La principale caratteristica che differenzia l’uomo dagli altri animali discende dalla sproporzione che per l’uomo ha il “dover essere” nei confronti dell’”essere”. In definitiva è la fallacia naturalistica a caratterizzare l’uomo, o, come la chiamava Arnold Gehlen, l’ipertrofia morale. Da questo punto di vista la scienza, il regno dei fatti, per essere veramente tale, dovrebbe essere meno umana possibile. Un orrore da considerare con estrema cura, consapevoli che anche la cura non può e non deve essere priva di valore morale.
L’uomo non può fare a meno di mettere i fatti in relazione al proprio “dover essere” che, pur negato, si nasconde nelle pieghe delle teorie scientifiche. L’annosa sofferenza con cui Darwin approda alla teoria della selezione naturale è rivelatrice di un conflitto tra stati del dover essere, se rimanere fedele alla sua formazione religiosa e al contesto vittoriano della sua epoca o alla coerenza esplicativa di una teoria naturalistica che non tradisse i nessi tra tutti gli oggetti delle sue osservazioni.
Come Max Weber ha insegnato si tratta sempre e comunque di rispondere alla domanda “Quale Dio servire?”
"Concludiamone dunque che il mondo sarebbe assai migliore se ciascuno si accontentasse di quello che dice, senza aspettarsi che gli rispondano, e soprattutto senza chiederlo né desiderarlo." José Saramago
domenica 30 settembre 2018
sabato 29 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (45)]
La causalità è uno dei principali concetti della storia del pensiero umano alla base delle spiegazioni razionalistiche dei fenomeni naturali. Aristotele propose una classificazione delle cause in quattro tipi: materiale, formale, efficiente e finale. Nel tempo il concetto di relazione causale è stato messo in discussione. Hume nel ‘700 ha chiarito come il nesso causale non costituisca una necessità ma un fatto con valore di ipotesi. Alla perdita di valore della causalità tra la seconda metà dell’800 e gli inizi del ‘900 è subentrato il concetto di “legge descrittiva” che ha il compito di descrivere la regolarità e uniformità dei fenomeni o, meglio, della loro lettura da parte dell’osservatore, fenomeni che possono essere letti in chiave deterministica o probabilistica.
Le alterne fortune epistemologiche del concetto di causalità non ne hanno scalfito la centralità nella grammatica di lettura della realtà che viviamo quotidianamente. Se l’esistenza o meno di un nesso causale non dipende dal numero di eventi concatenati coinvolti l’individuazione di uno schema descrittivo di eventi concatenati tra loro ne è fortemente limitata. Se la classificazione aristotelica delle cause può essere definita di carattere orizzontale, emerge la necessità di sviluppare una classificazione di carattere verticale che, senza arrivare al ‘movente immobile’, consideri la catena di eventi oltre i due o tre elementi concatenati, per tacere dell’ulteriore livello di complessità determinato dalla multicausalità degli eventi.
Nonostante lo sviluppo delle teorie dei sistemi e della complessità la nostra effettiva capacità di risalire lungo la catena causale dimostra chiaramente un limite nella lettura di eventi ordinati lungo l’asse temporale. Fuori dagli ambiti puramente accademici, nei comportamenti quotidiani e nelle attività relazionali non emerge grande perizia nel risalire oltre due o tre nodi della catena causale. Questa barriera costituisce un grave limite delle nostre capacità interpretative, qualora il nostro sguardo sia orientato verso il passato. Qualora orientato verso il futuro pregiudica tragicamente la nostra sopravvivenza se questa miopia diventa paradigma dell’azione politica.
Le alterne fortune epistemologiche del concetto di causalità non ne hanno scalfito la centralità nella grammatica di lettura della realtà che viviamo quotidianamente. Se l’esistenza o meno di un nesso causale non dipende dal numero di eventi concatenati coinvolti l’individuazione di uno schema descrittivo di eventi concatenati tra loro ne è fortemente limitata. Se la classificazione aristotelica delle cause può essere definita di carattere orizzontale, emerge la necessità di sviluppare una classificazione di carattere verticale che, senza arrivare al ‘movente immobile’, consideri la catena di eventi oltre i due o tre elementi concatenati, per tacere dell’ulteriore livello di complessità determinato dalla multicausalità degli eventi.
Nonostante lo sviluppo delle teorie dei sistemi e della complessità la nostra effettiva capacità di risalire lungo la catena causale dimostra chiaramente un limite nella lettura di eventi ordinati lungo l’asse temporale. Fuori dagli ambiti puramente accademici, nei comportamenti quotidiani e nelle attività relazionali non emerge grande perizia nel risalire oltre due o tre nodi della catena causale. Questa barriera costituisce un grave limite delle nostre capacità interpretative, qualora il nostro sguardo sia orientato verso il passato. Qualora orientato verso il futuro pregiudica tragicamente la nostra sopravvivenza se questa miopia diventa paradigma dell’azione politica.
venerdì 28 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (44)]
Che le nuove specie siano più complesse delle precedenti è da considerare con molta cautela sebbene si possa riconoscere un andamento di questo tipo nella storia dell’evoluzione degli organismi.
Cosa significano nuove specie? Quelle che vengono dopo? Dopo cosa? Dopo chi? Si invoca una chiara linearità della dimensione temporale che è troppo riduttiva per comprendere i processi evolutivi dei sistemi biologici.
Se la complessità è da riferirsi alle tipologie di organismi presenti in un dato periodo occorre considerare che la radiazione di piani strutturali – baupläne – degli organismi delle argilloscisti di Burgess, di poco successivi all’esplosione del Cambriano, circa 530 milioni di anni fa, presentava una varietà enorme che non ha più trovato riscontro nelle ere successive dopo le diverse estinzioni di massa che il pianeta ha visto. Centinaia di milioni di anni dopo i dinosauri raggiunsero un enorme livello di complessità in termini di dominio del pianeta e di persistenza delle specie. Riguardo quest’ultimo aspetto gli squali sono praticamente immutati da 400 milioni di anni, può essere un esempio di complessità praticamente “perfetta”?
Dalle scoperte paleontologiche “… è scaturita l’immagine dell’evoluzione come una serie estremamente improbabile di eventi, a posteriori abbastanza ragionevole e spiegabile in modo rigoroso ma del tutto imprevedibile e irripetibile. Se potessimo riavvolgere il film della vita riportandolo sino al tempo lontano degli organismi di Burgess, la probabilità che dal replay venisse fuori qualcosa di simile all’intelligenza umana è trascurabilmente piccola.”[1] Mentre ci intratteniamo piacevolmente sulla complessità non sarebbe inutile articolare una discussione sulle complessità.
E' necessario sottolineare un aspetto squisitamente culturale, molti organismi presentano organi estremamente complessi e questi attirano la nostra attenzione, anche scientifica, ma vi sono anche migliaia di esempi di organi e di specie dove la regressione dalla complessità (apparente? anche questo dovrebbe porre degli interrogativi), anziché la progressione, rappresenta il filo conduttore dell’evoluzione, parola estremamente insidiosa e che Darwin nelle prime edizioni dell’Origine non usò mai.
E’ innegabile ed evidente l’aumento di complessità che vediamo confrontando le altre specie e la specie umana ed è corretto interpretare le “capacità elaborative” nel contesto del “vantaggio evolutivo” ma dire che “la selezione e il vantaggio evolutivo progrediscono attraverso specie sempre più elaborative” significa affermare in nuce che un tipo di complessità (linguaggio, mentalismo) ha qualcosa di inevitabile nel contesto della selezione delle specie e in particolare dell’uomo. E' un salto insostenibile almeno dal punto di vista scientifico, ma è utile sottolineare l’importanza del metodo storico che grandi evoluzionisti come Ernst Mayr e Stephen Jay Gould riconoscono per capire l’evoluzione.
E’ indiscutibile l’enorme livello di complessità della mente umana, ma da qui a ripristinare un programma adattamentista dell’evoluzione ponendone al centro le capacità mentali è compito non privo di insidie. Qual è la necessità di ricorrere a infondate frecce del tempo per sostenere le responsabilità dell’uomo nella natura?
L’uomo volente o nolente ha capacità di esperire e conoscere, dicevo nella precedente nota, e questo è dovuto probabilmente a una natura naturans di spinoziana memoria ma “non credere affatto alla passività della materia” non autorizza ad affermarne l’attività intenzionale. Forse abbiamo bisogno di altre categorie.
[1] S.J. Gould, La vita meravigliosa. Feltrinelli, 1990, p. 10.
Cosa significano nuove specie? Quelle che vengono dopo? Dopo cosa? Dopo chi? Si invoca una chiara linearità della dimensione temporale che è troppo riduttiva per comprendere i processi evolutivi dei sistemi biologici.
Se la complessità è da riferirsi alle tipologie di organismi presenti in un dato periodo occorre considerare che la radiazione di piani strutturali – baupläne – degli organismi delle argilloscisti di Burgess, di poco successivi all’esplosione del Cambriano, circa 530 milioni di anni fa, presentava una varietà enorme che non ha più trovato riscontro nelle ere successive dopo le diverse estinzioni di massa che il pianeta ha visto. Centinaia di milioni di anni dopo i dinosauri raggiunsero un enorme livello di complessità in termini di dominio del pianeta e di persistenza delle specie. Riguardo quest’ultimo aspetto gli squali sono praticamente immutati da 400 milioni di anni, può essere un esempio di complessità praticamente “perfetta”?
Dalle scoperte paleontologiche “… è scaturita l’immagine dell’evoluzione come una serie estremamente improbabile di eventi, a posteriori abbastanza ragionevole e spiegabile in modo rigoroso ma del tutto imprevedibile e irripetibile. Se potessimo riavvolgere il film della vita riportandolo sino al tempo lontano degli organismi di Burgess, la probabilità che dal replay venisse fuori qualcosa di simile all’intelligenza umana è trascurabilmente piccola.”[1] Mentre ci intratteniamo piacevolmente sulla complessità non sarebbe inutile articolare una discussione sulle complessità.
E' necessario sottolineare un aspetto squisitamente culturale, molti organismi presentano organi estremamente complessi e questi attirano la nostra attenzione, anche scientifica, ma vi sono anche migliaia di esempi di organi e di specie dove la regressione dalla complessità (apparente? anche questo dovrebbe porre degli interrogativi), anziché la progressione, rappresenta il filo conduttore dell’evoluzione, parola estremamente insidiosa e che Darwin nelle prime edizioni dell’Origine non usò mai.
E’ innegabile ed evidente l’aumento di complessità che vediamo confrontando le altre specie e la specie umana ed è corretto interpretare le “capacità elaborative” nel contesto del “vantaggio evolutivo” ma dire che “la selezione e il vantaggio evolutivo progrediscono attraverso specie sempre più elaborative” significa affermare in nuce che un tipo di complessità (linguaggio, mentalismo) ha qualcosa di inevitabile nel contesto della selezione delle specie e in particolare dell’uomo. E' un salto insostenibile almeno dal punto di vista scientifico, ma è utile sottolineare l’importanza del metodo storico che grandi evoluzionisti come Ernst Mayr e Stephen Jay Gould riconoscono per capire l’evoluzione.
E’ indiscutibile l’enorme livello di complessità della mente umana, ma da qui a ripristinare un programma adattamentista dell’evoluzione ponendone al centro le capacità mentali è compito non privo di insidie. Qual è la necessità di ricorrere a infondate frecce del tempo per sostenere le responsabilità dell’uomo nella natura?
L’uomo volente o nolente ha capacità di esperire e conoscere, dicevo nella precedente nota, e questo è dovuto probabilmente a una natura naturans di spinoziana memoria ma “non credere affatto alla passività della materia” non autorizza ad affermarne l’attività intenzionale. Forse abbiamo bisogno di altre categorie.
