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mercoledì 23 giugno 2010

Del successo del capitalismo!

Prima della crisi economica non era raro sentire parlare apertamente del successo del modello capitalistico. Adesso chi lo fa si camuffa da ministro dell’economia!

La verità è che quando parliamo di modello capitalistico non abbiamo in mente qualcosa di preciso. Le categorie del successo o dell’insuccesso sono decisamente riduttive e non certo adatte per fare un bilancio di un modello economico, storico e sociale complesso dalle mille sfaccettature. E’ fuor di dubbio che gli aspetti essenziali che etichettiamo come capitalismo, ossia il diritto di organizzazione dei fattori produttivi (Terra, Lavoro, Capitale) e del libero scambio delle merci abbiano comportato una crescita della ricchezza ed uno sviluppo delle libertà che, in un contesto di povertà diffusa, non trovano espressione ma è altrettanto vero che l’analisi di un fenomeno storico non può prescindere dal contesto in cui quel fenomeno si sviluppa. Una valutazione atemporale del capitalismo è utile al giudizio che si può formulare intorno a questo sistema economico quanto la dialettica di Hegel è utile per distinguere la Ragione dal Destino, con tutto il rispetto per il filosofo tedesco.

Il capitalismo nel corso della storia ha mutato molte facce e si è dimostrato sufficientemente flessibile da sopravvivere alle sollecitazioni esterne (come il comunismo) ed a quelle interne (come le crisi economiche e finanziarie). Nonostante una certa fiducia sulla continuità del capitalismo non sia del tutto infondata resta prudente considerare che le vicende passate non possono dare la certezza che in futuro le cose andranno nella stessa maniera, salvo non si voglia guidare un’auto guardando solo lo specchietto retrovisore!

Mi risulta impossibile considerare il capitalismo soltanto nei suoi aspetti strettamente economici e di mercato senza considerare il contesto sociopolitico in cui si realizza. Molti sono pronti ad associare capitalismo e democrazia ma trascurano di sottolineare che la relazione non è biunivoca, nel senso che le democrazie note hanno strutture economiche capitalistiche ma non è vero il contrario. La storia ci ha mostrato che il sistema capitalistico si adegua bene alle più svariate forme di governo e ai più diversi indirizzi ideologici, il Cile di Pinochet era capitalista almeno quanto la Cina di Deng Xiaoping. Pertanto quando parliamo di capitalismo è utile chiarire di che tipo di capitalismo stiamo parlando e in quale contesto politico si dispiega. Se il successo del capitalismo è misurato sulle basi esclusivamente funzionali di un concetto mercatistico allora diventa plausibile l’irriguardosa analogia che un coltello ben affilato funziona molto bene per tagliare il pane ma altrettanto bene per tagliare la gola ad un uomo. Il successo del capitalismo non può evitare di confrontarsi con le fragili basi epistemologiche della teoria economica di cui Nicholas Georgescu-Roegen ci ha informati[1] o con le implicazioni etiche trascurate da una economia letta solo secondo criteri ingegneristici di funzionalità, come ci ha insegnato Amartya Sen[2].

La realizzazione di una sorta di patto tra mercato e democrazia risale al New Deal di Roosevelt, dopo la crisi del '29. Il patto divenne elemento costitutivo dell'ordinamento di molti paesi dal secondo dopoguerra. Nel nostro paese quel patto tra mercato e democrazia risuona nelle parole dell’articolo 41 della Costituzione: “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.” Questo articolo, insieme al meraviglioso articolo 3, che andrebbe citato come fosse un atto d’amore (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”), dipinge il quadro all’interno del quale si deve giudicare del successo o dell’insuccesso di un sistema economico.

