L'ultimo rantolo, in ordine di tempo, del creazionismo in Italia è addirittura del vicepresidente del CNR Roberto De Mattei, con il libro da lui curato "Evoluzionismo: il tramonto di un'ipotesi". Questo sì che è un paese votato alla scienza e alla ricerca!
Una volta un creazionista disse che l'insormontabile problema della teoria evolutiva è rappresentato dai cosiddetti anelli mancanti tra l'uomo e la scimmia, poi sollecitato dagli scienziati evoluzionisti di fronte alla scoperta dei fossili di pitecantropo il creazionista sostenne che se prima l'anello mancante era uno da quel momento in poi sarebbero stati due![1]
Il revival di Zenone è già divertente di suo ma quello che mi lascia davvero perplesso è tutta l'energia e la passione che i paleontologi spendono per cercare i cosiddetti anelli mancanti[2] tra i fossili quando ve ne è una tale disponibilità di vivi e quasi vegeti che davvero l'immane sforzo può sembrare incomprensibile!
[1] S. Jones, Scienza darwiniana e fantascienza biblica. MicroMega, 1/2006, p. 133.
[2] Prove dell'evoluzione ce n'è talmente tante che solo chi ha gravi difficoltà a disporre del linguaggio scientifico può dire di non vederle. L'evoluzionismo non è faccenda in cui credere o meno, l'evoluzionismo di stampo darwiniano e tutti i suoi innumerevoli sviluppi e consolidamenti si conoscono o non si conoscono. Se l'argomento ti interessa consiglio la lettura di Sean. B. Carroll, Al di là di ogni ragionevole dubbio. La teoria dell'evoluzione alla prova dell'esperienza. Codice Ed., 2008.
"Concludiamone dunque che il mondo sarebbe assai migliore se ciascuno si accontentasse di quello che dice, senza aspettarsi che gli rispondano, e soprattutto senza chiederlo né desiderarlo." José Saramago
lunedì 30 novembre 2009
sabato 28 novembre 2009
L'undicesima domanda
Disperatamente cercasi maggioranza parlamentare pron(t)a a salvare presidente del consiglio da deliberate aggressioni della magistratura che indaga sulla stagione delle stragi del '92 e sui mandanti occulti di quelle stragi.
Il presidente protempore avrebbe pronunciato il 9 settembre scorso: «So che ci sono fermenti in procura, a Palermo e a Milano, si ricominciano a guardare i fatti del ' 93, del' 94 e del ' 92. Mi fa male che queste persone, con i soldi di tutti, facciano cose cospirando contro di noi, che lavoriamo per il bene del Paese».
Perché mai un Presidente del Consiglio dovrebbe essere così tanto agitato per la ripresa delle indagini sui fatti di mafia del '92, e soprattutto per quale motivo dovrebbe temere che ci possa essere una qualche connessione tra lui e quei fatti?
Il presidente protempore avrebbe pronunciato il 9 settembre scorso: «So che ci sono fermenti in procura, a Palermo e a Milano, si ricominciano a guardare i fatti del ' 93, del' 94 e del ' 92. Mi fa male che queste persone, con i soldi di tutti, facciano cose cospirando contro di noi, che lavoriamo per il bene del Paese».
Perché mai un Presidente del Consiglio dovrebbe essere così tanto agitato per la ripresa delle indagini sui fatti di mafia del '92, e soprattutto per quale motivo dovrebbe temere che ci possa essere una qualche connessione tra lui e quei fatti?
giovedì 26 novembre 2009
Interrogazioni e domande
Si preannuncia un'interrogazione parlamentare per i cori razzisti al calciatore Balotelli. Immagino che a rispondere sia chiamato il ministro Maroni. Chissà, magari sta già studiando una risposta insieme al sindaco di Coccaglio.
Un coglione può essere italiano purché sia bianco?
***
Gridavano che "un negro non può essere italiano" questi deficienti.Un coglione può essere italiano purché sia bianco?
martedì 24 novembre 2009
Appelli al vento
23 novembre 2009 - "Investire nella ricerca e nell'innovazione è una necessità che non dovrebbe avere molto bisogno di essere sottolineata, tanto è evidente il fatto che qui ci giochiamo il nostro futuro", il Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano.
24 novembre 2009 - Un gruppo di ricercatori che lavorano in ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) da molti anni in condizioni di precariato sono saliti sul tetto della sede di via Casalotti a Roma per protestare contro il piano di licenziamenti. L'ente ha già licenziato 200 precari storici e si appresta a licenziarne altri 250, ovvero il 40% del personale e la quasi totalità dei lavoratori giovani dell'ente.