[1] S.J. Gould, La vita meravigliosa. Feltrinelli, 1990, p. 10.
giovedì 27 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (43)]
Il percorso che Valerio Tonini[1] definisce per recuperare una ratio cognoscendi che passi attraverso il principio di coniugazione tra i paradigmi esplicativi della realtà (determinista, probabilista, indeterminista, informazionale) per arrivare a una metafisica del dover essere ha molti punti di interesse.
Sono convinto che sia necessario superare, se non altro operativamente, la differenza tra osservatore e realtà osservata. Perché è necessario? Per fuggire da una visione deresponsabilizzante del conoscere e in fin dei conti del vivere. In qualche modo l’uomo ha creato la sua realtà e ne è responsabile, non può, in alcun modo, sottrarsi a questa responsabilità. Non è più tempo di dilaniarsi in ontologie dualistiche dove spirito e materia si contendono il primato. La nostra realtà è intrisa dell’una e dell’altra che reciprocamente si influenzano per definire livelli di organizzazione complessi. Il livello di organizzazione che abbiamo raggiunto ci assegna un ruolo non più demandabile… né al cielo né al denaro, per parafrasare Edgar Lee Masters.
Non mi convince, tuttavia, l’interpretazione finalistica di Tonini in relazione alle capacità conoscitive dell’uomo. L’autore si chiede (pag. 115) “come da un universo senza memoria può insorgere un mondo dotato di memoria, il mondo della vita?” Evocare “la categoria della finalità” (presente esclusivamente nell’umanità per ammissione dello stesso Tonini) per dare una risposta a questa domanda mi pare decisamente arduo sia sotto il profilo logico che sotto il profilo storico. Francamente non sono tanto sicuro che tale categoria possa rappresentare il raggiungimento di un qualche vertice organizzativo.
L’umanità non è affatto “frutto di una evoluzione cosmica” ma uno dei risultati di una evoluzione biologica che si è giocata in una fetta molto piccola di universo, non so se insignificante, ma decisamente molto piccola. Noi umani, non tutti per fortuna, leggiamo l’evoluzione come un processo dotato di una direzione perché piace vederci al termine di un percorso organizzativo, ma nulla autorizza l’uomo a pensare che l’inevitabile (sicuramente non necessario ma anche sull’inevitabilità andrei cauto) risultato di un processo evolutivo sia questo livello di organizzazione raggiunto che tra le sue proprietà (non finalità) ha la autoconsapevolezza. Possiamo apprezzare la Divina Commedia ma il Big Beng non è avvenuto perché venisse scritta. Il fatto che la categoria della finalità sia presente esclusivamente nell’umanità non ne consente l’utilizzo per interpretare i processi di cui l’uomo è il risultato. Infatti è necessario tenere bene in considerazione che in termini di radiazione spaziale e temporale delle specie viventi sulla terra l’umanità rappresenta una porzione ridicolmente piccola e che quei processi di organizzazione che avrebbero portato all’uomo sono gli stessi che portano (contemporaneamente) a migliaia di altre specie che nulla si chiedono (apparentemente).
Si può discutere dell'opportunità operativa di una impostazione finalistica ma non di una finalità a priori, sia pure non prevedibile, che sarebbe intrinsecamente presente nel processo evolutivo dei sistemi organizzati. L’uomo, volente o nolente, ha capacità di esperire e conoscere, è l’unica specie in grado di modificare pesantemente e velocemente l’ambiente che abita, ha costellato di significati noumenici la sua realtà, riconosce la “inderogabile necessità di un procedere insieme”…ecc. ecc. In base a questi indiscutibili presupposti emerge la categoria di una finalità sopraggiunta come elemento fondativo della responsabilità che l’uomo deve assumersi nei confronti della sua stessa specie e delle altre forme viventi. Tuttavia il pensiero di Tonini non è completamente avulso da logiche teleonomiche (pag. 112) che non siano definite sul solo terreno dell'etica e che lasciano adito a pensare a una qualche forma di teleologia epurata. Se la teleonomia è la capacità degli organismi di trasmettere le loro invarianze strutturali (nel senso inteso da Monod) ed è “ristretta esclusivamente a elencare i fini che strutture e attività biologiche soddisfano di fatto”[2], allora non c'è niente da obiettare ma se rappresenta l’uso di fini come spiegazioni causali dei fenomeni o serve per inquadrare la natura umana in un processo dotato di una qualche direzionalità (sarebbe interessante capire quanto reale e quanto percepita da Homo sapiens) allora è inaccettabile.
Detto questo, è di notevole interesse la necessità di riconoscere una “istanza etica” dell’umanità perseguita da Tonini, tuttavia anche in questo campo è necessario saper rifuggire “velleità unitarie” che in nome di un ecumenismo culturale rischiano di tradursi in veri e propri etnocidi. Il contributo di Tonini a superare inutili e infondate antinomie tra natura e spirito si inserisce in un contesto necessario a evitare “la decadenza anarchica di un pensiero cosiddetto debole”, stabilendo legami tra conoscenza, natura biologica ed etica (Logos, Bios ed Ethos direbbero i filosofi) che sono imprescindibili per la realizzazione di una condizione consapevole e responsabile del vivere.
[1] V. Tonini, Corpo e anima. Dall’epistemologia scientifica all’ermeneutica di ciò che è simbolo, Valerio Levi Editore, 1987.
[2] P.B. Medawar e J.S. Medawar, Da Aristotele a zoo, dizionario filosofico di biologia. Mondadori, 1986.
Sono convinto che sia necessario superare, se non altro operativamente, la differenza tra osservatore e realtà osservata. Perché è necessario? Per fuggire da una visione deresponsabilizzante del conoscere e in fin dei conti del vivere. In qualche modo l’uomo ha creato la sua realtà e ne è responsabile, non può, in alcun modo, sottrarsi a questa responsabilità. Non è più tempo di dilaniarsi in ontologie dualistiche dove spirito e materia si contendono il primato. La nostra realtà è intrisa dell’una e dell’altra che reciprocamente si influenzano per definire livelli di organizzazione complessi. Il livello di organizzazione che abbiamo raggiunto ci assegna un ruolo non più demandabile… né al cielo né al denaro, per parafrasare Edgar Lee Masters.
Non mi convince, tuttavia, l’interpretazione finalistica di Tonini in relazione alle capacità conoscitive dell’uomo. L’autore si chiede (pag. 115) “come da un universo senza memoria può insorgere un mondo dotato di memoria, il mondo della vita?” Evocare “la categoria della finalità” (presente esclusivamente nell’umanità per ammissione dello stesso Tonini) per dare una risposta a questa domanda mi pare decisamente arduo sia sotto il profilo logico che sotto il profilo storico. Francamente non sono tanto sicuro che tale categoria possa rappresentare il raggiungimento di un qualche vertice organizzativo.
L’umanità non è affatto “frutto di una evoluzione cosmica” ma uno dei risultati di una evoluzione biologica che si è giocata in una fetta molto piccola di universo, non so se insignificante, ma decisamente molto piccola. Noi umani, non tutti per fortuna, leggiamo l’evoluzione come un processo dotato di una direzione perché piace vederci al termine di un percorso organizzativo, ma nulla autorizza l’uomo a pensare che l’inevitabile (sicuramente non necessario ma anche sull’inevitabilità andrei cauto) risultato di un processo evolutivo sia questo livello di organizzazione raggiunto che tra le sue proprietà (non finalità) ha la autoconsapevolezza. Possiamo apprezzare la Divina Commedia ma il Big Beng non è avvenuto perché venisse scritta. Il fatto che la categoria della finalità sia presente esclusivamente nell’umanità non ne consente l’utilizzo per interpretare i processi di cui l’uomo è il risultato. Infatti è necessario tenere bene in considerazione che in termini di radiazione spaziale e temporale delle specie viventi sulla terra l’umanità rappresenta una porzione ridicolmente piccola e che quei processi di organizzazione che avrebbero portato all’uomo sono gli stessi che portano (contemporaneamente) a migliaia di altre specie che nulla si chiedono (apparentemente).
Si può discutere dell'opportunità operativa di una impostazione finalistica ma non di una finalità a priori, sia pure non prevedibile, che sarebbe intrinsecamente presente nel processo evolutivo dei sistemi organizzati. L’uomo, volente o nolente, ha capacità di esperire e conoscere, è l’unica specie in grado di modificare pesantemente e velocemente l’ambiente che abita, ha costellato di significati noumenici la sua realtà, riconosce la “inderogabile necessità di un procedere insieme”…ecc. ecc. In base a questi indiscutibili presupposti emerge la categoria di una finalità sopraggiunta come elemento fondativo della responsabilità che l’uomo deve assumersi nei confronti della sua stessa specie e delle altre forme viventi. Tuttavia il pensiero di Tonini non è completamente avulso da logiche teleonomiche (pag. 112) che non siano definite sul solo terreno dell'etica e che lasciano adito a pensare a una qualche forma di teleologia epurata. Se la teleonomia è la capacità degli organismi di trasmettere le loro invarianze strutturali (nel senso inteso da Monod) ed è “ristretta esclusivamente a elencare i fini che strutture e attività biologiche soddisfano di fatto”[2], allora non c'è niente da obiettare ma se rappresenta l’uso di fini come spiegazioni causali dei fenomeni o serve per inquadrare la natura umana in un processo dotato di una qualche direzionalità (sarebbe interessante capire quanto reale e quanto percepita da Homo sapiens) allora è inaccettabile.
Detto questo, è di notevole interesse la necessità di riconoscere una “istanza etica” dell’umanità perseguita da Tonini, tuttavia anche in questo campo è necessario saper rifuggire “velleità unitarie” che in nome di un ecumenismo culturale rischiano di tradursi in veri e propri etnocidi. Il contributo di Tonini a superare inutili e infondate antinomie tra natura e spirito si inserisce in un contesto necessario a evitare “la decadenza anarchica di un pensiero cosiddetto debole”, stabilendo legami tra conoscenza, natura biologica ed etica (Logos, Bios ed Ethos direbbero i filosofi) che sono imprescindibili per la realizzazione di una condizione consapevole e responsabile del vivere.
[1] V. Tonini, Corpo e anima. Dall’epistemologia scientifica all’ermeneutica di ciò che è simbolo, Valerio Levi Editore, 1987.
[2] P.B. Medawar e J.S. Medawar, Da Aristotele a zoo, dizionario filosofico di biologia. Mondadori, 1986.
mercoledì 26 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (42)]
Quando pensiamo che c'è gente con speranza di vita breve in attesa di trapianto, che ci sono bambini che non faranno in tempo ad arrivare al seno delle proprie madri, che ci sono persone che non possono avere il lusso di spogliarsi dei loro averi perché non li hanno mai avuti, che ci sono bambini che imbracciano fucili veri anziché giocattoli, che ci sono adulti che abusano di bambini e prepotenti di tutti i tipi che soverchiano deboli di tutti i tipi, non facciamoci traviare da queste apparenze e pensiamo alle cose veramente serie come all'esistenza dell'inferno! Senza questo assillo saremmo rimasti per sempre all'ombra di quei pensieri che distraggono la nostra mente e che sembrano importanti e invece sono solo le manifestazioni del peccato. Dobbiamo essere grati ai poveri e senza speranza che ci danno l’opportunità di guadagnare il paradiso, per cui non possiamo sprecare queste occasioni preparate per noi cattolici, apostolici, romani, bianchi e maschi da Dio in persona!
martedì 25 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (41)]
I mutamenti sociali si sviluppano per una serie di fortuite circostanze o in seguito a manipolazioni più o meno intenzionali e solitamente si diffondono con processi di contagio collettivo, poi, sempre per eventi più o meno fortunosi, possono persistere o scomparire, se persistono e coinvolgono un discreto numero di persone allora, con l'opportuno criterio organizzativo degli intellettuali, divengono rivoluzioni culturali!
lunedì 24 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (40)]
Il filosofo Dario Antiseri si chiede se relativismo, nichilismo e individualismo siano manifestazioni fisiologiche o patologiche dell’Europa[1]. In quelle che solitamente vengono presentate come le piaghe dell’occidente Antiseri vede ciò che ha costruito un’Europa aperta al pluralismo dei valori, consapevole dell’assenza di senso assoluto che è sorgente di tolleranza, e dove l’individuo libero, cosciente e responsabile ha il primato rispetto allo Stato.
