Stasera Afrodite e Artemide avranno molte cose da raccontarsi.
Ares poco lontano origlia e non riesce a cogliere le loro parole. Gli giunge solo un bisbiglio, per continuare a chiedersi quante cose non sa.
- Prudenza Artemide, Ares sta arrivando.
- Non temere Afrodite, è ancora lontano.
- Certe cose è meglio che gli uomini non le sappiano. Quando entra cambiamo discorso.
Eros, ancora bambino, gioca ai piedi della madre.
"Concludiamone dunque che il mondo sarebbe assai migliore se ciascuno si accontentasse di quello che dice, senza aspettarsi che gli rispondano, e soprattutto senza chiederlo né desiderarlo." José Saramago
martedì 31 gennaio 2017
giovedì 26 gennaio 2017
Del negazionismo e della rimozione
Il progetto criminale di Hitler e del regime nazista per l’eliminazione degli ebrei e di tutte le altre categorie discriminate, zingari, omosessuali, oppositori politici è uno dei fatti meglio documentati della storia contemporanea. Questo è un fatto accertato da migliaia di documenti scritti e fotografici, da filmati, da documenti che lo stesso reich ha prodotto e che non è riuscito a eliminare prima che venisse sconfitto. Lo stesso Hitler ha lasciato nei suoi scritti testimonianza delle sue intenzioni nei confronti degli “inferiori”, di quelli che non facevano parte della razza ariana. I suoi stessi gerarchi, sia quelli condannati a Norimberga e in altri processi sia quelli che sono stati successivamente catturati hanno confermato i fatti dell’Olocausto. Fanno parte della documentazione storica le migliaia di testimonianze di chi ha vissuto quell’orrore. Tutti i documenti prodotti, tutte le testimonianze scritte e raccontate convergono a descrivere un fatto storicamente certo. Nessuna incongruenza tra le testimonianze, nessuna incertezza. Noi stessi non siamo ancora così lontani da quel periodo da non sentire più nelle nostre orecchie la voce di chi ha vissuto quei tempi, molti sono morti ma noi siamo i loro figli, i loro nipoti e salvo mettere in dubbio quello che queste persone hanno raccontato e scritto non può esserci spazio per alcuna negazione. Un nome su tutti, Primo Levi, dopo la sua esperienza nei lager è vissuto solo per testimoniare l’orrore, poi non ce l’ha fatta più. Quello che ha vissuto è disponibile per chiunque voglia sapere cosa è accaduto in quei tempi. Molti hanno atteso anni prima di riuscire a trovare il coraggio della testimonianza perché quello che hanno vissuto appariva indicibile anche a loro, volevano seppellirlo per sempre nella loro memoria. Tutta la documentazione storica, tutte le testimonianze prodotte sono passate al vaglio di centinaia di storici. Non sono state trovate testimonianze discordanti, nessuna smentita tra le più diverse documentazioni. Ogni ipotesi di complotto deve fare i conti con una mole di informazioni spaventosa, con una quantità di documenti enorme, con un numero impressionante di storici e di testimoni che concordano sui fatti accaduti senza alcuna smentita tra di loro. Un complotto può reggere a lungo se coinvolge pochissime persone, può reggere per breve tempo se coinvolge molte persone. E’ difficile, se non impossibile, concepire un complotto che coinvolga centinaia di migliaia di persone e che duri per più di 70 anni, tanti ne sono passati da quando furono scoperti i campi di concentramento. Quindi ogni singolo tentativo di negare la realtà di quei fatti ha il dovere etico e storico di fornire prove altrettanto forti per dire che quei fatti non sono accaduti. Per negare quei fatti devono essere fornite prove altrettanto robuste che i documenti che testimoniano la Shoah sono falsi e devono essere forniti documenti autentici che attestano come sono andate le cose. Questi documenti devono subire il vaglio degli storici così come è accaduto per i documenti che testimoniano l’olocausto. L’onere della prova sta a chi sovverte una verità acquisita e certificata. Senza quelle prove nessun discorso negazionista può essere considerato serio.
