L'articolo che segue è tratto integralmente da
La Stampa. Ritengo questa lettura un'analisi molto profonda della poetica di Saramago. Avevo bisogno di un rimedio efficace alla sporcizia che sono in grado di produrre i 'teologi' che vanno per la maggiore da qualche tempo in Italia.
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19/6/2010
Il Dio di Saramago, silenzio dell'universo
JUAN JOSÉ TAMAYO*
L’11 settembre del 2006, lo scrittore e premio Nobel José Saramago, la giornalista e traduttrice delle opere del romanziere portoghese, la pittrice Sofia Gandarias e io, camminavamo tutti insieme per le strade di Siviglia in direzione dell’Aula Magna dell’Università per partecipare ad un incontro sul Diálogo de Civilizaciones y Modernidad. Alle nove del mattino, mentre attraversavamo la piazza della Giralda, le campane della Cattedrale di Siviglia –antica moschea fatta costruire dal califfo almoravida Abu Ya’qub Yusuf- come impazzite, si misero a sonare a distesa. “Suonano le campane perché passa un teologo” disse Saramago con il suo solito senso dello humour. “No”, gli risposi a tono, “il suono di quelle campane annuncia che un ateo è in procinto di convertirsi al cristianesimo”. Durante quel breve dialogo, la risposta del romanziere portoghese non si fece attendere: “Questo mai. Ateo sono stato tutta la vita e continuerò ad esserlo nel futuro”. All’improvviso mi venne in mente una definizione poetica di Dio che senza un attimo di esitazione gli recitai: “Dio è il silenzio dell’universo, e l’essere umano il grido che dà un senso a tale silenzio”. “Questa definizione è mia” reagì all’istante il Premio Nobel. “Effettivamente, per questo l’ho citata” gli risposi. “E questa definizione si accosta più ad un mistico che ad un ateo”.
Per un teologo dogmatico, definire Dio come silenzio dell’universo forse è dire poco o non dire nulla. Per un teologo seguace delle mistiche e dei mistici giudaici, cristiani e musulmani (Pseudo- Dionigi l’Areopagita, Rabia al Adawiya di Bagdad, Abraham Abufalia, Algazel, Ibn al-Arabi, Rumi, Hadewijch di Anversa, Margherita Porete, Ildegarda di Bingen, Maestro Eckhardt, Giuliana de Norwich, Giovanni della Croce, Teresa di Gesù) e di laici quali Simone Weil, è più che sufficiente. Dire di più sarebbe una mancanza verso Dio, si creda o non si creda alla sua esistenza. “Se comprendi”, diceva Agostino d’Ippona, “non è Dio”. La definizione di Saramago è delle più belle. Meriterebbe di apparire tra le ventiquattro - e con essa venticinque – nel Libro dei ventiquattro filosofi (Adelphi, Milano 1999; Siruela, Madrid 2000), la cui paternità è attribuita a Ermete Trismegisto e che raccoglie le definizioni di ventiquattro saggi convenuti in un Simposio, il cui contenuto fu oggetto di un ampio dibattito tra filosofi e teologi durante il Medioevo.
La vita e l’opera di Saramago sono un’incessante lotta titanica con-contro Dio. Come lo era stata quella del Giobbe biblico – “il Prometeo ebreo” per Block – che maledice il giorno in cui nacque, prova ribrezzo della propria vita e ha l’audacia di domandare a Dio, con tono sfidante, perché lo assale con tanta violenza, perché lo opprime in modo così inumano e perché lo distrugge spietatamente (Giobbe, 10). O come il patriarca Giacobbe il quale passa un’intera notte a lottare al braccio di ferro con Dio e finisce con una lesione al nervo sciatico (Genesi, 32,23-33). Non è il caso di Saramago, il quale è uscito indenne dalle risse con Dio senza mai arrendersi. Al contrario, con i suoi 88 anni, continua ad interrogarsi e a domandare a teologi e credenti che diavolo mai sarà questo Dio che per esaltare Abele deve disprezzare Caino.
Il Nobel portoghese condivide con Nietzsche la parabola di Zarathustra e l’apologo del folle sulla morte di Dio e potrebbe forse sottoscrivere due delle affermazioni nietzschiane più provocatorie: “Dio è la nostra più lunga menzogna” e “Meglio nessun Dio! Meglio che ciascuno si faccia da solo il proprio cammino”. È probabile che coincida anche con Ernst Bloch in “il meglio della religione è che crea eretici” e in “solo un ateo può essere un buon cristiano, solo un cristiano può essere un buon ateo”.
Familiarizzato con la Bibbia, quella giudaica e quella cristiana, ricrea con umorismo - un umorismo iconoclasta del divino e destabilizzatore dell’umano – alcune sue figure più emblematiche e smentisce i racconti che, stando al dire di León Felipe, “hanno dondolato la culla dell’uomo” (sic). Lo fece ne Il vangelo secondo Gesù Cristo, romanzo che presenta Gesù di Nazareth come un uomo che vive, ama e muore come qualsiasi altra persona e che Dio sceglie come anello di un immenso movimento strategico e come vittima di un potere che lo trascende e al quale deve assoggettarsi.