Antiseri riconosce nel concetto di individuo le radici cristiane dell’Europa. Indubbiamente il concetto di individuo sorge con il cristianesimo ed è innegabile che l’individuo, manifestazione di una libera coscienza, si oppone allo Stato totalitario e totalizzante. Il filosofo ci guida per le vie di un pensiero debole che apre alla fede, riconoscendo l’infondabilità di questa. Le motivazioni del suo pensiero sono convincenti, a differenza di quanti, dietro il paravento del pensiero forte e degli abiti papali, nascondono solo un’adolescenziale arroganza. Se il concetto di individuo, di matrice cristiana, fonda un’Europa dalle radici cristiane è cosa che va considerata sul serio. A mio avviso manca una precisazione di non poco conto per avere un quadro completo della faccenda, ovvero se insieme all’individuo doveva nascere anche il cittadino perché l’Europa, così come la conosciamo, prendesse forma. Se aveva ragione Rousseau[2] ad affermare che “il cristiano è un cattivo cittadino” perché incurante dei problemi terreni, e Agostino che invocava la subordinazione della città terrena a quella divina[3] mi pare difficile riconoscere un diritto di paternità dell’Europa solo sulla base del riconoscimento dell’individuo. Il cristianesimo ha creato l’individuo ma non lo ha concepito per le cose terrene, ma allora l’Europa non sarà mica il regno dei cieli? Nonostante la rivoluzione francese manca ancora un discorso sul cittadino.
[1] Dario Antiseri, Relativismo, nichilismo, individualismo. Fisiologia o patologia dell’Europa? Rubbettino, 2005.
[2] J. J. Rousseau, Del contratto sociale o principi del diritto politico, Libro IV, cap. VII, xxx
[3] Agostino di Tagaste, La città di Dio, Rusconi, Milano, 1984.
Antiseri riconosce nel concetto di individuo le radici cristiane dell’Europa. Indubbiamente il concetto di individuo sorge con il cristianesimo ed è innegabile che l’individuo, manifestazione di una libera coscienza, si oppone allo Stato totalitario e totalizzante. Il filosofo ci guida per le vie di un pensiero debole che apre alla fede, riconoscendo l’infondabilità di questa. Le motivazioni del suo pensiero sono convincenti, a differenza di quanti, dietro il paravento del pensiero forte e degli abiti papali, nascondono solo un’adolescenziale arroganza. Se il concetto di individuo, di matrice cristiana, fonda un’Europa dalle radici cristiane è cosa che va considerata sul serio. A mio avviso manca una precisazione di non poco conto per avere un quadro completo della faccenda, ovvero se insieme all’individuo doveva nascere anche il cittadino perché l’Europa, così come la conosciamo, prendesse forma. Se aveva ragione Rousseau[2] ad affermare che “il cristiano è un cattivo cittadino” perché incurante dei problemi terreni, e Agostino che invocava la subordinazione della città terrena a quella divina[3] mi pare difficile riconoscere un diritto di paternità dell’Europa solo sulla base del riconoscimento dell’individuo. Il cristianesimo ha creato l’individuo ma non lo ha concepito per le cose terrene, ma allora l’Europa non sarà mica il regno dei cieli? Nonostante la rivoluzione francese manca ancora un discorso sul cittadino.
[1] Dario Antiseri, Relativismo, nichilismo, individualismo. Fisiologia o patologia dell’Europa? Rubbettino, 2005.
[2] J. J. Rousseau, Del contratto sociale o principi del diritto politico, Libro IV, cap. VII, xxx
[3] Agostino di Tagaste, La città di Dio, Rusconi, Milano, 1984.
domenica 23 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (39)]
Lucio Russo[1] ha retrodatato la rivoluzione scientifica al periodo ellenistico che va dal III secolo a.C. alla conquista romana dell’Egitto nel 31 a.C. A personaggi come Euclide, Archimede, Aristarco di Samo, Erone di Alessandria, Erofilo, Crisippo di Soli e altri va il merito della fondazione di quel metodo ipotetico-deduttivo e sperimentale che solitamente è attribuito ai filosofi rinascimentali. La ricostruzione di Russo ci parla di un rigore metodologico e di un progresso scientifico e tecnologico che, andati perduti con la conquista romana, sono rimasti ignorati per secoli o al più sottovalutati nella loro veste mitica. In realtà i riconosciuti padri della scienza come Newton, Keplero, Galileo e Cartesio mossero i primi passi attingendo dalle fonti ellenistiche ma non potevano fare altro inquadrarne i contenuti “in schemi generali estranei, tratti dalla teologia e dalla filosofia naturale”[2]. La capacità dei pensatori ellenistici di riconoscere nelle loro proposizioni un modello della realtà e la necessità di stabilire delle connessioni attraverso il modello e la realtà non sopravvisse alle vicissitudini della storia.
Secondo Russo l’errore fondamentale dei moderni pensatori, che si è trascinato fino all’inizio del XX secolo, è dovuto alla confusione tra gli oggetti teorici e gli oggetti concreti. “In particolare la microfisica si rivelò non descrivibile con la teoria scientifica della meccanica classica, i suoi fenomeni non essendo descrivibili né con la meccanica corpuscolare né con quella ondulatoria. […] Invece di proporre una terza teoria scientifica, scienziati come de Broglie e Bohr enunciarono infatti il ‘dualismo onda-corpuscolo’ e il ‘principio di complementarietà’. Di fronte all’inapplicabilità di due teorie incompatibili tra loro, una cultura che confondeva ancora gli enti della teoria con gli oggetti reali trovò normale attribuire alla natura la contraddittorietà della propria scienza.”[3] In termini generali, dalle parole di Russo si può riconoscere nella scienza moderna fino ai primi anni del secolo scorso l’assenza di una chiara distinzione tra aspetti epistemici e ontologici. Con la meccanica quantistica la confusione tra la dimensione ontologica e quella epistemica, ovvero tra la realtà oggettiva e le difficoltà di misurazione, ha lasciato l’ambito strettamente scientifico rimanendo comunque inalterata negli altri ambiti della cultura[4].
I fenomeni quantistici e il principio di indeterminazione di Heisenberg, infatti, sono indebitamente chiamati in causa per scrollarsi di dosso quel determinismo scientifico che veniva e viene confuso con il fatalismo. La libertà è il gran desiderio dell’uomo e pur di vederlo esaudito sarebbe in grado di scambiare il macroscopico cervello che gli si è organizzato sul collo nel corso dell’evoluzione con una microscopica particella del mondo subatomico. Se il periodo ellenistico non avesse subito un arresto forse non avremmo bisogno di tali scambi per essere liberi, ma questo non possiamo saperlo.
[1] Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Feltrinelli, 2006.
[2] Op. cit., pag. 446.
[3] Op. cit., pag. 457.
[4] F. De Martini, Il mondo oggettivo della meccanica quantistica e le leggende dell’ermeneutica, MicroMega, 2/2007, p. 151-162.
Secondo Russo l’errore fondamentale dei moderni pensatori, che si è trascinato fino all’inizio del XX secolo, è dovuto alla confusione tra gli oggetti teorici e gli oggetti concreti. “In particolare la microfisica si rivelò non descrivibile con la teoria scientifica della meccanica classica, i suoi fenomeni non essendo descrivibili né con la meccanica corpuscolare né con quella ondulatoria. […] Invece di proporre una terza teoria scientifica, scienziati come de Broglie e Bohr enunciarono infatti il ‘dualismo onda-corpuscolo’ e il ‘principio di complementarietà’. Di fronte all’inapplicabilità di due teorie incompatibili tra loro, una cultura che confondeva ancora gli enti della teoria con gli oggetti reali trovò normale attribuire alla natura la contraddittorietà della propria scienza.”[3] In termini generali, dalle parole di Russo si può riconoscere nella scienza moderna fino ai primi anni del secolo scorso l’assenza di una chiara distinzione tra aspetti epistemici e ontologici. Con la meccanica quantistica la confusione tra la dimensione ontologica e quella epistemica, ovvero tra la realtà oggettiva e le difficoltà di misurazione, ha lasciato l’ambito strettamente scientifico rimanendo comunque inalterata negli altri ambiti della cultura[4].
I fenomeni quantistici e il principio di indeterminazione di Heisenberg, infatti, sono indebitamente chiamati in causa per scrollarsi di dosso quel determinismo scientifico che veniva e viene confuso con il fatalismo. La libertà è il gran desiderio dell’uomo e pur di vederlo esaudito sarebbe in grado di scambiare il macroscopico cervello che gli si è organizzato sul collo nel corso dell’evoluzione con una microscopica particella del mondo subatomico. Se il periodo ellenistico non avesse subito un arresto forse non avremmo bisogno di tali scambi per essere liberi, ma questo non possiamo saperlo.
[1] Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Feltrinelli, 2006.
[2] Op. cit., pag. 446.
[3] Op. cit., pag. 457.
[4] F. De Martini, Il mondo oggettivo della meccanica quantistica e le leggende dell’ermeneutica, MicroMega, 2/2007, p. 151-162.
sabato 22 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (38)]
“A distinguere l’uomo di scienza non è ciò che crede, ma come e perché lo crede. Le sue teorie sono dei tentativi, non dei dogmi; sono basate su delle prove, non sull’autorità o sull’intuizione.”[1] Secondo Bertrand Russell non è importante l’oggetto ma il metodo. Il credere a qualcosa non è in discussione, in quanto atto originale dell’attenzione non presenta possibili alternative, si tratta di una scelta in fin dei conti infondabile.
La scienza è un metodo che presuppone una buona dose di umiltà e una spiccata capacità di confessare a sé stessi di aver sbagliato, precetti solitamente avocati da sedicenti spiriti ecumenici e scarsamente scientifici. La scienza sa di doversi accontentare di risultati non definitivi[2], non c’è spazio per l’infallibilità, neanche ex cattedra. Ciò che non risponde a questi criteri non è scienza ma frustrazione curata da trasfigurazioni del potere, che tra le sue forme non ignora né quella dello scienziato né quella del pastore d’anime.
[1] B. Russell, Storia della filosofia occidentale, Mondadori, 1984. p. 506.
[2] Karl R. Popper, Scienza e filosofia. Problemi e scopi della scienza, Einaudi, Torino, 1991.
La scienza è un metodo che presuppone una buona dose di umiltà e una spiccata capacità di confessare a sé stessi di aver sbagliato, precetti solitamente avocati da sedicenti spiriti ecumenici e scarsamente scientifici. La scienza sa di doversi accontentare di risultati non definitivi[2], non c’è spazio per l’infallibilità, neanche ex cattedra. Ciò che non risponde a questi criteri non è scienza ma frustrazione curata da trasfigurazioni del potere, che tra le sue forme non ignora né quella dello scienziato né quella del pastore d’anime.
[1] B. Russell, Storia della filosofia occidentale, Mondadori, 1984. p. 506.
[2] Karl R. Popper, Scienza e filosofia. Problemi e scopi della scienza, Einaudi, Torino, 1991.
venerdì 21 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (37)]
Spesso la complessità dell’universo e in particolare della mente umana è posta a premessa della inevitabile assegnazione di ruoli morali e cognitivi perché l’universo veda sé stesso[1]. Al di là della facile confusione tra la nostra vanità e quella dell’universo mi pare che l’organizzazione possa essere più elegantemente, oltre che più coraggiosamente, concepita come un fardello dell’evoluzione dei sistemi complessi, biologici e non. Una volta imboccata una “biforcazione” (a decidere è la contingenza, non solo il fantomatico caso) se ne configurano altre possibili, mentre per altre si perde completamente e per sempre la possibilità che siano percorse. L’evoluzione dell’uomo, di cui andiamo così fieri, è storia di occasioni mancate, è storia di strade obbligate e svincoli imprevisti, anche di “scelte” sbagliate. Se l’universo voleva farsi guardare o meno questo non lo so dire, ma è certo che adesso non manco di dare una sbirciatina davanti a uno specchio, come è certo che non posso essere certo che lo avrei fatto se milioni di anni fa la savana non avesse preso il posto della foresta.
