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martedì 23 giugno 2015

Laudato si'

Invito a leggere la Laudato si’ di Francesco, l’enciclica pubblicata pochi giorni fa, dedicata alla “cura della casa comune”. Ho pensato a lungo a cosa scrivere in questo post ma alla fine ho deciso che non scriverò nulla di quanto avevo pensato. Rimanderò ogni considerazione di dettaglio alla discussione che spero seguirà.
Qui dirò poche cose che ritengo essenziali.

Chi vede chiaramente la rottura degli equilibri naturali e sociali per le attività predatorie di un mercato avido e senza etica non può non rivolgere attenzione all'appello di Francesco a prendersi cura della casa comune. Il documento è una sintesi di ampio respiro in cui trovano spazio la promozione della democrazia diffusa, la tutela dei beni comuni, la lotta alle disuguaglianze economiche, alla crisi socio-ambientale, al riscaldamento globale, la protezione della biodiversità, la promozione dei valori urbani, la denuncia della piaga del precariato e dello sfruttamento dei lavoratori, il richiamo ad “accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo”. Tutti concetti di cui si è nutrito chi ha sensibilità ambientale e sociale. Tutti concetti per cui quelli come me si sono arrabbiati come cani vedendo l'indifferenza e la sufficienza con cui venivano scaricati da quelli che guidavano, guidano e purtroppo continueranno a guidare le sorti del pianeta (anche se spero di sbagliare). Non ci sono novità assolute nell'enciclica di Francesco ma non si può negare che si tratti di un lavoro di sintesi che merita riflessione, un atto politico di forza notevole anche per la risonanza planetaria che avrà il documento. Con qualche forzatura si può dire che le istanze ambientaliste e di giustizia sociale assumono dimensione (inter)nazionalpopolare! Chi ha a cuore quelle istanze dovrebbe essere contento di ritrovarle in una enciclica. Se questa enciclica cambierà il corso degli eventi è altro argomento. La denuncia del sistema economico che crea disuguaglianze era già nella Evangelii Gaudium di Francesco e la denuncia della dittatura del mercato era già arrivata, e anche piuttosto forte, con la Caritas in Veritate di Benedetto XVI. Era il 2009, le disuguaglianze continuano ad aumentate, le orgasmiche invocazioni di crescita economica si sono moltiplicate e se la Terra prende respiro è perché milioni di persone sono state lasciate senza lavoro e senza reddito! Il modello di sviluppo non è cambiato granché, forse perché la sete di accumulo e dominio non è una faccenda di “antropologia cristiana” male interpretata ma di antropologia senza alcun aggettivo che precipita nei dettami religiosi, nella tecnica, nell'economia, nella scienza, insomma dove è più comodo precipitare.

La Laudato si’ richiama alla cura della Terra, madre e casa comune per tutte le specie viventi, presenti e future. E’ un tema sul quale è necessario e auspicabile l’incontro di credenti e laici perché, dalla mia lettura, il rispetto della Terra e di chi la abita è un atteggiamento etico che conserva il suo valore etsi Deus non daretur (anche se Dio non fosse dato). Questo è il punto di forza del dialogo possibile e allo stesso modo il punto debole delle premesse dell’enciclica, almeno per un lettore laico. Sarebbe tuttavia assurdo, oltre che inutile, pretendere che una enciclica papale prescinda da premesse teologiche creaturali e da queste deduca conseguenze dottrinali (su interruzione di gravidanza, identità sessuale, famiglia tradizionale). Resta vero che nessun laico o non credente è tenuto ad accettare né le une né le altre e nessun cattolico (o membro di altre confessioni) ha il diritto di imporle ad altri. Vivere sulla Terra non è una faccenda di logica matematica in cui date premesse diverse si percorrono traiettorie logiche differenti per arrivare a conclusioni differenti. Curiosamente accade che si abbiano premesse differenti, che si arrivi a conclusioni differenti, eppure con traiettorie in buona parte identiche. Dovere dei viventi è percorrere la traiettoria comune. Il resto verrà.

martedì 16 giugno 2015

Quando la Storia eravamo noi

Una storia di donne e uomini dell'Italia contadina del dopoguerra. Si partiva dalle macerie e si arrivava, quando si arrivava, ad altre macerie. Povera gente che accoglieva i figli di povera gente.
Dove c'è da mangiare per uno c'è da mangiare per due, così si diceva un tempo e così ancora dice qualche anziano dalle mie parti. In molte case c'era poco da mangiare, in altre non ce n'era affatto. Chi aveva poco da mangiare non diceva a chi non aveva niente "aiutiamoli a casa loro". Ci si aiutava com'era possibile, appena possibile. Quando qualcuno ha bisogno di aiuto non c'è tempo per chiedere dov'è casa sua.