Finora nessun resoconto negazionista ha trovato riscontro o conferma nella documentazione acquisita e nessuna documentazione autentica è stata prodotta per introdurre anche un ragionevole dubbio in quello che si sa. Quello che accade con il negazionismo dell’olocausto è simile a un congresso di medici dove si discute su basi scientifiche delle modalità di curare l’epatite, poi arriva uno sconosciuto che nega l’efficacia delle cure di cui si discute e dice che l’epatite si cura con una pomata di arnica spalmata sul braccio destro. I medici chiedono conto di quali esperimenti siano stati fatti, dei pazienti che sono stati curati ma si scopre che nessun esperimento è stato fatto secondo un metodo condiviso e che non ci sono vere guarigioni.
Quali sono le ragioni del negazionismo? Perché si diffonde? Su quale terreno cresce? E’ un tema complesso e non ho le competenze per esaminarlo a fondo ma è possibile dire alcune cose. Intanto c’è un solo negazionismo o ce n’è più di uno? A me sembra di poter distinguere almeno due negazionismi, un negazionismo politico, che persegue fini politici e un negazionismo che potrei chiamare terapeutico. Il negazionismo politico ha, come ho detto prima, il dovere di portare prove di quanto afferma, altrimenti ha il dovere di tacere. Diciamolo chiaramente quel negazionismo puzza di fascismo e di nazismo da lontano, punta alla riabilitazione di un regime oppressivo e criminale pensando di risolvere tutti i problemi della modernità con un ritorno al passato, con un’idea di ordine che passa attraverso l’eliminazione di ogni voce dissonante. Il negazionismo terapeutico, a mio avviso, merita molta attenzione e in alcuni casi direi anche rispetto. Parlo di quella negazione intima che non fa proselitismo, che non vuole sovvertire i fatti, che non ha obiettivi politici ma che nasce proprio dalla mostruosità dei fatti, dall'inaccettabilità di quei fatti, dall'incapacità di accogliere il dolore e l’orrore che quei fatti raccontano. Quando qualcosa supera le nostre capacità di comprensione, quando non siamo in grado di reggere emozioni troppo forti diciamo “non ci posso credere!”. E’ una forma di protezione perché veniamo sopraffatti da quanto ci viene raccontato. Ebbene, quello che è accaduto nei campi di concentramento è talmente mostruoso che molti degli stessi sopravvissuti hanno serbato il silenzio per molti anni prima di avere la forza di parlare. In molti casi è intervenuta una vera e propria rimozione. Nelle testimonianze di chi ha trovato quella forza si legge la vergogna per aver subito l’indicibile, il timore di non essere creduti per l’enormità che hanno vissuto, la volontà di celare dentro se stessi quanto hanno visto e soprattutto il peso di essere sopravvissuti a un’esperienza che ha cancellato il loro passato, il loro presente e il loro futuro. Un’esperienza che ha cancellato per sempre l’umanità dai loro occhi e che noi abbiamo il dovere di ricordare, raccontare e per quanto possibile abbiamo il dovere di reggerlo quel peso, perché quel peso è stato messo per sempre sulle spalle dell’umanità e non c’è modo di scrollarselo di dosso. Nessuna negazione, nessuna rimozione potrà mai farci scrollare di dosso quel peso. Se i meccanismi di rimozione dei sopravvissuti meritano rispetto, la rimozione da parte nostra è una rimozione colpevole, perché nega la sofferenza degli altri per una questione di comodità psicologica. Ma non è negando l’esistenza dell’orrore che l’orrore si cancella come non si smette di morire negando la morte.
Il peso che la Shoah ha messo sulle spalle dell’umanità resta dov'è anche se tentiamo di scrollarcelo di dosso nei modi apparentemente più innocenti. Tra questi modi c’è persino la memoria quando diventa retorica di espiazione. La memoria non può e non deve servire a espiare. L'espiazione lava il passato ma non c'è espiazione che possa cancellare l'orrore del passato, dobbiamo reggerne il peso e la vergogna. La memoria che evochiamo nel "giorno della memoria" deve dire che il passato può tornare presente e che l'orrore nasce dalle "banali" azioni quotidiane. Hannah Arendt nel libro “La banalità del male” ci ha insegnato che Heichmann, il principale responsabile della deportazione degli ebrei, potrebbe essere una persona qualunque, uno qualunque di noi. Arendt partecipò al processo nei confronti di Heichmann tenuto a Gerusalemme nel 1962 e dalle deposizioni dell’ex gerarca nazista non vide un mostro feroce, vide un “normale” burocrate, un uomo che obbediva agli ordini senza domandarsi nulla, senza interrogarsi della conseguenza delle proprie azioni. Non c'è bisogno di essere un mostro assetato di sangue per operare il male assoluto, è sufficiente rinunciare a sé stessi in nome di qualcosa che si ritiene al di sopra di sé.