[1] Jean Guitton, Grichka Bogdanof, Igor Bogdanof, Dio e la scienza. Verso il metarealismo, Bompiani, 1994.
[1] Jean Guitton, Grichka Bogdanof, Igor Bogdanof, Dio e la scienza. Verso il metarealismo, Bompiani, 1994.
giovedì 20 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (36)]
Onfray e il “Trattato di ateologia”[1]. Per un ateo è fin troppo facile trovare accordo con la tesi dell’ateologo, l’accordo sarebbe peraltro più facile se questi non fosse così arrabbiato, astioso, distruttivo e la sua tesi suscettibile di alcune domande decisamente inquietanti. Indubbiamente in nome di Dio sono stati compiuti orrori indicibili (e ancora se ne compiranno), ma sono anche state compiute le opere più sublimi. Mentre scrivo ascolto la corale di Beethoven, il coro nell’inno finale canterà (in tedesco naturalmente): “Intuisci il tuo creatore, mondo? / Cercalo sopra il cielo stellato! / Sopra le stelle deve abitare.”
Se per un Beethoven sulla terra occorrono non uno ma cento déi, sono pronto a crearli io stesso. Onfray nel suo testo appassionato fa sorgere domande che atterriscono, mi parla della ragione e della riflessione correttamente guidate[2], da chi? qualcosa da guidare presuppone un guidatore, non si può tralasciare questo dettaglio logico, che risenta in fin dei conti anche lui di un’influenza ebraico-cristiana? Propone una definizione di intelligenza che mi fa orrore perché descrive la ragione! (“capacità di legare ciò che a priori, e per lo più, viene considerato slegato.”[3]) E poi, in definitiva se gli uomini creano “un dio a loro immagine: violento, geloso….”[4] , cosa fa pensare a Onfray che l’eliminazione di Dio cambierà la loro natura?
E’ allora? O, come diceva qualcuno che potrebbe portar male citare, “che fare?” … diciamolo in silenzio, in tanto vuoto ontologico, un banale ossimoro potrò permettermelo. Nel vissuto di molti uomini c’è un Dio, o più di uno, vero o finto che sia a qualcosa servirà, a qualche esigenza darà risposta?! Bene, allora parliamo di quelle domande, magari senza invocare Dio ma neanche la Dea-Ragione.
Inevitabilmente per farlo è necessario “costruire” un significato e per farlo è utile sia la filosofia hic et nunc cara a Onfray quanto a me, sia le immense cattedrali del pensiero che il filosofo francese dice invivibili. In effetti io non abiterei mai a Notre Dams, troppo fredda, ma non penso che Parigi sarebbe meglio senza.
[1] Michel Onfray, Trattato di ateologia, Fazi Editore, 2005.
[2] Op. cit., p. 20.
[3] Op. cit., p. 73.
[4] Op. cit., p. 71.
Se per un Beethoven sulla terra occorrono non uno ma cento déi, sono pronto a crearli io stesso. Onfray nel suo testo appassionato fa sorgere domande che atterriscono, mi parla della ragione e della riflessione correttamente guidate[2], da chi? qualcosa da guidare presuppone un guidatore, non si può tralasciare questo dettaglio logico, che risenta in fin dei conti anche lui di un’influenza ebraico-cristiana? Propone una definizione di intelligenza che mi fa orrore perché descrive la ragione! (“capacità di legare ciò che a priori, e per lo più, viene considerato slegato.”[3]) E poi, in definitiva se gli uomini creano “un dio a loro immagine: violento, geloso….”[4] , cosa fa pensare a Onfray che l’eliminazione di Dio cambierà la loro natura?
E’ allora? O, come diceva qualcuno che potrebbe portar male citare, “che fare?” … diciamolo in silenzio, in tanto vuoto ontologico, un banale ossimoro potrò permettermelo. Nel vissuto di molti uomini c’è un Dio, o più di uno, vero o finto che sia a qualcosa servirà, a qualche esigenza darà risposta?! Bene, allora parliamo di quelle domande, magari senza invocare Dio ma neanche la Dea-Ragione.
Inevitabilmente per farlo è necessario “costruire” un significato e per farlo è utile sia la filosofia hic et nunc cara a Onfray quanto a me, sia le immense cattedrali del pensiero che il filosofo francese dice invivibili. In effetti io non abiterei mai a Notre Dams, troppo fredda, ma non penso che Parigi sarebbe meglio senza.
[1] Michel Onfray, Trattato di ateologia, Fazi Editore, 2005.
[2] Op. cit., p. 20.
[3] Op. cit., p. 73.
[4] Op. cit., p. 71.
mercoledì 19 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (35)]
Quando ascolto un pezzo musicale al quale il mio orecchio è educato ne apprezzo le diverse sfumature, distinguo facilmente la lunghezza e il colore delle note e la distanza tra un suono e l’altro è musica essa stessa. Quando ascolto un genere musicale che mi è estraneo faccio fatica a distinguere un brano dall’altro. Per chi non ha paura dell’empirismo non è una novità che le capacità di discernere i diversi aspetti della realtà siano costruite attraverso l’esperienza e che la regolazione fine del nostro apparato percettivo sia il risultato dell’interazione biunivoca tra noi e l’ambiente in cui viviamo. Se questo è l’aspetto di microscala delle nostre percezioni che si sviluppa nell’arco di una vita non vi sono validi motivi per pensare che gli schemi percettivi non siano analoghi a macroscala, avvero nel contesto della sviluppo della sfera percettiva della specie umana. Questo gli antropologi lo hanno ampiamente dimostrato per le diverse popolazioni umane.
La capacità di distinguere i vari aspetti della realtà e la necessità o il bisogno di creare schemi di uniformità attraverso un processo di semplificazione, sono indissolubilmente legati alla facoltà di penetrare a fondo le faccende umane. L’uomo occidentale, lungi dal farsi sopraffare dalla straordinaria diversità degli uomini, li leva verso un modello, ovviamente altisonante, fatto di grandi eventi e di grandi uomini e nel processo di adeguamento tra le persone e il modello, solitamente sono le persone a perire.
E’ davvero inquietante riconoscere il possibile parallelismo tra lo schema di uniformità che emerge da una tale operazione di semplificazione e l’uniformità che emerge dall’incapacità di distinguere gli enti con cui abbiamo a che fare.
La capacità di distinguere i vari aspetti della realtà e la necessità o il bisogno di creare schemi di uniformità attraverso un processo di semplificazione, sono indissolubilmente legati alla facoltà di penetrare a fondo le faccende umane. L’uomo occidentale, lungi dal farsi sopraffare dalla straordinaria diversità degli uomini, li leva verso un modello, ovviamente altisonante, fatto di grandi eventi e di grandi uomini e nel processo di adeguamento tra le persone e il modello, solitamente sono le persone a perire.
E’ davvero inquietante riconoscere il possibile parallelismo tra lo schema di uniformità che emerge da una tale operazione di semplificazione e l’uniformità che emerge dall’incapacità di distinguere gli enti con cui abbiamo a che fare.
martedì 18 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (34)]
Le città europee hanno un loro carattere, ognuna ha proprie caratteristiche che non appartengono ad altre. Ma dentro ogni città si apre un magma indistinto che sono le strade commerciali. Questi ghetti della libertà, dove ogni riferimento è uguale ovunque nel mondo e dove ognuno può sentirsi a casa propria solo perché non è effettivamente da nessuna parte, sono il pegno che l’Europa paga per la sua storia, per il suo pensiero, per le sue guerre. Dal pensiero unico alle insegne di Mc Donald e Coca Cola, il cammino è stato lungo e la stanchezza è più che evidente.
lunedì 17 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (33)]
Per anni il mito della spiegazione ultima della natura umana ha trovato rifugio tra le pieghe del DNA e il numero di geni avrebbe celebrato il trionfo della specie umana sugli altri organismi. Dopo la colossale impresa del progetto genoma che si proponeva la mappatura completa del genoma umano è risultato che abbiamo circa 32.000 geni, un numero di geni non eccessivamente maggiore di quello posseduto dalla modesta erba di senape (circa 26.000)[1]. Come afferma il genetista Lewontin “la cosa più comica nel sequenziamento del genoma umano è che il risultato non fornisce risposta alla questione principale che aveva spinto a intraprendere il progetto. Ora che abbiamo la sequenza completa del genoma umano, appunto, non sappiamo nulla di più di quanto non sapessimo su che cosa è essere uomini.” La conquista più ironica del progetto genoma è stata l’idea dell’insufficienza genica, in altre parole abbiamo pochi geni per spiegare la complessità del comportamento umano! E se il numero dei geni fosse proprio quello giusto? E se la complessità umana non fosse dovuta ai geni o per lo meno solo ai geni? Con buona pace di James Watson l’intelligenza, dei neri come dei bianchi, è sovraordinata rispetto ai geni. Di un’opera d’arte vogliamo conoscere tutto, ma quando ne godiamo esteticamente difficilmente ci chiediamo qualcosa sui suoi atomi. Watson ha dato un impulso eccezionale alla biologia contemporanea (sicuramente grazie al fondamentale e ignorato contributo di Rosaline Franklin) ma le sue dichiarazioni sull’inferiorità dei neri africani e americani che il genoma rivelerebbe dimostrano la natura proteiforme di ciò che chiamiamo intelligenza e spesso un grande scienziato non dispone di tutte le forme auspicabili.
[1] Richard Lewontin, Il sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza, Ed. Laterza, 2000, p. 149-156.
[1] Richard Lewontin, Il sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza, Ed. Laterza, 2000, p. 149-156.
domenica 16 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (32)]
Robert Sapolsky ha individuato nel comportamento schizotipico la possibile evoluzione dello sciamanesimo. Sapolsky ha ipotizzato in sostanza un nesso tra l’insorgenza dei rituali religiosi tribali e la schizofrenia nelle popolazioni umane.[1]
Non ho elementi per entrare nel merito di questa ipotesi per quel che concerne il sentimento religioso ma sarebbe interessante indagare a fondo e senza preconcetti l’eventualità di un nesso tra la peculiarità umana e quella che definiamo schizofrenia. L’uomo, a differenza di altri animali, si astrae dal proprio io, si proietta fuori da sé e progetta il proprio futuro, comunica attraverso trasposizioni simboliche. Queste alte manifestazioni dello ‘spirito’, certamente nelle forme degenerate, potrebbero essere alla base della dissociazione della vita psichica così tipica dell’uomo.
Dopo la rivoluzione darwiniana sarebbe davvero sorprendente scoprire che le scimmie da cui discendiamo oltre ad essere pelose erano pure psicolabili!
[1] Cit. in Paul Ehrlich, Le nature umane, Codice Edizioni, 2005, p. 269.
Non ho elementi per entrare nel merito di questa ipotesi per quel che concerne il sentimento religioso ma sarebbe interessante indagare a fondo e senza preconcetti l’eventualità di un nesso tra la peculiarità umana e quella che definiamo schizofrenia. L’uomo, a differenza di altri animali, si astrae dal proprio io, si proietta fuori da sé e progetta il proprio futuro, comunica attraverso trasposizioni simboliche. Queste alte manifestazioni dello ‘spirito’, certamente nelle forme degenerate, potrebbero essere alla base della dissociazione della vita psichica così tipica dell’uomo.
Dopo la rivoluzione darwiniana sarebbe davvero sorprendente scoprire che le scimmie da cui discendiamo oltre ad essere pelose erano pure psicolabili!