24 novembre 2009 - Un gruppo di ricercatori che lavorano in ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) da molti anni in condizioni di precariato sono saliti sul tetto della sede di via Casalotti a Roma per protestare contro il piano di licenziamenti. L'ente ha già licenziato 200 precari storici e si appresta a licenziarne altri 250, ovvero il 40% del personale e la quasi totalità dei lavoratori giovani dell'ente.
La misura viene da sola
Eraclito “secondo misura si accende e secondo misura si spegne”.
Recentemente è stato pubblicato il rapporto "Measurement of Economic Performance and Social Progress" commissionato dal presidente francese Sarkozy ad un gruppo di autorevolissimi personaggi, soprattutto economisti ma anche psicologi e filosofi della politica.
I classici strumenti di misura delle performance economiche, come il PIL, sono considerati insufficienti o fuorvianti da tempo e da molti e scopo della commissione di esperti, coordinati da Joseph E. Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi, è individuare strumenti di misura più idonei alla valutazione del benessere che, come è noto, non dipende soltanto dalle condizioni materiali.
Questo rapporto, uscito a settembre scorso, sta già animando diversi dibattiti ed è sicuramente destinato a segnare una pietra miliare nel discorso sul cosiddetto sviluppo sostenibile perché focalizza l’attenzione su quelle dimensioni cosiddette “soggettive” (psicologiche ed emozionali) fino ad ora trascurate da un sistema culturale che si concentra sulle dimensioni considerate “oggettive”. Sarebbe interessante stabilire quali siano i criteri di 'oggettivazione', ovvero come le cose cui, da soggetti, assegniamo valore diventino oggetto. Insomma, diciamo che la distinzione mi sta abbastanza stretta, ma non è il caso di approfondire, giusto una breve nota in fondo.
Nel rapporto, come il titolo stesso lascia intendere, si passano in rassegna diversi strumenti di misura del progresso, considerandone le dimensioni economiche, ambientali e sociali. Non è argomento nuovo, si parla di sostenibilità ambientale da tanto tempo e la sua connessione con il concetto di sviluppo economico – tutto dedicato alla crescita - è nota da altrettanto tempo. Quale sia stata l’applicazione concreta di queste critiche lo sappiamo tutti, la crisi economica in corso, risultato dell'overdose neo-liberista, ne è un esempio. Può darsi che proprio l’attuale contingenza storica porti a comprendere la portata pratica di queste idee, chissà. Non mancano gli elementi che potrebbero spingere verso un mutamento del paradigma economico della crescita quantitativa - i tempi sono maturi, si dice nel rapporto - ma al riguardo mi concedo il pessimismo della ragione e l'ottimismo della speranza di gramsciana memoria, perché il paradigma da cambiare ha solide radici nel principio di accumulazione originaria (Marx, nel I libro del Capitale, lo chiamava il peccato originale dell’economia politica) che la dimensione globale del nostro sviluppo acuisce a dismisura.
Il rapporto della commissione istituita da Sarkozy è, a mio giudizio, estremamente debole dal punto di vista ambientale, poiché sembra mettere tra parentesi la finitezza delle risorse ambientali. Inoltre, trattandosi di un lavoro scritto da insigni economisti, è sorprendente che non sia neanche citato Georgescu-Roegen che mise in discussione le basi dell'economia riscrivendola in chiave ecologica. Indipendentemente da queste pecche che possono essere considerate il risultato di una mediazione in una compagine di autori molto composita, il rapporto ha il pregio di rivolgere l'attenzione agli aspetti che definisce soggettivi, ovvero al sistema di preferenze che i soggetti esprimono nel loro vivere quotidiano e riconosce la necessità di considerare tali aspetti nella valutazione del benessere umano. Per questo motivo, e per l’autorevolezza dei suoi autori, il rapporto può rappresentare un passo decisivo nello sviluppo di un modo diverso di concepire l’economia e il benessere, che non sia solo limitato al godimento dei beni materiali, considerati oggettivi.
Il termometro del PIL non è un buon termometro, allora dobbiamo cercare altri termometri. Vero! ma non è solo cambiando il termometro che la febbre passerà. Certo, sapere che la nostra temperatura è prossima ai 42° è sicuramente una spinta maggiore a prendere provvedimenti anziché sapere che è di 37°, ma se non disponiamo di antibiotici e di un letto caldo la febbre non passerà.