Molto di quanto scrivo l'ho già scritto in passato ma giova ripeterlo. C'è qualcosa di terapeutico nel "confinare" il male, nel circoscriverlo al mostro, all'immondo (ciò che sta fuori dal mondo). Invece il male è nel mondo. Il male non è il mostro facilmente riconoscibile, il male è la quotidiana prevaricazione, la banale soverchieria, la comune indifferenza che dilaga ogni volta che rinunciamo al pensiero e alle emozioni per diventare parte di un sistema che chiede la nostra adesione totale. Il male è nelle pieghe quotidiane dei sistemi statali, politici, religiosi, nella burocrazia dell'obbedienza e del compiacimento. Il male è nella risata compiaciuta con il capo nei confronti di un collega, nella retorica della "normalità" con gli omosessuali, nell'assenza di empatia con gli immigrati, nell'evasione fiscale perché le tasse sono troppo alte, nelle disuguaglianze economiche e sociali, nelle piccole corruzioni quotidiane, riflesso di quelle più grandi per cui è facile indignarsi. Il male è nella lenta e impercettibile erosione dei diritti civili, dei diritti del lavoro, dei diritti umani. Il male è considerare gli altri responsabili delle nostre azioni, è nel senso del dovere che fonda la coscienza morale e non viceversa, il male è nelle leggi che nascono da questo rovesciamento. Questo è il male del mondo, un male banale, spesso inevitabile, un male con cui fare i conti continuamente. Se il male è espulso dal mondo, se diventa il male immondo, allora il male banale può crescere indisturbato. E’ su questo terreno che cresce il negazionismo politico, quello da condannare senza appello. Quel negazionismo prolifera proprio sulle nostre “innocenti” negazioni, sui nostri “non ci posso credere!”, sulla nostra indifferenza per il male quotidiano, sulla nostra assuefazione al male quotidiano.
Abbiamo certamente bisogno di delimitare il male attraverso un processo razionale, abbiamo bisogno di “confinarlo” in un luogo e in un tempo remoto e lontano da noi ma questo confinamento è pieno di pericoli. Tutto il male confinato ci libera dal male e ci lava da ogni peccato, pronti e puliti per commettere il prossimo. La Shoah è il simbolo più potente del male nella nostra epoca ma è importante che questo simbolo non resti una vuota celebrazione per ripulirci dal male che è sempre altrove. La Shoah non può diventare il vaso di Pandora che contiene tutto il male perché ogni vaso di Pandora, prima o poi, viene aperto. La sola cosa che è possibile fare per evitare di aprire il vaso di Pandora è riconoscere il male che si annida nel quotidiano.
Finora nessun resoconto negazionista ha trovato riscontro o conferma nella documentazione acquisita e nessuna documentazione autentica è stata prodotta per introdurre anche un ragionevole dubbio in quello che si sa. Quello che accade con il negazionismo dell’olocausto è simile a un congresso di medici dove si discute su basi scientifiche delle modalità di curare l’epatite, poi arriva uno sconosciuto che nega l’efficacia delle cure di cui si discute e dice che l’epatite si cura con una pomata di arnica spalmata sul braccio destro. I medici chiedono conto di quali esperimenti siano stati fatti, dei pazienti che sono stati curati ma si scopre che nessun esperimento è stato fatto secondo un metodo condiviso e che non ci sono vere guarigioni.