[1] Cit. in Paul Ehrlich, Le nature umane, Codice Edizioni, 2005, p. 269.
sabato 15 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (31)]
[La nota è stata scritta prima del gran rifiuto] Qualche tempo fa Papa Benedetto XVI ha pronunciato parole davvero importanti in nome di un maggior rispetto per l’ambiente che ci ospita, più recentemente ha fatto sentire la sua voce di condanna nei confronti della precarietà del lavoro che non rende possibile lo sviluppo di una progettualità umana. E’ davvero apprezzabile che un papa così impegnato sul fronte della dottrina teologica cominci a dare segnali della sua preoccupazione a proposito di materie sacre.
Nel dubbio che il discorso papale non fosse compreso pienamente monsignor Bagnasco ne ha dato delucidazione qualche giorno dopo: “la Chiesa ribadisce il diritto al lavoro stabile, sicuro e dignitoso, come premessa alla formazione di una famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna.” La sacralità dell’essere umano in quanto persona e membro di una comunità è sicuramente un argomento di enorme complessità, adesso abbiamo capito!
Nel dubbio che il discorso papale non fosse compreso pienamente monsignor Bagnasco ne ha dato delucidazione qualche giorno dopo: “la Chiesa ribadisce il diritto al lavoro stabile, sicuro e dignitoso, come premessa alla formazione di una famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna.” La sacralità dell’essere umano in quanto persona e membro di una comunità è sicuramente un argomento di enorme complessità, adesso abbiamo capito!
venerdì 14 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (30)]
Gli studi di antropologi come Franz Boas e, successivamente, Melville Herskovitz, Marshall Sahlins, hanno messo in luce come la realtà possa essere variamente percepita nelle diverse culture etniche e hanno reso noto come le facoltà percettive degli esseri umani siano modellate nel contesto ambientale e sociale da cui provengono ed in cui vivono. La celeberrima ipotesi di Sapir-Whorf, nota come ipotesi della relatività linguistica, ci spiega come la rappresentazione del mondo dipenda dalle categorie linguistiche della propria lingua. I biologi Jacob von Uexküll e Ludwig von Bertalanffy hanno rivolto la loro attenzione alla relatività biologica stabilendo i possibili nessi tra esigenze evolutive, categorie percettive e organizzazione del mondo degli organismi viventi rendendo evidente che “ogni organismo ritaglia, per così dire, un piccolo numero di caratteristiche dalla molteplicità degli oggetti circostanti, e reagisce solo a queste, il cui insieme forma il suo ambiente”.[1]
Questi concetti sono nati in occidente e sono figli della filosofia storicistica di Dilthey e dell’ombra lunga di Kant privata del suo apriorismo. Ad un giudizio superficiale non sembrerebbe che gli autori che hanno rivolto la loro attenzione al concetto del relativismo avessero in mente di dare ospitalità al più inquietante degli ospiti, come Nietzsche chiamava il nichilismo. Sempre ad un rapido sguardo appare evidente che a un certo punto l’occidente, dall’incontro con altre culture o dalla riflessione sulla varietà dei fenomeni naturali, prende atto della differenza tra realtà e rappresentazione, delle differenti rappresentazioni e produce una forma di pensiero che, per comprendere la componente individuale (unica, irriducibile) del divenire storico deve sacrificare la pretesa di validità universale e atemporale dei propri schemi percettivi e interpretativi. L’osservazione della varietà della natura, delle culture umane e delle relative esperienze di vita ha condotto a una lettura plastica della realtà storicamente costruita che da un lato libera dalla tirannia delle visioni del mondo e dall’altro consente il dialogo tra le diverse culture. Da queste grossolane osservazioni si direbbe che in un contesto relativista si ha la possibile coesistenza di più verità e non la negazione di una verità, risultato abbastanza paradossale considerando l’odierno dibattito sul relativismo, troppo incline a confonderlo con un nichilismo celebrativo del nulla che, nonostante le numerose attribuzioni di paternità, Nietzsche non ha mai concepito.
In nome dell’inscindibilità tra cultura cristiana e cultura occidentale si potrebbe persino supporre che il nichilismo occidentale sia l’inevitabile disorientamento di fronte al fallimento della fede occidentale nello sviluppo lineare della propria tradizione ma queste sono considerazioni superficiali e chi è abituato a pensare profondamente, magari ispirato da enti superiori, scorge ciò che noi non possiamo vedere!
[1] Ludwig von Bertalanffy, Teoria Generale dei Sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni. 1983, Mondadori, p. 344-345.
Questi concetti sono nati in occidente e sono figli della filosofia storicistica di Dilthey e dell’ombra lunga di Kant privata del suo apriorismo. Ad un giudizio superficiale non sembrerebbe che gli autori che hanno rivolto la loro attenzione al concetto del relativismo avessero in mente di dare ospitalità al più inquietante degli ospiti, come Nietzsche chiamava il nichilismo. Sempre ad un rapido sguardo appare evidente che a un certo punto l’occidente, dall’incontro con altre culture o dalla riflessione sulla varietà dei fenomeni naturali, prende atto della differenza tra realtà e rappresentazione, delle differenti rappresentazioni e produce una forma di pensiero che, per comprendere la componente individuale (unica, irriducibile) del divenire storico deve sacrificare la pretesa di validità universale e atemporale dei propri schemi percettivi e interpretativi. L’osservazione della varietà della natura, delle culture umane e delle relative esperienze di vita ha condotto a una lettura plastica della realtà storicamente costruita che da un lato libera dalla tirannia delle visioni del mondo e dall’altro consente il dialogo tra le diverse culture. Da queste grossolane osservazioni si direbbe che in un contesto relativista si ha la possibile coesistenza di più verità e non la negazione di una verità, risultato abbastanza paradossale considerando l’odierno dibattito sul relativismo, troppo incline a confonderlo con un nichilismo celebrativo del nulla che, nonostante le numerose attribuzioni di paternità, Nietzsche non ha mai concepito.
In nome dell’inscindibilità tra cultura cristiana e cultura occidentale si potrebbe persino supporre che il nichilismo occidentale sia l’inevitabile disorientamento di fronte al fallimento della fede occidentale nello sviluppo lineare della propria tradizione ma queste sono considerazioni superficiali e chi è abituato a pensare profondamente, magari ispirato da enti superiori, scorge ciò che noi non possiamo vedere!
[1] Ludwig von Bertalanffy, Teoria Generale dei Sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni. 1983, Mondadori, p. 344-345.
giovedì 13 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (29)]
Si suppone che la vita si sia originata da molecole capaci di autoreplicazione. In particolare si pensa ad una molecola molto simile a ciò che costituisce il nostro codice genetico. Naturalmente ci sono numerosi elementi che suffragano tale ipotesi e sebbene in questa materia sia difficile parlare di prove decisive l’ipotesi ha dato origine a numerose supposizioni riguardo il ruolo determinante dei geni nel comportamento. Il gene egoista di Dawkins è la metafora più nota per esprimere il ruolo preponderante dei geni nel nostro destino. Io non ho nulla contro i miei geni, con loro ho un buon rapporto, ma sinceramente troverei abbastanza strano, dal punto di vista evolutivo, che qualcuno di loro stia sintetizzando una proteina per alterare i processi di conduzione elettrica tra diverse migliaia di neuroni al fine di suscitare un dubbio sulla loro effettiva capacità di regolare le mie interazioni con l’ambiente che mi circonda!
In verità sappiamo poco delle origini di questo grandioso incidente che chiamiamo vita, magari agli albori la vita è stato qualcosa di instabile e aleatorio che si è successivamente organizzato in una struttura che ne congelasse e riproducesse le funzioni fondamentali. Potrebbe essere divertente pensare che in origine una molecola capace di produrre copie di sé sia stata cooptata da qualcos’altro, chissà forse qualcosa di simile a una proteina, uno zucchero o, dio ce ne liberi un acido grasso!
Forse sarebbe utile cominciare a vedere il codice genetico come una sorta di promemoria per le funzioni dell’organismo più che come il dominatore del destino. L’autoreplicazione è sicuramente fondamentale ma una proprietà della vita non va confusa con la vita stessa.
In verità sappiamo poco delle origini di questo grandioso incidente che chiamiamo vita, magari agli albori la vita è stato qualcosa di instabile e aleatorio che si è successivamente organizzato in una struttura che ne congelasse e riproducesse le funzioni fondamentali. Potrebbe essere divertente pensare che in origine una molecola capace di produrre copie di sé sia stata cooptata da qualcos’altro, chissà forse qualcosa di simile a una proteina, uno zucchero o, dio ce ne liberi un acido grasso!
Forse sarebbe utile cominciare a vedere il codice genetico come una sorta di promemoria per le funzioni dell’organismo più che come il dominatore del destino. L’autoreplicazione è sicuramente fondamentale ma una proprietà della vita non va confusa con la vita stessa.
mercoledì 12 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (28)]
Del nostro distinguerci dal mondo animale si è scritto tanto, ragione e istinto si contrappongono fieramente in questo quadro della storia umana come fieri avversari, elaborata trasfigurazione esterna dell’altra dicotomia tutta interiore tra mente e corpo. Lungi dall’essere considerati facce diverse di una stessa natura il ricorso al salto ontologico aiuta anche a ben figurare nelle capriole fenomeniche.
Nella contesa ragione/istinto, specchio alterato della contesa uomo/animale dove si difendono i più beceri desideri di autoesaltazione, la ragione veste gli abiti dell’altera dea che tutto misura, mentre l’istinto è il bruto demone che brama unicamente alla soddisfazione dei propri bisogni vitali primari. Ma se l’istinto definisce una serie di schemi d’azione innati caratterizzati da un certo automatismo che non dipende da esperienze passate, allora dobbiamo chiederci quale sia la base della nostra innata assuefazione ai più svariati stimoli ambientali che si manifestano con una frequenza più lenta delle nostre capacità di risposta. Non sarà questo la manifestazione di un congelamento dell’instabilità comportamentale, elaborata con quello che chiamiamo ragione, verso un più sicuro comportamento istintuale? La ragione è sicuramente gran cosa, tuttavia troppo faticosa per essere sempre desta.
La nostra ragione è molto simile a quella di un gruppo di turisti in un autobus lanciato a folle corsa e che precipita in un burrone, ogni secondo che passa prima dell’impatto qualcuno dice “finora tutto bene”!
Nella contesa ragione/istinto, specchio alterato della contesa uomo/animale dove si difendono i più beceri desideri di autoesaltazione, la ragione veste gli abiti dell’altera dea che tutto misura, mentre l’istinto è il bruto demone che brama unicamente alla soddisfazione dei propri bisogni vitali primari. Ma se l’istinto definisce una serie di schemi d’azione innati caratterizzati da un certo automatismo che non dipende da esperienze passate, allora dobbiamo chiederci quale sia la base della nostra innata assuefazione ai più svariati stimoli ambientali che si manifestano con una frequenza più lenta delle nostre capacità di risposta. Non sarà questo la manifestazione di un congelamento dell’instabilità comportamentale, elaborata con quello che chiamiamo ragione, verso un più sicuro comportamento istintuale? La ragione è sicuramente gran cosa, tuttavia troppo faticosa per essere sempre desta.
La nostra ragione è molto simile a quella di un gruppo di turisti in un autobus lanciato a folle corsa e che precipita in un burrone, ogni secondo che passa prima dell’impatto qualcuno dice “finora tutto bene”!
martedì 11 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (27)]
L’uomo, come qualunque altro organismo, è adattato a vivere in contesti ambientali che in maniera ciclica e ricorsiva hanno determinato il suo sviluppo e sono stati a loro volta determinati dallo sviluppo della specie umana così come di altre specie. Per quanto Homo sapiens sia una specie estremamente versatile in virtù di una maggiore capacità cognitiva e di una maggiore plasticità delle risposte adattative rispetto ad altre specie non è privo di vincoli naturali alla propria organizzazione.