Vi ritorna con il romanzo Caino nel quale ricrea, in ambito letterario e teologico, il mito biblico che trae le sue immagini dalle tradizioni più antiche sulle origini dell’umanità. La Bibbia presenta Caino, spinto dall’invidia, come l’assassino di suo fratello Abele e Dio come “saccentone”. Saramago inverte i ruoli del buono e del cattivo, dell’assassino e del giudice. Rende responsabile dio, il signore (sempre con la minuscola) della morte di Abele e lo accusa di risentimento, di arbitrarietà e di esasperare le persone. Caino uccide il fratello non per arbitrarietà bensì per legittima difesa, in quanto dio lo aveva declassato a vantaggio dell’altro. E lo uccide perché non può uccidere dio.
L’immagine violenta di Dio non si esaurisce nella Bibbia giudaica. Prosegue in alcuni testi della Bibbia cristiana, là dove Cristo viene presentato come vittima propiziatoria per la riconciliazione dell’umanità con Dio. Prosegue con Anselmo di Canterbury, come padrone di vite e di beni e come sovrano feudale che tratta i suoi veneratori come se si trattasse di servi della gleba ed esige il sacrificio del suo amatissimo figlio, Gesù Cristo, in riparazione dell’offesa infinita commessa contro Dio dall’umanità.
Il Dio assassino permane presente in non pochi rituali bellici del nostro tempo: negli attentati terroristici compiuti da supposti credenti mussulmani che in nome di Dio praticano la guerra santa contro gli infedeli e nella risposta a tali attentati che danno i dirigenti politici cristiani i quali chiamano in causa Dio per giustificare lo spargimento di sangue di innocenti in operazioni che portano il nome di Giustizia Infinita o Libertà Duratura.
Dopo queste operazioni, Saramago non può fare a meno di essere d’accordo con la testimonianza del filosofo ebreo Martin Buber: “Dio è la parola più vilipesa di tutte le parole umane. Nessuna è stata tanto disonorata, tanto mutilata […] Le generazioni umane hanno riversato su questa parola il peso della loro vita tormentata fino a schiacciarla contro il suolo. Giace nella polvere e ne sostiene il peso. Le generazioni umane, con i loro patriottismi religiosi, hanno lacerato questa parola. Hanno ucciso e si sono fatte uccidere per essa. Questa parola porta le loro impronte digitali e il loro sangue. Gli uomini disegnano un fantoccio e ci scrivono sotto la parola ‘Dio’. Si assassinano gli uni gli altri e dicono ‘lo facciamo in nome di Dio’. Dobbiamo rispettare quelli che proibiscono questa parola, perché si ribellano contro l’ingiustizia e gli eccessi che con tanta facilità si commettono con una presunta autorizzazione da parte di ‘Dio’. Bene si comprende che molti suggeriscano di mantenere, per un certo tempo, il silenzio sulle ‘ultime cose’ per redimere quelle parole che sono state oggetto di tanti abusi”. Anch’io sottoscrivo quest’affermazione di Buber.
Che si condivida oppure no la Bibbia giudaica che fa Saramago, personalmente ritengo di essere d’accordo con lui sul fatto che “la storia degli uomini è la storia dei loro incontri mancati con dio: né lui ci intende, né noi lo intendiamo”. Eccellente lezione di contro-teologia!
Qualunque fosse la responsabilità di Caino o di Dio nella morte di Abele, rimane in piedi la domanda che ancora oggi persiste tanto viva quanto allora, se non di più, e che fa appello alla responsabilità dell’umanità nell’attuale disordine mondiale, nelle guerre e nelle carestie che prosciugano il nostro pianeta: “Dov’è tuo fratello (Genesi 4,9). E la risposta non può limitarsi a un evasivo: “Non so. Sono forse io il custode di mio fratello?”, bensì, continuando con la Bibbia, la parabola evangelica del Buon Samaritano, il quale prova compassione di una persona gravemente ferita, nonostante fosse di religione contraria alla sua. Eccellente lezione di etica solidale!
Traduzione di Giancarlo Depretis
*Juan José Tamayo è teologo spagnolo, fondatore e segretario dell’Associazione dei teologi Giovanni XXIII
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La Stampa perdonerà se l'ho copiato interamente, ché un così bell'articolo rischiava di essere letto da pochi se restava sul giornale, per motivi che non sto qui a dire ma che sono familiari a chi si avventura fino alla terza pagina dello sfortunato quotidiano per leggere delle ragioni di tanta attenzione al
clima che cambia, che di solito sono pagine trascurate dai lettori e se qualche inesattezza scappa non ne viene gran danno all'autore che scopre di avere scritto cose d'altri, E' inaccettabile, mi dovete una spiegazione, Ma che vuole questo tipo? di che si lamenta se neanche piove!, e si sente offeso l'autore da operazione che in altri paesi si direbbe leggera ma che da noi non è poi cosa così seria, e i giorni passano senza che nulla accada, segno che non era un fatto importante e il giornale aveva ragione a dire di stare tranquilli, di godersi la vita che fuori c'è il sole. Può ripetersi la storia, ruota senza terreno per girare se non fossero lastricate le sue vie del sangue dei senza nome che senza quel sangue sarebbe inutile spingerla, e se il teologo riconosce l'articolo fedele al suo intento il giornale saprà riconoscermi il servigio reso a diffonderne il pensiero, altrimenti la redazione mi ringrazierà parimenti per aver attirato su di me gli strali dell'autore, ché senza questo blog nessuno avrebbe saputo dell'offesa al suo nome.
([NdA]
scritto quale indegno omaggio alla prosa di Saramago.)