Quali sono le ragioni del negazionismo? Perché si diffonde? Su quale terreno cresce? E’ un tema complesso e non ho le competenze per esaminarlo a fondo ma è possibile dire alcune cose. Intanto c’è un solo negazionismo o ce n’è più di uno? A me sembra di poter distinguere almeno due negazionismi, un negazionismo politico, che persegue fini politici e un negazionismo che potrei chiamare terapeutico. Il negazionismo politico ha, come ho detto prima, il dovere di portare prove di quanto afferma, altrimenti ha il dovere di tacere. Diciamolo chiaramente quel negazionismo puzza di fascismo e di nazismo da lontano, punta alla riabilitazione di un regime oppressivo e criminale pensando di risolvere tutti i problemi della modernità con un ritorno al passato, con un’idea di ordine che passa attraverso l’eliminazione di ogni voce dissonante. Il negazionismo terapeutico, a mio avviso, merita molta attenzione e in alcuni casi direi anche rispetto. Parlo di quella negazione intima che non fa proselitismo, che non vuole sovvertire i fatti, che non ha obiettivi politici ma che nasce proprio dalla mostruosità dei fatti, dall'inaccettabilità di quei fatti, dall'incapacità di accogliere il dolore e l’orrore che quei fatti raccontano. Quando qualcosa supera le nostre capacità di comprensione, quando non siamo in grado di reggere emozioni troppo forti diciamo “non ci posso credere!”. E’ una forma di protezione perché veniamo sopraffatti da quanto ci viene raccontato. Ebbene, quello che è accaduto nei campi di concentramento è talmente mostruoso che molti degli stessi sopravvissuti hanno serbato il silenzio per molti anni prima di avere la forza di parlare. In molti casi è intervenuta una vera e propria rimozione. Nelle testimonianze di chi ha trovato quella forza si legge la vergogna per aver subito l’indicibile, il timore di non essere creduti per l’enormità che hanno vissuto, la volontà di celare dentro se stessi quanto hanno visto e soprattutto il peso di essere sopravvissuti a un’esperienza che ha cancellato il loro passato, il loro presente e il loro futuro. Un’esperienza che ha cancellato per sempre l’umanità dai loro occhi e che noi abbiamo il dovere di ricordare, raccontare e per quanto possibile abbiamo il dovere di reggerlo quel peso, perché quel peso è stato messo per sempre sulle spalle dell’umanità e non c’è modo di scrollarselo di dosso. Nessuna negazione, nessuna rimozione potrà mai farci scrollare di dosso quel peso. Se i meccanismi di rimozione dei sopravvissuti meritano rispetto, la rimozione da parte nostra è una rimozione colpevole, perché nega la sofferenza degli altri per una questione di comodità psicologica. Ma non è negando l’esistenza dell’orrore che l’orrore si cancella come non si smette di morire negando la morte.
Il peso che la Shoah ha messo sulle spalle dell’umanità resta dov'è anche se tentiamo di scrollarcelo di dosso nei modi apparentemente più innocenti. Tra questi modi c’è persino la memoria quando diventa retorica di espiazione. La memoria non può e non deve servire a espiare. L'espiazione lava il passato ma non c'è espiazione che possa cancellare l'orrore del passato, dobbiamo reggerne il peso e la vergogna. La memoria che evochiamo nel "giorno della memoria" deve dire che il passato può tornare presente e che l'orrore nasce dalle "banali" azioni quotidiane. Hannah Arendt nel libro “La banalità del male” ci ha insegnato che Heichmann, il principale responsabile della deportazione degli ebrei, potrebbe essere una persona qualunque, uno qualunque di noi. Arendt partecipò al processo nei confronti di Heichmann tenuto a Gerusalemme nel 1962 e dalle deposizioni dell’ex gerarca nazista non vide un mostro feroce, vide un “normale” burocrate, un uomo che obbediva agli ordini senza domandarsi nulla, senza interrogarsi della conseguenza delle proprie azioni. Non c'è bisogno di essere un mostro assetato di sangue per operare il male assoluto, è sufficiente rinunciare a sé stessi in nome di qualcosa che si ritiene al di sopra di sé.
