Hume ha tracciato un solco incolmabile tra le descrizioni, relative all’essere, di pertinenza della scienza, e le prescrizioni o valutazioni, relative al dover essere, di pertinenza dell’etica. Quella che George Edward Moore ha chiamato la “fallacia naturalistica” altro non è che l’effettiva indeducibilità del dover essere dall’essere che aveva individuato il filosofo scozzese.
Fernando Savater prende le distanze da questa posizione e in Etica come amor proprio si chiede, in maniera molto perentoria, “da dove diavolo potremmo tirar fuori qualsiasi dover essere se non dall’essere che abbiamo a disposizione?”[2] e considera la distinzione tra essere e dover essere uno pseudo-problema. Indubbiamente “ciò che per l’uomo vale, è quello che l’uomo vuole; però l’uomo non può volere qualsiasi cosa, deve volere in accordo con quello che è”[3], tuttavia il dovere essere, presuppone una scelta che resta indeducibile dall’essere. L’uomo può volere solo in accordo con quello che è perché non può oltrepassare i limiti stabiliti, di volta in volta e sempre mutevoli, dalla sua storia evolutiva e dalla contingenza, tuttavia il suo volere può volgersi in molte direzioni. Il fatto che l’uomo “deve volere” costituisce l’essenza del conatus spinoziano ma da questo non si deduce affatto né l’oggetto del suo volere né il tipo di accordo con l’essere.
Savater ha il merito di individuare il paradigma della fondabilità etica nell’amor proprio dell’individuo, un paradigma privo di una metafisica che solo un uomo come Kant poteva concepire senza mala fede, ma nonostante la condivisibilità della tesi centrale di Savater fatico a seguire il filosofo spagnolo nel ragionamento che sembra delineare una deducibilità del dover essere dall’essere. Se concepiamo volere e dovere come due sfere di dimensioni e posizioni mutevoli immerse nell’indefinito essere, con la sfera del volere che include quella del dovere, in questi termini tutti i possibili dover essere sono in qualche modo vincolati al volere e in ultima istanza all’essere, ma questo non dice nulla sulla loro deducibilità dall’essere. L’essere da cui possiamo concepire la deducibilità è già un voler essere, inoltre di tutti i possibili dover essere solo alcuni costituiscono oggetto di interesse per un comportamento etico.
Savater assegna il dover essere a una dimensione storicamente determinatasi e afferma che “l’uomo non può inventarsi completamente, ma neppure smettere completamente di inventarsi”[4], tuttavia il giusnaturalismo di Savater crea un ponte, a mio avviso pericolante, tra essere e volere, entrambi ontologicamente dati, e dover essere, sempre imprevedibile e la cui datità ontologica è tutt’altro che scontata. Ritornando a Hume, le verità sulle materie di fatto non possono essere inferite a priori dall’esperienza secondo criteri logici tipici delle relazioni tra idee[5] e i risultati della volontà sono spesso materie di fatto. Se siamo liberi l’unico ponte tra essere/volere e dovere è la scelta individuale nel contesto collettivo, scelta sempre imprevedibile e i cui esiti, in fin dei conti, sono sempre imprevedibili. L’etica è la ricerca di un accordo, frutto di un’intelligenza sociale, in cui la scelta individuale possa esprimersi, mentre la volontà dell’essere è una proprietà del vivente che non ha necessità di estendersi oltre l’individuo. La vita che vuole sé stessa fonda sicuramente la speranza, l’incerta letizia di Spinoza, ma non dice nulla sulla sua qualità né su chi parteciperà di quella speranza.

[1] B. Russell, Un’etica per la politica. (1954). Laterza, Bari, 1994, p. 8-9.
[2] F. Savater, Etica come amor proprio. (1988). Laterza, Bari, 1998, p. 7.
[3] Op. cit., p. 8.
[4] Ivi.
[5] D. Hume, Ricerche sull’intelletto umano e sui principii della morale. Laterza 1980, p. 41.
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