Uno degli aspetti maggiormente riconosciuti della natura umana, fin da Aristotele, è la sua socialità. L’uomo è fuor di dubbio un animale sociale in senso ecologico, ovviamente senza considerazioni di carattere etico. Non importa la qualità della società umana, importa solo che si tratti di una società, anche se non è più solo un gruppo. Ad ogni modo prima di invocare l’etica sociale sono da considerare aspetti che ritengo primari, di natura biologica sebbene tenuti in gran conto anche dagli urbanisti, ovvero la dimensione delle società umana o più precisamente la dimensione ottimale dello spazio all’interno del quale si realizzano le interazioni tra gli individui con maggiore frequenza e di maggiore intensità[1]. In natura il progressivo addensamento di organismi nello stesso spazio è foriero di grosse perturbazioni nelle dinamiche popolazionistiche e per quanto il sistema sociale umano si sia dotato di numerosi sistemi di compensazione, di carattere etico appunto, per evitare gravi disordini non è difficile osservare lo stato di sofferenza degli abitanti di grossi centri urbani, sia per quanto concerne gli aspetti ambientali ma ancor più gli aspetti prettamente sociali.
L’uomo è un animale sociale ma la sua capacità di gestire l’organizzazione sociale e la sua complessità ha un limite, non si tratta di una gestione puramente amministrativa, che pure è un parametro di notevole importanza, ma della gestione delle proprie emozioni, delle reazioni agli eventi e delle capacità cognitive che fanno capo a un processo di sistematizzazione delle esperienze e di disposizione ordinata e ragionevole delle priorità nei valori della propria esistenza. La salute della complessità organizzata nelle grandi città è un fenomeno di mesoscala ma a scale più fini c'è il tripudio del dolore. Come in un bicchiere d’acqua le molecole gli individui costituiscono entità con oscillazioni caotiche che collettivamente si smorzano, è questo l’ordine che vediamo ma se ambiamo a quell’unicità tra le specie viventi che tanto declamiamo non dobbiamo essere fisici che osservano il bicchiere d’acqua ma il diavolo di Maxwell che sa discernere tra le particelle.
La complessità, ultima frontiera dell’orgoglio sapiens, non ha un limite se non nella capacità dell’uomo di districarsi tra i nodi del grafo sociale che da sé ha creato, forse in maniera inconsapevole.
[1] In base agli studi sul comportamento sociale dei primati, lo psicologo Robin Dumbar e l’antropologo Leslie Aiello hanno stabilito che fra i primi Homo sapiens i gruppi contavano da 90 a 220 individui, in cui ogni individuo conosce tutti gli altri. Tali studi, condotti nel contesto dell’evoluzione del linguaggio e delle prime comunità di raccoglitori-cacciatori, hanno implicazioni riguardo all’organizzazione delle comunità umane odierne caratterizzate da notevoli dimensioni. Considerando la gran quantità di generazioni in cui i nostri antenati sono stati cacciatori-raccoglitori (circa 250.000), rispetto ai primi segni di una organizzazione sociale moderna (circa 400 generazioni dalla rivoluzione agricola di 10.000 anni fa) l’evoluzionista Ehrlich afferma che “è sensato presumere che qualunque sia il grado in cui l’evoluzione genetica ha modellato l’umanità, è stato in larga misura per adattarla alle attività di caccia e raccolta: lo stile di vita dei nostri antenati pre-agricoli”. (Cfr. Paul Ehrlich, Le nature umane, Codice Edizioni, 2005, p. 193, 205, 214-215).
Uno degli aspetti maggiormente riconosciuti della natura umana, fin da Aristotele, è la sua socialità. L’uomo è fuor di dubbio un animale sociale in senso ecologico, ovviamente senza considerazioni di carattere etico. Non importa la qualità della società umana, importa solo che si tratti di una società, anche se non è più solo un gruppo. Ad ogni modo prima di invocare l’etica sociale sono da considerare aspetti che ritengo primari, di natura biologica sebbene tenuti in gran conto anche dagli urbanisti, ovvero la dimensione delle società umana o più precisamente la dimensione ottimale dello spazio all’interno del quale si realizzano le interazioni tra gli individui con maggiore frequenza e di maggiore intensità[1]. In natura il progressivo addensamento di organismi nello stesso spazio è foriero di grosse perturbazioni nelle dinamiche popolazionistiche e per quanto il sistema sociale umano si sia dotato di numerosi sistemi di compensazione, di carattere etico appunto, per evitare gravi disordini non è difficile osservare lo stato di sofferenza degli abitanti di grossi centri urbani, sia per quanto concerne gli aspetti ambientali ma ancor più gli aspetti prettamente sociali.
L’uomo è un animale sociale ma la sua capacità di gestire l’organizzazione sociale e la sua complessità ha un limite, non si tratta di una gestione puramente amministrativa, che pure è un parametro di notevole importanza, ma della gestione delle proprie emozioni, delle reazioni agli eventi e delle capacità cognitive che fanno capo a un processo di sistematizzazione delle esperienze e di disposizione ordinata e ragionevole delle priorità nei valori della propria esistenza. La salute della complessità organizzata nelle grandi città è un fenomeno di mesoscala ma a scale più fini c'è il tripudio del dolore. Come in un bicchiere d’acqua le molecole gli individui costituiscono entità con oscillazioni caotiche che collettivamente si smorzano, è questo l’ordine che vediamo ma se ambiamo a quell’unicità tra le specie viventi che tanto declamiamo non dobbiamo essere fisici che osservano il bicchiere d’acqua ma il diavolo di Maxwell che sa discernere tra le particelle.
La complessità, ultima frontiera dell’orgoglio sapiens, non ha un limite se non nella capacità dell’uomo di districarsi tra i nodi del grafo sociale che da sé ha creato, forse in maniera inconsapevole.
[1] In base agli studi sul comportamento sociale dei primati, lo psicologo Robin Dumbar e l’antropologo Leslie Aiello hanno stabilito che fra i primi Homo sapiens i gruppi contavano da 90 a 220 individui, in cui ogni individuo conosce tutti gli altri. Tali studi, condotti nel contesto dell’evoluzione del linguaggio e delle prime comunità di raccoglitori-cacciatori, hanno implicazioni riguardo all’organizzazione delle comunità umane odierne caratterizzate da notevoli dimensioni. Considerando la gran quantità di generazioni in cui i nostri antenati sono stati cacciatori-raccoglitori (circa 250.000), rispetto ai primi segni di una organizzazione sociale moderna (circa 400 generazioni dalla rivoluzione agricola di 10.000 anni fa) l’evoluzionista Ehrlich afferma che “è sensato presumere che qualunque sia il grado in cui l’evoluzione genetica ha modellato l’umanità, è stato in larga misura per adattarla alle attività di caccia e raccolta: lo stile di vita dei nostri antenati pre-agricoli”. (Cfr. Paul Ehrlich, Le nature umane, Codice Edizioni, 2005, p. 193, 205, 214-215).
lunedì 10 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (26)]
Diverso tempo fa leggevo da qualche parte il lamento di uno scienziato evoluzionista che notava come molte persone sentano la difficoltà di discutere della relatività di Einstein eppure si sentono competenti in materia di evoluzione delle specie e in particolare dell’evoluzione della specie umana. La materia dell’evoluzione pone l’uomo di fronte alla sua natura storicamente determinata e questo mette in discussione il tema della sua posizione in natura e della sua supposta inevitabilità ontologica. Disgraziatamente l’assunto centrale della teoria della selezione naturale è l’assenza di direzione dei fenomeni evolutivi e questo vale ancor di più per le mutazioni, la deriva genetica e altri processi che hanno arricchito la teoria darwiniana. Nessun argomento può essere ragionevolmente formulato intorno all’inevitabilità dell’uomo.
Gli argomenti per contrastare l’evoluzione umana fanno ricorso alla perfezione della creazione, dimenticando il mal di schiena e non considerando affatto le possibili alternative che non si sono manifestate. L’altro cavallo di battaglia, cavalcato quasi sempre a sproposito, è il cosiddetto mentalismo della natura umana, in opposizione alla natura istintuale degli animali. Ma a tal proposito se la mente sia proprio questa gran cosa io ho un paio di brevi considerazioni da fare, naturalmente dal punto di vista evoluzionistico. Si discute di una possibile derivazione neotenica della specie umana dai suoi progenitori scimmieschi, ossia un generalizzato “ritardo dello sviluppo degli organismi tale per cui i discendenti adulti somigliano ad uno stadio giovanile del progenitore.”[1] Già Kant rilevava come, rispetto agli altri animali, per l’uomo “la natura si sia compiaciuta della sua massima economia”, perché “libero da istinti” non può partecipare ad altra libertà se non a quella costruita con la sola ragione[2]. Perentorio, come al solito, Nietzsche riconosceva l’incompiutezza dell’uomo, rara eccezione, rispetto al resto del mondo animale[3]. Più recentemente Schrödinger ci ha detto che la coscienza può ragionevolmente essere considerata come un segno del mancato raggiungimento della fantomatica perfezione nel controllo automatico della conoscenza necessaria per la sopravvivenza che è tipica degli istinti animali[4]. Galimberti ha reso chiaro come la tecnica, uno dei principali prodotti della mente, possa essere intesa come l’escogitazione umana per compensare la propria incompiutezza[5].
Ora, siccome è abbastanza sterile parlare della mente senza pensare a tutti i suoi prodotti mi pare evidente che a fronte delle grandi conquiste della mente vi siano anche alcune evidenze decisamente insidiose per la stessa sopravvivenza della specie umana. Non sarà da indagare se questa mente non sia un precoce tentativo di una specie ancora in formazione senza alcuna garanzia che si tratti del migliore tentativo che l’evoluzione abbia escogitato?
[1] N. Eldredge, La vita sulla terra – Un’enciclopedia della biodiversità, dell’ecologia e dell’evoluzione.Codice Edizioni, 2002, p. 390.
[2] I. Kant, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, cit. in U. Galimberti, Psiche e techne – L’uomo nell’età della tecnica. Feltrinelli, 2005, p. 91
[3] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire (1886), § 62. Newton Compton, Roma, 1988, p. 90.
[4] E. Schrödinger, Mente e materia, cit. in P. Odifreddi, Il Vangelo secondo la Scienza. Le religioni alla prova del nove, Einaudi, 1999, p 97.
[5] U. Galimberti, Psiche e techne – L’uomo nell’età della tecnica. Feltrinelli, 2005.
Gli argomenti per contrastare l’evoluzione umana fanno ricorso alla perfezione della creazione, dimenticando il mal di schiena e non considerando affatto le possibili alternative che non si sono manifestate. L’altro cavallo di battaglia, cavalcato quasi sempre a sproposito, è il cosiddetto mentalismo della natura umana, in opposizione alla natura istintuale degli animali. Ma a tal proposito se la mente sia proprio questa gran cosa io ho un paio di brevi considerazioni da fare, naturalmente dal punto di vista evoluzionistico. Si discute di una possibile derivazione neotenica della specie umana dai suoi progenitori scimmieschi, ossia un generalizzato “ritardo dello sviluppo degli organismi tale per cui i discendenti adulti somigliano ad uno stadio giovanile del progenitore.”[1] Già Kant rilevava come, rispetto agli altri animali, per l’uomo “la natura si sia compiaciuta della sua massima economia”, perché “libero da istinti” non può partecipare ad altra libertà se non a quella costruita con la sola ragione[2]. Perentorio, come al solito, Nietzsche riconosceva l’incompiutezza dell’uomo, rara eccezione, rispetto al resto del mondo animale[3]. Più recentemente Schrödinger ci ha detto che la coscienza può ragionevolmente essere considerata come un segno del mancato raggiungimento della fantomatica perfezione nel controllo automatico della conoscenza necessaria per la sopravvivenza che è tipica degli istinti animali[4]. Galimberti ha reso chiaro come la tecnica, uno dei principali prodotti della mente, possa essere intesa come l’escogitazione umana per compensare la propria incompiutezza[5].