Benvengano nuovi indicatori e nuovi termometri ma bisogna soprattutto disegnare il futuro ricordando cosa davvero desideriamo, ridando dignità e senso a quelle valutazioni soggettive che l'economia attuale ignora (non le ignorava alla sua origine, ascolta Stefano Zamagni). Il discorso dell'oggettivazione è centrale a mio avviso; un'economia che si occupa solo di parametri oggettivi è inadeguata per studiare le comunità umane, dove i soggetti sono portatori i valori etici e le scelte che fanno risultano nell'ottimizzazione dell'utilità economica solo in rare occasioni. In quali contesti culturali e formativi qualcosa diventa oggettivo? In quali condizioni si dimentica che qualcosa che è fondamentale per il benessere non è da valutare perché è soggettiva? Bisogna rispondere a queste domande e cambiare quelle condizioni, tanto oggettive quanto assurde.
Per fare questo è necessario considerare una dimensione progettuale che ridisegni il nostro contesto socio economico, i nuovi indicatori daranno la misura dell’efficacia del nuovo disegno, altrimenti gli indicatori resteranno soltanto un nuovo termometro, bello, preciso, ma inutile. Disegnare il futuro è compito della politica (sic!), intesa come tecnica sociale di organizzazione delle attività umane. Non sono sicuro che l'uomo possa essere capace di ‘scegliere’ a scala globale un paradigma diverso dell’attuale economia, un paradigma che inglobi gli aspetti etici, come Amartya Sen auspica. E’ tristemente interessante notare come molti aspetti di uno sviluppo economico che riteniamo a misura d’uomo trovino espressione a scala locale e perdano forza passando alla scala globale. Ho una mia teoria al riguardo, fatte salve rare e pregevoli eccezioni fondamentalmente l’uomo è ancora un animale a piccola scala e le ‘prove tecniche’ di globalizzazione rivelano la sua inadeguatezza ad una dimensione globale. Riflettendoci attentamente ci accorgiamo che in termini economici è l’individuo isolato ad aver assunto una dimensione globale, un bel non sense!
Data la lunga storia del concetto di sviluppo sostenibile, le innumerevoli controversie al riguardo e sostanzialmente lo scollamento tra economia reale e quella auspicata, non è illegittimo un prudente scetticismo sulla capacità di questo nuovo rapporto di incidere sull’economia del futuro. Considerando il quadro politico attuale e gli indirizzi programmatici in tema economico ed ambientale dei diversi partiti (a destra e a sinistra giocano a chi è più liberista!) non si vedono discorsi che facciano pensare ad un punto di svolta, neanche con l’attuale crisi in corso, neanche con la buona volontà di guardare oltreoceano all’America di Obama. Al di là dei correttivi auspicati al vecchio sistema economico non mi pare di sentire molti distinguo riguardo alla ripresa del PIL trimestrale degli USA. Se il PIL cresce sono tutti felici e quindi tra chi ha dato e chi ha avuto “scurdammoce o passato” diceva una canzone napoletana!
La domanda è sempre la stessa: che fare? Gli strumenti di misura ci sono, quello che manca è la misura. Ma, come diceva mio nonno, se non c'è prima o poi arriverà da sola.
Il termine ‘misura’ può essere declinato in diversi modi. Può essere declinato in termini di misurazione di una grandezza ma può essere declinato anche in termini di soglia, di limite. Le due declinazioni si intrecciano tra loro perché entrambe implicano un raffronto con una ‘norma’ o una ‘unità’ di qualche tipo, ma spesso il loro intreccio è oggetto di rimozione. Eppure se non si riconosce la fondamentale differenza tra le diverse accezioni del termine ‘misura’ non potremmo concepire espressioni come ‘la misura è colma’, ‘oltrepassare la misura’, oppure un’espressione che mi è molto cara perché era solito ripeterla mio nonno: “La misura se non ce l’hai viene da sola”. In definitiva, nell’accezione squisitamente tecnica la misura è un atto, un procedimento. Nell’accezione che potremmo dire morale è qualcosa di sostantivo. Nonostante questo si assiste al paradosso che l’atto della misurazione è abbastanza facile da comprendere, si dice abbia criteri ‘oggettivi’, mentre la misura in senso morale è molto più difficile perché di natura ‘soggettiva’. Tutti sappiamo che le cosiddette misure oggettive non sono prive di inganni o di errori, poiché anche l’atto della misurazione non può essere immune dal sistema valoriale in cui si è sviluppato, pertanto la sua oggettività risiede tutta nel rivolgersi ad oggetti, ma degli oggetti che ci circondano ne selezioniamo alcuni e ne trascuriamo altri, quindi il blasonato concetto di oggettività implode sul soggetto che lo formula e quello che resta è una condivisione più o meno consapevole dell’attenzione rivolta agli oggetti. Tornando alle dimensioni soggettive che sfuggono all’attuale valutazione economica è abbastanza strano che la gente quando parla delle sue esigenze più profonde parla di quelle cose considerate ‘soggettive’ che non sarebbero valutabili, eppure le valuta eccome, nel senso che vi è assegnazione di valore, solo che quel valore non potrà mai essere oggetto di scambio.
