Una delle più belle definizioni del concetto di libertà che io conosca l'ha fornita Montesquieu che nella sua opera più importante, Lo spirito delle leggi, scriveva «In uno Stato, vale a dire in una società nella quale esistano delle leggi, la libertà non può consistere che nel poter fare ciò che si deve volere e nel non essere costretti a fare ciò che non si deve volere. Bisogna mettersi bene in mente che cosa sia l’indipendenza e che cosa sia la libertà. La libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono; e se un cittadino potesse fare ciò che esse proibiscono, non sarebbe più libero poiché tutti gli altri avrebbero anch’essi questo stesso potere.» (libro XI, cap. 3) Più avanti scriveva «E’ però una esperienza eterna che ogni uomo che ha in mano il potere è portato ad abusarne procedendo fino a quando non trovi dei limiti… Perché non si possa abusare del potere, bisogna che per la disposizione delle cose il potere freni il potere.» (libro XI, cap. 6)
Indubbiamente il concetto di libertà del barone de Montesquieu, padre del concetto della separazione dei poteri, è molto complesso e presenta un intreccio di potenza (intesa come potenzialità, possibilità), vincoli e volontà - potere, dovere, volere - che mette a dura prova chi non è esercitato al pensiero filosofico, è comprensibile quindi l'affanno di chi usa la parola libertà non essendo esercitato neanche al pensiero. Come suggeriva Francesco Guccini nella Canzone di notte n.2, "per chi non è abituato, pensare è sconsigliato"!
Su Repubblica.it leggo che Berlusconi torna all'attacco della Costituzione e dice che non è possibile governare con queste regole; ma se la cosa lo stressa tanto non ha che da seguire il consiglio che ogni buon geriatra gli darebbe, si riposi, vada altrove, dove le regole gli aggradano di più.
Nello stesso articolo leggo che «Il premier è anche tornato sul progetto, caro a Tremonti, di cambiare l'articolo 41 della Costituzione per azzerare le autorizzazioni necessarie ad aprire un'impresa: "Vogliamo arrivare a un nuovo sistema in cui non si debbano chiedere più permessi, autorizzazioni, concessioni o licenze", ha detto, definendo i controlli previsti dalla Carta "una pratica da Stato totalitario, da Stato padrone che percepisce i cittadini come sudditi".»
Ma cosa dice l'articolo 41 della Costituzione? Eccolo:
"L'iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali."
Lasciando perdere Berlusconi che ormai è finito e considerando Tremonti che, oltre ad essere il successore di Berlusconi, è considerato il ministro dell'economia più intelligente d'Europa, segno del mutamento degli standard intellettuali nel vecchio continente, quando si dice azzerare le autorizzazioni delle attività produttive da parte dello Stato non si intende semplicemente alleggerire le pratiche burocratiche ma si intende minare quel patto tra mercato e democrazia che i Costituenti hanno voluto sancire per l'attività economica in questo paese. In altre parole la riforma interverrebbe nel sistema capitalistico di questo paese togliendo quei "lacci e lacciuoli" che lo Stato pone al mercato, lo stesso Stato tanto inviso ai sacerdoti del libero mercato, salvo ricorrervi per salvarsi in tempi di crisi (è la celebre scuola economica del liberismo a fasi alterne). Ma gli unici vincoli che si vedono nell'art. 41 della Costituzione che Tremonti vorrebbe cambiare sono quelli che stabiliscono l'utilità sociale di una attività produttiva.
Con la crisi economica molti hanno pensato che l'economia dovesse e potesse imboccare una strada diversa da quella che aveva portato alla crisi, una strada che privilegiasse la produzione di qualità della vita piuttosto che della quantità di beni, insomma qualcosa che mettesse al centro dell'attività economica quei fini sociali di cui parla l'art. 41 della Costituzione.
Anche il ministro Tremonti, quando ha saputo dai giornali della crisi economica e i suoi consiglieri più fidati gli hanno rivelato che non si trattava di una burla, è stato folgorato come Saulo sulla strada di Damasco e, colpito dalla sindrome del "l'avevo detto io", ci ha abituato ad un sofferto atteggiamento ieratico, a continue citazioni dalle sacre scritture, a pennellate di colbertismo mescolato non shakerato con liberismo, a profetici richiami al rigore fiscale ed altre travagliate manifestazioni acute di riformismo economico. Per molti è diventato l'araldo del mutamento del paradigma liberomercatista, l'eroe della trasformazione dell'economicismo miope, l'acerrimo critico del capitalismo liberista, il combattente furioso contro sprechi e consumi. I più maliziosi pensano ancora che il ministro sia privo di una visione di insieme e di un disegno preciso della dimensione storica e collettiva di uno Stato ma sono le solite sediziose voci della sinistra che non riesce a vedere che il ministro ha operato una vera e propria rivoluzione del proprio pensiero, passando da teorico della finanza creativa a paladino della poveva gente, semmai sono i fatti ad avergli remato contro.
Dopo la proposta di voler cambiare l'articolo 41 della Costituzione anch'io manifesto qualche incertezza sulla autenticità della conversione del ministro e devo purtroppo ammettere che la folgorazione che ha avuto non è esattamente quella che io avrei sperato!
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