Ora, siccome è abbastanza sterile parlare della mente senza pensare a tutti i suoi prodotti mi pare evidente che a fronte delle grandi conquiste della mente vi siano anche alcune evidenze decisamente insidiose per la stessa sopravvivenza della specie umana. Non sarà da indagare se questa mente non sia un precoce tentativo di una specie ancora in formazione senza alcuna garanzia che si tratti del migliore tentativo che l’evoluzione abbia escogitato?
[1] N. Eldredge, La vita sulla terra – Un’enciclopedia della biodiversità, dell’ecologia e dell’evoluzione.Codice Edizioni, 2002, p. 390.
[2] I. Kant, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, cit. in U. Galimberti, Psiche e techne – L’uomo nell’età della tecnica. Feltrinelli, 2005, p. 91
[3] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire (1886), § 62. Newton Compton, Roma, 1988, p. 90.
[4] E. Schrödinger, Mente e materia, cit. in P. Odifreddi, Il Vangelo secondo la Scienza. Le religioni alla prova del nove, Einaudi, 1999, p 97.
[5] U. Galimberti, Psiche e techne – L’uomo nell’età della tecnica. Feltrinelli, 2005.
domenica 9 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (25)]
Una lastra marmorea affissa sulle mura del castello di Manciano in memoria della costruzione dell’acquedotto di quel paese nel 1913 recita che al termine dell’impresa “fu pago l’anelito di più generazioni”. Robert Musil riconosceva nel 1922 che “la nostra è un’epoca di appagamento, e l’appagamento è sempre delusione. Le manca il desiderio, le manca qualcosa che non sia ancora in grado di fare. E questo le rode il cuore.”[1] Quella lastra a Manciano ricorda un’impresa che ha visto partecipare più persone e che è durata lungo tempo, tuttavia l’appagamento che evoca non ha nulla a che fare con quello menzionato da Musil, il grande scrittore guardava lontano ed evocava un appagamento troppo rapido per essere effettivamente goduto o anche ricordato, un appagamento che si consuma nella sua potenza di fare, prima di godere del compimento dell’opera. L’appagamento menzionato da Musil è quello dei numerosi posti visitati da me troppo in fretta per serbarne memoria, l’appagamento della lastra di Manciano è quello di mio nonno, carrettiere nel dopoguerra degli anni ’50 che mi raccontava dei più minuti dettagli delle strade percorse e dei paesini visitati con il suo mulo nel Salento. E’ fuor di dubbio che la vita oggi offre possibilità che non potevano essere immaginate dai contadini del dopoguerra ma, come ricorda Weber, “un contadino dei tempi antichi moriva “vecchio e sazio della vita” poiché si trovava in un ciclo organico della vita, poiché la sua vita, anche per quanto riguarda il suo senso, gli aveva portato alla sera del suo giorno ciò che poteva offrirgli, poiché per lui non rimanevano enigmi che desiderasse risolvere ed egli poteva perciò averne “abbastanza”. Ma un uomo civilizzato, il quale è inserito nel processo di progressivo arricchimento della civiltà in fatto di idee, di sapere, di problemi, può diventare sì “stanco della vita”, ma non sazio della vita.”[2]
Le strade percorse negli anni ‘50 oggi non ci sono più perché sono state trasformate dal progresso, le strade di oggi non ci saranno più perché nessuno le ricorderà come le ricordava mio nonno.
[1] R. Musil, L’Europa abbandonata a se stessa ovvero Viaggio di palo in frasca, 1922. In Sulla stupidità e altri scritti, Oscar Mondadori, 1986. p. 122.
[2] Max Weber, La scienza come professione, Mondadori, 2006, pp. 21-22.
Le strade percorse negli anni ‘50 oggi non ci sono più perché sono state trasformate dal progresso, le strade di oggi non ci saranno più perché nessuno le ricorderà come le ricordava mio nonno.
[1] R. Musil, L’Europa abbandonata a se stessa ovvero Viaggio di palo in frasca, 1922. In Sulla stupidità e altri scritti, Oscar Mondadori, 1986. p. 122.
[2] Max Weber, La scienza come professione, Mondadori, 2006, pp. 21-22.
sabato 8 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (24)]
Al determinismo del ‘600 e del ‘700 e al positivismo dell’800 la scienza del ‘900 ha contrapposto il probabilismo che risiede nell’incertezza della conoscenza, nella variabilità delle misure, nella contingenza della natura.
Nella loro storia scienza e teologia hanno spesso dialogato, a volte sottovoce a volte urlando e molte volte scambiandosi i ruoli. La scienza classica deterministica è stata fortemente osteggiata dalla teologia mentre la scienza del novecento si è spesso avvicinata agli argomenti della teologia, che tuttavia non può non avere nel determinismo più intransigente il suo nucleo originario. Evidentemente si tratta di un caso di competizione per la stessa preda, una dinamica di oscillazione smorzata che forse si concluderà con una equa spartizione delle spoglie della natura.
Nella loro storia scienza e teologia hanno spesso dialogato, a volte sottovoce a volte urlando e molte volte scambiandosi i ruoli. La scienza classica deterministica è stata fortemente osteggiata dalla teologia mentre la scienza del novecento si è spesso avvicinata agli argomenti della teologia, che tuttavia non può non avere nel determinismo più intransigente il suo nucleo originario. Evidentemente si tratta di un caso di competizione per la stessa preda, una dinamica di oscillazione smorzata che forse si concluderà con una equa spartizione delle spoglie della natura.
venerdì 7 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (23)]
Una vincita al lotto o al totocalcio o a qualsiasi altro gioco fa notizia, quasi come un delitto estivo. Nessuno mai parlerà con enfasi dei milioni di giocatori perdenti che proprio perdendo fanno il montepremi del vincente. Ovvio, mi si dirà, che non è la vincita a fare notizia ma l’eccezione in quanto strappo alla regola. Ma se l’eccezione conferma la regola, a maggior ragione dovrebbe confermare che la regola esiste e sia ben nota. Tuttavia ho qualche dubbio che la regola rimanga viva nella memoria quando il fatto eccezionale è l’unico ad avere voce e assume le caratteristiche del passaporto per la realtà.
Qualcuno, oggi, in preda al panico da progresso, potrebbe attribuire questo rovesciamento della realtà delle cose alla televisione o internet ma, senza confondere i sintomi con le cause, dovremmo riconoscere che l’attitudine di isolare fatti eccezionali per farne la regola non è mai mancata agli uomini, a meno che non si trovino testimonianze dell’insana passione per il televisore e i social già ai tempi di Machiavelli.
Le “gran cose” fatte da “grandi uomini” hanno fatto la storia ed è ormai estremamente difficile contestare tale assunto quanto non riconoscerne l’insidiosa analogia con il vincitore di turno a qualche gioco a premi e alla notorietà che gli è assicurata con la registrazione negli annali delle vincite. Naturalmente non basta una vincita al lotto per fare “gran cose” né per essere un “grand’uomo” ma il punto è nel rapporto tra vincitori e perdenti, quantitativamente a favore degli ultimi quanto qualitativamente a favore dei primi, non solo nel gioco a premi ma anche e soprattutto nella storia degli uomini.
Cosa sarebbe la storia senza gli stati d’animo e senza il morboso bisogno degli uomini di fuggire la mesta normalità del quotidiano? Confesso di non saperlo immaginare, ma c’è qualcosa di insidioso nell’idea di storia, ed è il concetto di flusso del tempo dotato di un verso e di un senso. Sicuramente mi manca l’occhio concettuale caro a Hegel o forse è solo un problema di miopia per cogliere la distanza storica ma, come affermava perentoriamente Robert Musil, “Ecco in che cosa consiste la famosa ‘distanza storica’: su cento fatti, novantacinque sono andati perduti, ragion per cui i superstiti possiamo ordinarli a nostro piacimento. E quei cinque fatti noi li guardiamo come una moda di vent’anni fa, o come una conversazione animata di cui ci sfuggono le parole: e in ciò si manifesta l’‘oggettività’.”[1]
La razionalità storica è l’accurata preparazione di ‘razioni’ di tempo che appagano il nostro appetito di cose facili abusando del concetto di necessità storica per gli eventi di cui andiamo fieri e rimuovendo quelli che meno si allineano ai nostri desideri ma “In due parole: ciò che chiamiamo ‘necessità storica’ non è, si sa, una necessità logica, nella quale ‘x’ implica ‘y’; ma è una necessità analoga a quella delle ‘cose’. Quando si dice: “da cosa nasce cosa”. Possono anche esservi implicazioni delle ‘leggi’ (per esempio il rapporto tra l’evoluzione spirituale e lo sviluppo economico; oppure il fattore prospettico nelle arti figurative); ma accanto ad esse c’è sempre qualcosa di unico e di irripetibile. E anche noi uomini, sia detto per inciso, siamo, almeno in parte, dei fatti ‘unici’”[2]. Come sosteneva Musil la storia ha i connotati di una “necessità senza legge”, anche se sospetto che nella storia dell’uomo si possa tranquillamente intravedere una sorta di equilibrio di risonanza con il concetto speculare di una legge senza necessità.
[1] R. Musil, L’Europa abbandonata a se stessa ovvero Viaggio di palo in frasca, 1922. In Sulla stupidità e altri scritti, Oscar Mondadori, 1986. p. 105-106.
[2] R. Musil, Op. cit., p. 107.
Qualcuno, oggi, in preda al panico da progresso, potrebbe attribuire questo rovesciamento della realtà delle cose alla televisione o internet ma, senza confondere i sintomi con le cause, dovremmo riconoscere che l’attitudine di isolare fatti eccezionali per farne la regola non è mai mancata agli uomini, a meno che non si trovino testimonianze dell’insana passione per il televisore e i social già ai tempi di Machiavelli.
Le “gran cose” fatte da “grandi uomini” hanno fatto la storia ed è ormai estremamente difficile contestare tale assunto quanto non riconoscerne l’insidiosa analogia con il vincitore di turno a qualche gioco a premi e alla notorietà che gli è assicurata con la registrazione negli annali delle vincite. Naturalmente non basta una vincita al lotto per fare “gran cose” né per essere un “grand’uomo” ma il punto è nel rapporto tra vincitori e perdenti, quantitativamente a favore degli ultimi quanto qualitativamente a favore dei primi, non solo nel gioco a premi ma anche e soprattutto nella storia degli uomini.
Cosa sarebbe la storia senza gli stati d’animo e senza il morboso bisogno degli uomini di fuggire la mesta normalità del quotidiano? Confesso di non saperlo immaginare, ma c’è qualcosa di insidioso nell’idea di storia, ed è il concetto di flusso del tempo dotato di un verso e di un senso. Sicuramente mi manca l’occhio concettuale caro a Hegel o forse è solo un problema di miopia per cogliere la distanza storica ma, come affermava perentoriamente Robert Musil, “Ecco in che cosa consiste la famosa ‘distanza storica’: su cento fatti, novantacinque sono andati perduti, ragion per cui i superstiti possiamo ordinarli a nostro piacimento. E quei cinque fatti noi li guardiamo come una moda di vent’anni fa, o come una conversazione animata di cui ci sfuggono le parole: e in ciò si manifesta l’‘oggettività’.”[1]
La razionalità storica è l’accurata preparazione di ‘razioni’ di tempo che appagano il nostro appetito di cose facili abusando del concetto di necessità storica per gli eventi di cui andiamo fieri e rimuovendo quelli che meno si allineano ai nostri desideri ma “In due parole: ciò che chiamiamo ‘necessità storica’ non è, si sa, una necessità logica, nella quale ‘x’ implica ‘y’; ma è una necessità analoga a quella delle ‘cose’. Quando si dice: “da cosa nasce cosa”. Possono anche esservi implicazioni delle ‘leggi’ (per esempio il rapporto tra l’evoluzione spirituale e lo sviluppo economico; oppure il fattore prospettico nelle arti figurative); ma accanto ad esse c’è sempre qualcosa di unico e di irripetibile. E anche noi uomini, sia detto per inciso, siamo, almeno in parte, dei fatti ‘unici’”[2]. Come sosteneva Musil la storia ha i connotati di una “necessità senza legge”, anche se sospetto che nella storia dell’uomo si possa tranquillamente intravedere una sorta di equilibrio di risonanza con il concetto speculare di una legge senza necessità.