Buona parte della filosofia oggi rivolge la sua attenzione prevalentemente verso l’essente finito. L’economia, giocattolo per pigri, sospesa tra scienza e prassi, è rimasta l’unica disciplina erede di una certa teologia che guarda verso l’infinito. Il mito della crescita illimitata rappresenta la forma più misera di infinito che sia riuscita a concepire e coltivare. “La parola crescita è una parola perversa. Gli economisti hanno preso in prestito le parole crescita e sviluppo dalla biologia e hanno utilizzato la metafora dell’organismo naturale per spiegare la struttura economica. Hanno però dimenticato di utilizzare l’analogia fino in fondo: in natura gli organismi crescono, si sviluppano, poi iniziano il declino e finalmente muoiono. Gli economisti invece hanno inventato l’immortalità per l’organismo economico. Ma una crescita infinita in un pianeta finito è impossibile.” (Serge Latouche, L’economia a dismisura d’uomo, Micromega, 6/2006).
La religione degli uomini doveva pur trovare asilo da qualche parte! Forse il lavoro di Stiglitz, Sen e Fitoussi tenta di riportare l'economia tra le cose terrene.
Recentemente è stato pubblicato il rapporto "Measurement of Economic Performance and Social Progress" commissionato dal presidente francese Sarkozy ad un gruppo di autorevolissimi personaggi, soprattutto economisti ma anche psicologi e filosofi della politica.
I classici strumenti di misura delle performance economiche, come il PIL, sono considerati insufficienti o fuorvianti da tempo e da molti e scopo della commissione di esperti, coordinati da Joseph E. Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi, è individuare strumenti di misura più idonei alla valutazione del benessere che, come è noto, non dipende soltanto dalle condizioni materiali.
Questo rapporto, uscito a settembre scorso, sta già animando diversi dibattiti ed è sicuramente destinato a segnare una pietra miliare nel discorso sul cosiddetto sviluppo sostenibile perché focalizza l’attenzione su quelle dimensioni cosiddette “soggettive” (psicologiche ed emozionali) fino ad ora trascurate da un sistema culturale che si concentra sulle dimensioni considerate “oggettive”. Sarebbe interessante stabilire quali siano i criteri di 'oggettivazione', ovvero come le cose cui, da soggetti, assegniamo valore diventino oggetto. Insomma, diciamo che la distinzione mi sta abbastanza stretta, ma non è il caso di approfondire, giusto una breve nota in fondo.
Nel rapporto, come il titolo stesso lascia intendere, si passano in rassegna diversi strumenti di misura del progresso, considerandone le dimensioni economiche, ambientali e sociali. Non è argomento nuovo, si parla di sostenibilità ambientale da tanto tempo e la sua connessione con il concetto di sviluppo economico – tutto dedicato alla crescita - è nota da altrettanto tempo. Quale sia stata l’applicazione concreta di queste critiche lo sappiamo tutti, la crisi economica in corso, risultato dell'overdose neo-liberista, ne è un esempio. Può darsi che proprio l’attuale contingenza storica porti a comprendere la portata pratica di queste idee, chissà. Non mancano gli elementi che potrebbero spingere verso un mutamento del paradigma economico della crescita quantitativa - i tempi sono maturi, si dice nel rapporto - ma al riguardo mi concedo il pessimismo della ragione e l'ottimismo della speranza di gramsciana memoria, perché il paradigma da cambiare ha solide radici nel principio di accumulazione originaria (Marx, nel I libro del Capitale, lo chiamava il peccato originale dell’economia politica) che la dimensione globale del nostro sviluppo acuisce a dismisura.