Molto di quanto scrivo l'ho già scritto in passato ma giova ripeterlo. C'è qualcosa di terapeutico nel "confinare" il male, nel circoscriverlo al mostro, all'immondo (ciò che sta fuori dal mondo). Invece il male è nel mondo. Il male non è il mostro facilmente riconoscibile, il male è la quotidiana prevaricazione, la banale soverchieria, la comune indifferenza che dilaga ogni volta che rinunciamo al pensiero e alle emozioni per diventare parte di un sistema che chiede la nostra adesione totale. Il male è nelle pieghe quotidiane dei sistemi statali, politici, religiosi, nella burocrazia dell'obbedienza e del compiacimento. Il male è nella risata compiaciuta con il capo nei confronti di un collega, nella retorica della "normalità" con gli omosessuali, nell'assenza di empatia con gli immigrati, nell'evasione fiscale perché le tasse sono troppo alte, nelle disuguaglianze economiche e sociali, nelle piccole corruzioni quotidiane, riflesso di quelle più grandi per cui è facile indignarsi. Il male è nella lenta e impercettibile erosione dei diritti civili, dei diritti del lavoro, dei diritti umani. Il male è considerare gli altri responsabili delle nostre azioni, è nel senso del dovere che fonda la coscienza morale e non viceversa, il male è nelle leggi che nascono da questo rovesciamento. Questo è il male del mondo, un male banale, spesso inevitabile, un male con cui fare i conti continuamente. Se il male è espulso dal mondo, se diventa il male immondo, allora il male banale può crescere indisturbato. E’ su questo terreno che cresce il negazionismo politico, quello da condannare senza appello. Quel negazionismo prolifera proprio sulle nostre “innocenti” negazioni, sui nostri “non ci posso credere!”, sulla nostra indifferenza per il male quotidiano, sulla nostra assuefazione al male quotidiano.
Abbiamo certamente bisogno di delimitare il male attraverso un processo razionale, abbiamo bisogno di “confinarlo” in un luogo e in un tempo remoto e lontano da noi ma questo confinamento è pieno di pericoli. Tutto il male confinato ci libera dal male e ci lava da ogni peccato, pronti e puliti per commettere il prossimo. La Shoah è il simbolo più potente del male nella nostra epoca ma è importante che questo simbolo non resti una vuota celebrazione per ripulirci dal male che è sempre altrove. La Shoah non può diventare il vaso di Pandora che contiene tutto il male perché ogni vaso di Pandora, prima o poi, viene aperto. La sola cosa che è possibile fare per evitare di aprire il vaso di Pandora è riconoscere il male che si annida nel quotidiano.
lunedì 23 gennaio 2017
La tela dei ragni
Un ragno tesse la sua tela tra i sassi per tenerli insieme, per fermarne i crolli. E' il suo modo di arginare il tempo. Non conviene ingaggiare lotte con il tempo. Si perde sempre. Meglio farselo amico.
La signora della bottega di Pinzi Pinzuti a Abbadia San Salvatore ha il suo personale rapporto con il tempo.
La signora della bottega di Pinzi Pinzuti a Abbadia San Salvatore ha il suo personale rapporto con il tempo.
mercoledì 11 gennaio 2017
Questa salsa è amara
Questa salsa è amara,
asciuga al sole l’impasto
di ingannevole sapore strappato alla terra
steso da mani sapienti e stanche.
Donne di casa mia
madri di tutti
figlie di nessuno
dee rivali per un regno di solitudine
vite trascorse in attesa del passato
fiero e da dimenticare.
Venite da lontano
con il pane tra le mani
lievito di passioni taciute.
Uomini di casa mia
delle vostre mani la terra si è nutrita,
il sudore la disseta,
gli ulivi raccontano fatica muta
dettata dai secoli.
L’infinito nei vostri occhi
non fu mai colto,
l’infinito negli occhi delle donne
non potevate vedere.
Gente di casa mia
un giorno, sparsi nel mondo
il vento ci porterà intorno al fuoco,
i ricordi non faranno male
e il dolore un bambino
che culleremo lieve
che riposi dopo i suoi giochi.
La notte passerà felice
mangeremo pane fatto in casa
e salsa amara.
(Giugno 2006)
Sacrari abbandonati / di guerre stagionali, / stille di sangue rappreso / e sale sulle ferite / di pomodori seccati al sole. |
domenica 1 gennaio 2017
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