«Era l'inverno del 1945. L'Italia da nord a sud aveva sofferto per i bombardamenti, la miseria e per la violenza degli eserciti stranieri, nemici o alleati che fossero; un'Italia stremata, affamata, ma con un'incredibile voglia di rinascita e fame di futuro.
Era un'epoca di emergenze per far fronte alle quali, immediatamente dopo la Liberazione, in ogni città sorgevano comitati per risolvere i problemi contingenti come la distribuzione dei viveri, lo sgombero delle macerie belliche, la tutela dell'infanzia. Tanti infatti i bambini abbandonati a se stessi, orfani o, come in gran parte del meridione, residenti in zone distrutte dalle bombe, da calamità naturali, soggette ad epidemie, dove la fame e la disoccupazione erano quotidianità.
A Milano Teresa Noce, battagliera dirigente comunista e partigiana da poco rientrata dal campo di Ravensbrük, intuisce che solo un gesto di solidarietà può risolvere almeno temporaneamente la drammatica situazione di bisogno dei bambini. Con ciò che rimane dei Gruppi di difesa della donna, poi confluiti nella nascente Udi – Unione donne italiane, la Noce chiede ai compagni di Reggio Emilia, realtà prevalentemente agricola e quindi con maggiori risorse alimentari rispetto a Milano, di ospitare in quei mesi alcuni bambini.» (ANPI, 1946, i bimbi dei treni della felicità.)

E' la storia dei "treni della felicità". Un'iniziativa che nasce nei comitati comunisti, gli invisi comunisti, quelli che mangiavano i bambini! Una storia di donne soprattutto, di donne "che avevano tessuto la Resistenza e svezzato la Repubblica" (ANPI). Dall'indomani della Liberazione migliaia di bambini del centro-sud partiranno soprattutto per l'Emilia Romagna e Toscana, alcuni andranno in Liguria e nelle Marche.
Il 19 gennaio del 1946 parte il primo convoglio con 1.200 bambini. Migliaia di bambini partiranno fino al 1950. Alcune stime parlano di 70.000 bambini, altre di 100.000; vengono da Napoli, dalla Puglia, dalla Basilicata. Decine di migliaia di bambini furono ospitati dalla popolazione nel centro-nord grazie anche all'appoggio del PCI, dei CLN locali, delle sezioni ANPI, delle amministrazioni.

Questa era l'Italia contadina del dopoguerra. Guardatela oggi l'Italia. Guardiamoci oggi cosa siamo diventati.

Giovanni Rinaldi, I treni della felicità. Ediesse, 2009.
Alessandro Piva, Pasta nera. 2011 (film documentario).
Rai Storia, I treni della felicità, 2015 (documentario).

lunedì 8 giugno 2015

Più appelli per tutti!

In facebook leggo appelli con accostamenti piuttosto singolari. Contribuisco anch'io con un generatore automatico di appelli e petizioni ugualmente coerenti ma immuni dal virus fascista.
Aggiorna la pagina premendo F5 per leggere nuovi entusiasmanti appelli alle italiche genti.




venerdì 5 giugno 2015

I figli di Prometeo, pronipoti di Epimeteo

"Di tal rovina niun potria dei Numi
chiaro mostrargli, se non io, lo scampo.
Io questo, e il modo so.
"
Eschilo, Prometeo incatenato.

Il titano Prometeo che ruba il fuoco agli dèi per farne dono agli uomini è uno dei miti più fecondi della cultura classica. Tra i suoi molteplici significati il mito assume la forma di una metafora della condizione umana che cerca di liberarsi dai vincoli di anànke e riceve la nota punizione. Per la sua violazione Prometeo viene incatenato ai monti del Caucaso, un'aquila gli divorerà il fegato che ogni notte  ricrescerà per essere divorato ancora e ancora[1]. Prometeo portatore del fuoco della scienza e della tecnica paga il pegno della rottura della perenne e inviolabile necessità, pagherà a caro prezzo il tentativo di risolvere ciò che è insolubile persino per Zeus.

martedì 2 giugno 2015

Il lavoro della res publica

Vedete, colleghi, bisogna cercare di considerare questo nostro lavoro non come un lavoro di ordinaria amministrazione, come un lavoro provvisorio del quale ci si possa sbrigare alla meglio. Qui c'è l'impegno di tutto un popolo. Questo è veramente un momento solenne. Sento un certo ritegno, un certo pudore a pronunziare queste grandi parole: si fa presto a scivolare nella retorica. Eppure qui veramente c’è nelle cose questa solennità, e non si può non sentirla; questa solennità che non è fatta di frasi adorne, ma di semplicità, di serietà e di lealtà: soprattutto di lealtà.

Questo che noi facciamo è il lavoro che un popolo di lavoratori ci ha affidato, e bisogna sforzarci di portarlo a compimento meglio che si può, lealmente e seriamente. Non bisogna dire, come da qualcuno ho udito anche qui, che questa è una Costituzione provvisoria che durerà poco e che, di qui a poco, si dovrà rifare. No: questa dev'essere una Costituzione destinata a durare.

Dobbiamo volere che duri; metterci dentro la nostra volontà. In questa democrazia nascente dobbiamo crederci, e salvarla così con la nostra fede e non disperderla in schermaglie di politica spicciola e avvelenata.

Se noi siamo qui a parlare liberamente in quest'aula, in cui una sciagurata voce irrise e vilipese venticinque anni fa le istituzioni parlamentari, è perché per venti anni qualcuno ha continuato a credere nella democrazia, e questa sua religione ha testimoniato con la prigionia, l’esilio e la morte.

Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea Costituente: se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno, come sempre avviene che con l'andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda, che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani, fino al sacrificio di Anna Maria Enriquez e di Tina Lorenzoni, nelle quali l'eroismo è giunto alla soglia della santità.

Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all'Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile; quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore.

Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti.

Non dobbiamo tradirli.

Piero Calamandrei - Tratto da: Chiarezza nella costituzione, discorso pronunciato all’Assemblea costituente nella seduta del 4 marzo 1947.
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