Il rapporto della commissione istituita da Sarkozy è, a mio giudizio, estremamente debole dal punto di vista ambientale, poiché sembra mettere tra parentesi la finitezza delle risorse ambientali. Inoltre, trattandosi di un lavoro scritto da insigni economisti, è sorprendente che non sia neanche citato Georgescu-Roegen che mise in discussione le basi dell'economia riscrivendola in chiave ecologica. Indipendentemente da queste pecche che possono essere considerate il risultato di una mediazione in una compagine di autori molto composita, il rapporto ha il pregio di rivolgere l'attenzione agli aspetti che definisce soggettivi, ovvero al sistema di preferenze che i soggetti esprimono nel loro vivere quotidiano e riconosce la necessità di considerare tali aspetti nella valutazione del benessere umano. Per questo motivo, e per l’autorevolezza dei suoi autori, il rapporto può rappresentare un passo decisivo nello sviluppo di un modo diverso di concepire l’economia e il benessere, che non sia solo limitato al godimento dei beni materiali, considerati oggettivi.
Il termometro del PIL non è un buon termometro, allora dobbiamo cercare altri termometri. Vero! ma non è solo cambiando il termometro che la febbre passerà. Certo, sapere che la nostra temperatura è prossima ai 42° è sicuramente una spinta maggiore a prendere provvedimenti anziché sapere che è di 37°, ma se non disponiamo di antibiotici e di un letto caldo la febbre non passerà.
Benvengano nuovi indicatori e nuovi termometri ma bisogna soprattutto disegnare il futuro ricordando cosa davvero desideriamo, ridando dignità e senso a quelle valutazioni soggettive che l'economia attuale ignora (non le ignorava alla sua origine, ascolta Stefano Zamagni). Il discorso dell'oggettivazione è centrale a mio avviso; un'economia che si occupa solo di parametri oggettivi è inadeguata per studiare le comunità umane, dove i soggetti sono portatori i valori etici e le scelte che fanno risultano nell'ottimizzazione dell'utilità economica solo in rare occasioni. In quali contesti culturali e formativi qualcosa diventa oggettivo? In quali condizioni si dimentica che qualcosa che è fondamentale per il benessere non è da valutare perché è soggettiva? Bisogna rispondere a queste domande e cambiare quelle condizioni, tanto oggettive quanto assurde.
Per fare questo è necessario considerare una dimensione progettuale che ridisegni il nostro contesto socio economico, i nuovi indicatori daranno la misura dell’efficacia del nuovo disegno, altrimenti gli indicatori resteranno soltanto un nuovo termometro, bello, preciso, ma inutile. Disegnare il futuro è compito della politica (sic!), intesa come tecnica sociale di organizzazione delle attività umane. Non sono sicuro che l'uomo possa essere capace di ‘scegliere’ a scala globale un paradigma diverso dell’attuale economia, un paradigma che inglobi gli aspetti etici, come Amartya Sen auspica. E’ tristemente interessante notare come molti aspetti di uno sviluppo economico che riteniamo a misura d’uomo trovino espressione a scala locale e perdano forza passando alla scala globale. Ho una mia teoria al riguardo, fatte salve rare e pregevoli eccezioni fondamentalmente l’uomo è ancora un animale a piccola scala e le ‘prove tecniche’ di globalizzazione rivelano la sua inadeguatezza ad una dimensione globale. Riflettendoci attentamente ci accorgiamo che in termini economici è l’individuo isolato ad aver assunto una dimensione globale, un bel non sense!
Data la lunga storia del concetto di sviluppo sostenibile, le innumerevoli controversie al riguardo e sostanzialmente lo scollamento tra economia reale e quella auspicata, non è illegittimo un prudente scetticismo sulla capacità di questo nuovo rapporto di incidere sull’economia del futuro. Considerando il quadro politico attuale e gli indirizzi programmatici in tema economico ed ambientale dei diversi partiti (a destra e a sinistra giocano a chi è più liberista!) non si vedono discorsi che facciano pensare ad un punto di svolta, neanche con l’attuale crisi in corso, neanche con la buona volontà di guardare oltreoceano all’America di Obama. Al di là dei correttivi auspicati al vecchio sistema economico non mi pare di sentire molti distinguo riguardo alla ripresa del PIL trimestrale degli USA. Se il PIL cresce sono tutti felici e quindi tra chi ha dato e chi ha avuto “scurdammoce o passato” diceva una canzone napoletana!
La domanda è sempre la stessa: che fare? Gli strumenti di misura ci sono, quello che manca è la misura. Ma, come diceva mio nonno, se non c'è prima o poi arriverà da sola.