Il capitalismo non è un edificio filosofico alla ricerca della verità ma certamente non può neanche fare a meno di confrontarsi con un principio di realtà in cui manifestamente si presentano i limiti fisici delle risorse e dove le vecchie categorie dello spazio e del tempo sono ancora le forme a priori e non prodotti di mercato come ogni altro oggetto. Per quanto riguarda il primo aspetto si è già detto tanto e si rischierebbe di passare per ambientalisti a sottolinearlo eccessivamente, che il capitale naturale sia trattato come reddito dai guru dell’economia poco importa se l’economia funziona lo stesso! Il secondo aspetto menzionato è invece un prodotto tutto interno al sistema capitalistico ed è quel processo noto come globalizzazione per quanto riguarda lo spazio e di finanziarizzazione per quanto riguarda il tempo. Anche della globalizzazione si è detto abbastanza, ed enfatizzare troppo aspetti inerenti l’equità dello sviluppo o la soppressione delle entità statali sull’altare delle ineffabili multinazionali è diventato quasi un esercizio per giovanotti da centro sociale. La finanziarizzazione invece, ultima effige del proteo capitalista, “è il ricorso sistematico all’indebitamento, che scarica sul futuro le incertezze del presente, ovvero: la mercatizzazione del futuro.”[3] (chi non ama i giri di parole può sintetizzare dicendo: "Si vendono pure i debiti questi pezzenti!"). Giorgio Ruffolo ci dice che “La finanziarizzazione, sovvertendo il rapporto tra economia dei beni ed economia dei segni, minaccia di coinvolgere le società del nostro tempo in uno strano gioco del parapendio in cui non si sa bene se è l’ombrello a volteggiare attorno alla terra o la terra attorno all’ombrello.”[4]

Sulla eventuale caduta futura del parapendio non so dire, ma sta di fatto che le varie crisi del sistema capitalistico sono state sempre superate grazie all’intervento di quello Stato tanto inviso alle logiche (!?) di mercato, con tanti saluti all’autoregolamentazione. Del resto le conseguenze economiche e sociali della flessibilità, tanto utile al mercato, non ricadono forse sullo Stato?[5] Ma allora quando parliamo di successo del capitalismo siamo sicuri che sia proprio del capitalismo il successo di cui parliamo? O non è forse di quel patto tra mercato e democrazia contenuto nell’articolo 41 della Costituzione che Tremonti vuole riformare con il plauso di Berlusconi? Inoltre, se il successo è misura della bontà, e dubito fortemente che sia così (perché mescoleremmo aspetti etici con aspetti quantitativi), non è utile chiedersi qual è la scala spazio-temporale del successo e quali siano le conseguenze di questo successo su altre scale?

Non si tratta solo di osservare che il capitalismo non soddisfa le esigenze esterne alla sfera produttiva ma, ebbene sì, si tratta ancora di misurarsi con le contraddizioni interne ad un capitalismo che si alimenta di un processo di produzione senza senso che si autoamplifica.
Diciamo la verità, Marx si sarà fatto prendere la mano dalla Storia, o forse voleva essere lui a prenderla per mano, ma sulle contraddizioni del capitalismo ci aveva preso in pieno.


[1] N. Georgescu-Roegen, Bioeconomia. Verso un'altra economia ecologicamente e socialmente sostenibile. Bollati Boringhieri. 2003.
[2] A. K. Sen, Etica ed economia. Laterza, 2002.

[3] G. Ruffolo, Il capitalismo ha i secoli contati. Einaudi, 2008. p. 228.
[4]
G. Ruffolo, op. cit., p. 242.
[5] L. Gallino, Contro la precarietà. Il lavoro non è una merce. Laterza, 2007.

2 commenti:

  1. Caro Antonio,

    All'opportunità dei tuoi argomenti critici sul successo del capitalismo ne aggiungerei uno che non ti è sconosciuto, riguardante gli sconquassi naturali, sociali e politici che comporta l'approvvigionamento delle risorse (e direi anche, lo smaltimento degli scarti).
    Per non parlare poi, e non ti vorrei sembrare troppo a sinistra, dello sfruttamento dei lavoratori (non penso solo ai cinesi o agli indiani ma anche ai lavoratori in nero che dalle nostre parti fabbrica(va)no scarpe per grandi griffe. Non credo che siano troppo contenti delle cristalline virtù del capitalismo.
    Un ultima notazione riguarda la consapevolezza e la buona fede di chi parla di successo del capitalismo. Non so a chi ti riferivi, ma direi che c'è una buona dose di ipocrisia/teatro tra chi ha responsabilità dirigenziali (governo e non) e un po' di distrazione tra noi persone comuni.
    Una volta che ci siamo resi conto delle storture del sistema resta però il solito problema, ovvero come porre rimedio.

    Un abbraccio e grazie per gli spunti di riflessione.

    Franco

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  2. non mi starai mica diventando di sinistra? che oramai son cose superate! A chi mi rivolgevo, ovvio, a nessuno ormai, farneticavo. Adesso, camuffamenti a parte, tutti sono contro il capitale, anzi guarda il capitale fa così schifo che al governicchio non passa nemmeno per la testa di tassarlo, che facciano le loro transazioni senza commissioni, noi la soddisfazione di prelevare i loro sporchi soldi non gliela diamo! ecco!
    un abbraccio a te e grazie per il commento

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