[1] R. Musil, L’Europa abbandonata a se stessa ovvero Viaggio di palo in frasca, 1922. In Sulla stupidità e altri scritti, Oscar Mondadori, 1986. p. 105-106.
[2] R. Musil, Op. cit., p. 107.
giovedì 6 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (22)]
Si provi solo a immaginare cosa sarebbe stata l’umanità se Eva fosse stata affiancata da Prometeo, e non da Adamo che, diciamolo francamente, è un personaggio un po’ tonto oltre che indicibilmente vigliacco. L’uomo greco ruba il fuoco agli dei per donarlo agli uomini, quello biblico non ha nemmeno il coraggio di soggiacere da solo alle lusinghe del diavolo, si serve della donna per farlo.
mercoledì 5 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (21)]
Qualunque sistema di potere che presupponga la fissità del proprio ordinamento sopprime la libertà e per celare l’assassinio alza il vessillo dell’immortalità. In questo contesto è intellettualmente avvilente la supposizione di una inesistenza dell’etica laica e sono convinto che sia moralmente più impegnativa una coscienza etica laica di una coscienza etica religiosa. Il mio sospetto che l’uomo sia prevalentemente guidato nelle sue scelte da cose semplici e poco impegnative mi fa tuttavia pensare che il dibattito è dettato più dalla pigrizia intellettuale che dalla dialettica morale. L’inquietante “Se Dio non c’è allora tutto è possibile” di Dostojieski può essere letto anche nella sua forma speculare “Se Dio c’è allora nulla è possibile”, di fronte alla fissità del nulla l’etica laica deve saper evitare la fissità contraria e camuffata da movimento del tutto.
martedì 4 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (20)]
Nell’indagine antropologica condotta da Elias Canetti in Massa e potere emerge il drammatico rapporto tra il potere e la condizione della paranoia. “La morte quale minaccia è la moneta del potere”[1], se la morte è l’origine del potere, la massa ne è l’alimento e nelle sue disparate forme prende le sembianze dell’assurdo rimedio. Non diversamente dalle diverse forme di massa evocate da Canetti che trovano la loro antica unità nella muta di caccia, di guerra, del lamento e dell’accrescimento, nella massa dell’accrescimento e dell’accumulo, odierno sembiante della massa cullata dal mito della produzione, l’uomo celebra la morte sfuggendola. Günther Anders ha chiaramente rilevato questa duplice faccia della produzione quando a proposito dell’industria ha affermato che “la mortalità dei suoi figli è la garanzia della sua immortalità e della nostra.”[2] Nella sua opera, pubblicata nel 1960, Canetti dice che “ogni paese si mostra oggi più incline a proteggere la sua produzione che i suoi uomini. Nulla trova maggiori giustificazioni, nulla gode maggiormente dell’approvazione generale […] Negli incomprensibili estremi di annientamento e di produzione che caratterizzano la prima metà del nostro secolo, in questo duplice inesorabile accecamento che agisce oggi in una direzione, domani nell’altra, le religioni del lamento – nella misura in cui si sono conservate come organizzazioni – offrono un’immagine assolutamente miseranda. In ritardo o in anticipo, seppure con qualche eccezione, esse impartiscono la loro benedizione a tutto ciò che accade.”[3] Per Canetti l’eredità del Cristianesimo, da non sottovalutare, è nella legittimazione dell’indistruttibilità di ogni singolo uomo in vece di quella indistruttibilità di cui gode solo il potente, ma è forte il sospetto che in ciò che resta delle “agonizzanti religioni dell’amore”[4] l’antidoto al potere si sia mutato nel veleno e come un mitridatismo al rovescio abbia smesso di avere il suo originario effetto legittimando nelle masse non il rovesciamento del potere bensì l’originario bisogno di affidarsi al potere barattando la sicurezza con la libertà. La libertà chiede pegni difficili da sostenere e le insidie presenti sul suo cammino fanno paura quanto la morte. Dopotutto se la gente non chiede altro che giocare alla lippa, perché rischiare una rivoluzione in nome della libertà?
[1] E. Canetti, Massa e potere, Opere 1932-1973, Bompiani, 1990, p. 1557.
[2] G. Anders, L’uomo è antiquato, Vol. II, Bollati Boringhieri, 2007, p. 32.
[3] E. Canetti, Op. cit., p. 1552 e seguenti.
[4] E. Canetti, La provincia dell’uomo, Opere 1932-1973, Bompiani, 1990, p. 1631.
[1] E. Canetti, Massa e potere, Opere 1932-1973, Bompiani, 1990, p. 1557.
[2] G. Anders, L’uomo è antiquato, Vol. II, Bollati Boringhieri, 2007, p. 32.
[3] E. Canetti, Op. cit., p. 1552 e seguenti.
[4] E. Canetti, La provincia dell’uomo, Opere 1932-1973, Bompiani, 1990, p. 1631.
lunedì 3 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (19)]
Spesso il potere è considerato espressione di forza, non necessariamente bruta bensì modulata nelle varie forme politiche. Raramente si riflette però intorno al legame tra potere e potenza, in termini di possibilità da realizzare, non ancora evocate all’essere. Canetti opera una distinzione netta a tal proposito tra forza e potere considerando che “Alla parola forza si ricollega l’immagine di qualcosa di vicino e di presente: la forza è più pressante e immediata del potere”[1].
Il potere che si richiama esclusivamente alla forza non può che evocare la solidità del passato per giustificare la propria azione presente, risolvendosi troppo spesso nello stallo del presente, mentre il potere che è cosciente della potenza da realizzare guarda al futuro, a quel regno dell’incertezza dove nulla è ancora concreto.
Il potere, nell’accezione di possibilità, poiché risponde ai vincoli che gli sono dati, è più modesto e più prudente del dovere, non ha e non può avere la certezza del già stato ma il desiderio del non ancora. Il potere non implica che tutto sia possibile, ed è nel rispetto dei vincoli dati o nella capace sapienza di modificarli l’originale impresa del potere di realizzare la novità. Gli stessi vincoli, spogliati di ogni superfluo orpello, devono essere intersoggettivamente discussi e accettati e rimessi in continua discussione. Questo sforzo caratterizza la democrazia, “ombrello bucato” ma l’unico che possa dignitosamente riparare l’uomo dalla pioggia incessante. La democrazia genera stanchezza[2], per questo richiede forza e resistenza da parte di chi ne regge le sorti, essa muore dinanzi all’apatia morale come dinanzi all’autoritarismo morale.
E se è nel dialogo che il rispetto di sé, valore fondante della democrazia dice Zagrebelsky, trova il suo humus, non possono essere accettate confusioni, né in buona né in mala fede, tra quel relativismo che è padre dell’indifferenza e quel relativismo che è padre del pluralismo, si tratta di famiglie differenti la cui genealogia và continuamente rinfrescata. In un caso la verità non ha alcun valore, nell’altro le verità hanno il massimo valore e per questo chiedono e meritano rispetto.
Con troppa leggerezza l’indolenza del potere autoreferenziale invoca priorità per giustificare l’inazione di fronte alle (apparentemente) nuove domande sociali ma la faccenda della priorità è un costrutto ideologico che non ha alcun fondamento in un sistema diveniente dove le nuove istanze sociali raggiungono la maturità per essere affrontate dai soggetti che si sarebbero assunto il compito e il dovere di farlo, con la necessaria sensibilità per percepirle e le capacità intellettive per interpretarle. Ci saranno sempre tematiche di maggiore importanza rispetto ad altre, il nocciolo del problema non è cosa affrontare prima ma la distinzione tra amministrare e governare, tra potere-forza e potere-possibilità, tra passato e futuro.
[1] E. Canetti, Massa e potere, Opere 1932-1973, Bompiani, 1990, p. 1319.
[2] “La democrazia, come un lavoro, stanca. L’oppressione dispotica suscita reazione e ribellione. La democrazia invece stanchezza.”, Gustavo Zagrebelsky, Imparare Democrazia, Einaudi, 2007, p. 44.
Il potere che si richiama esclusivamente alla forza non può che evocare la solidità del passato per giustificare la propria azione presente, risolvendosi troppo spesso nello stallo del presente, mentre il potere che è cosciente della potenza da realizzare guarda al futuro, a quel regno dell’incertezza dove nulla è ancora concreto.
Il potere, nell’accezione di possibilità, poiché risponde ai vincoli che gli sono dati, è più modesto e più prudente del dovere, non ha e non può avere la certezza del già stato ma il desiderio del non ancora. Il potere non implica che tutto sia possibile, ed è nel rispetto dei vincoli dati o nella capace sapienza di modificarli l’originale impresa del potere di realizzare la novità. Gli stessi vincoli, spogliati di ogni superfluo orpello, devono essere intersoggettivamente discussi e accettati e rimessi in continua discussione. Questo sforzo caratterizza la democrazia, “ombrello bucato” ma l’unico che possa dignitosamente riparare l’uomo dalla pioggia incessante. La democrazia genera stanchezza[2], per questo richiede forza e resistenza da parte di chi ne regge le sorti, essa muore dinanzi all’apatia morale come dinanzi all’autoritarismo morale.
E se è nel dialogo che il rispetto di sé, valore fondante della democrazia dice Zagrebelsky, trova il suo humus, non possono essere accettate confusioni, né in buona né in mala fede, tra quel relativismo che è padre dell’indifferenza e quel relativismo che è padre del pluralismo, si tratta di famiglie differenti la cui genealogia và continuamente rinfrescata. In un caso la verità non ha alcun valore, nell’altro le verità hanno il massimo valore e per questo chiedono e meritano rispetto.
Con troppa leggerezza l’indolenza del potere autoreferenziale invoca priorità per giustificare l’inazione di fronte alle (apparentemente) nuove domande sociali ma la faccenda della priorità è un costrutto ideologico che non ha alcun fondamento in un sistema diveniente dove le nuove istanze sociali raggiungono la maturità per essere affrontate dai soggetti che si sarebbero assunto il compito e il dovere di farlo, con la necessaria sensibilità per percepirle e le capacità intellettive per interpretarle. Ci saranno sempre tematiche di maggiore importanza rispetto ad altre, il nocciolo del problema non è cosa affrontare prima ma la distinzione tra amministrare e governare, tra potere-forza e potere-possibilità, tra passato e futuro.
[1] E. Canetti, Massa e potere, Opere 1932-1973, Bompiani, 1990, p. 1319.
[2] “La democrazia, come un lavoro, stanca. L’oppressione dispotica suscita reazione e ribellione. La democrazia invece stanchezza.”, Gustavo Zagrebelsky, Imparare Democrazia, Einaudi, 2007, p. 44.
domenica 2 settembre 2018
La cattura del gatto [Note (18)]
Nel racconto di Isaac Asimov “Diritto di voto” , Norman Muller è l’unico cittadino della prima e più grande Democrazia Elettronica a essere selezionato dal computer Multivac per votare in nome di duecento milioni di abitanti. Il suo voto esprimerà quello della collettività attraverso l’accurato algoritmo di calcolo del potente supercomputer. Se ci sono buone ragioni per essere scettici sulla possibilità di una democrazia informatica ce ne sono altrettante per non scommettere sulla nostra storia futura. Probabilmente per diverso tempo i progressi nel campo dell’informatica non porteranno a una Democrazia Elettronica, ma ciò può essere anche dovuto all’impegno che si sta dedicando al materiale umano rendendolo accontentabile con una bottiglia di Coca-Cola e farlo accanire contro chi vuole un sorso d'acqua. Giustamente, i computer vengono dopo!
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