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Il termine ‘misura’ può essere declinato in diversi modi. Può essere declinato in termini di misurazione di una grandezza ma può essere declinato anche in termini di soglia, di limite. Le due declinazioni si intrecciano tra loro perché entrambe implicano un raffronto con una ‘norma’ o una ‘unità’ di qualche tipo, ma spesso il loro intreccio è oggetto di rimozione. Eppure se non si riconosce la fondamentale differenza tra le diverse accezioni del termine ‘misura’ non potremmo concepire espressioni come ‘la misura è colma’, ‘oltrepassare la misura’, oppure un’espressione che mi è molto cara perché era solito ripeterla mio nonno: “La misura se non ce l’hai viene da sola”. In definitiva, nell’accezione squisitamente tecnica la misura è un atto, un procedimento. Nell’accezione che potremmo dire morale è qualcosa di sostantivo. Nonostante questo si assiste al paradosso che l’atto della misurazione è abbastanza facile da comprendere, si dice abbia criteri ‘oggettivi’, mentre la misura in senso morale è molto più difficile perché di natura ‘soggettiva’. Tutti sappiamo che le cosiddette misure oggettive non sono prive di inganni o di errori, poiché anche l’atto della misurazione non può essere immune dal sistema valoriale in cui si è sviluppato, pertanto la sua oggettività risiede tutta nel rivolgersi ad oggetti, ma degli oggetti che ci circondano ne selezioniamo alcuni e ne trascuriamo altri, quindi il blasonato concetto di oggettività implode sul soggetto che lo formula e quello che resta è una condivisione più o meno consapevole dell’attenzione rivolta agli oggetti. Tornando alle dimensioni soggettive che sfuggono all’attuale valutazione economica è abbastanza strano che la gente quando parla delle sue esigenze più profonde parla di quelle cose considerate ‘soggettive’ che non sarebbero valutabili, eppure le valuta eccome, nel senso che vi è assegnazione di valore, solo che quel valore non potrà mai essere oggetto di scambio.
***
Buona parte della filosofia oggi rivolge la sua attenzione prevalentemente verso l’essente finito. L’economia, giocattolo per pigri, sospesa tra scienza e prassi, è rimasta l’unica disciplina erede di una certa teologia che guarda verso l’infinito. Il mito della crescita illimitata rappresenta la forma più misera di infinito che sia riuscita a concepire e coltivare. “La parola crescita è una parola perversa. Gli economisti hanno preso in prestito le parole crescita e sviluppo dalla biologia e hanno utilizzato la metafora dell’organismo naturale per spiegare la struttura economica. Hanno però dimenticato di utilizzare l’analogia fino in fondo: in natura gli organismi crescono, si sviluppano, poi iniziano il declino e finalmente muoiono. Gli economisti invece hanno inventato l’immortalità per l’organismo economico. Ma una crescita infinita in un pianeta finito è impossibile.” (Serge Latouche, L’economia a dismisura d’uomo, Micromega, 6/2006).
La religione degli uomini doveva pur trovare asilo da qualche parte! Forse il lavoro di Stiglitz, Sen e Fitoussi tenta di riportare l'economia tra le cose terrene.
mercoledì 18 novembre 2009
Le statistiche dei polli
I morti sul lavoro sono diminuiti nel primo semetre 2009 rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente e il ministro Sacconi, con opportuna cautela, saluta la buona notizia perché indica l'auspicata applicazione delle norme sulla sicurezza del lavoro. E avrebbe pure ragione a salutarla, se fosse vera! Il problema è che, oltre all'influenza A, gira da tempo anche la ‘sindrome del pollo’ che colpisce fondamentalmente elaboratori di dati e ministri disattenti e da questo centro di incubazione il contagio si estende alla popolazione. Se si fosse immuni dalla devastante sindrome che riduce al minimo la capacità di analisi numerica si capirebbe subito che la percentuale di morti in un anno, se calcolata in base ai morti dell’anno precedente, risente del numero di persone effettivamente al lavoro (tra l'altro a poco valgono i confronti con il dato occupazionale comunicato da ISTAT per il primo semestre 2009 perché in quest'ultimo sono compresi i cassintegrati, che risultano tra i lavoratori ma di fatto non lavorano!). Se invece ogni anno si calcolasse la percentuale di morti rispetto al numero effettivo di occupati e si seguisse questa grandezza negli anni forse rimarrebbero pochi motivi per rallegrarsi.
La stessa INAIL riporta un po' di numeri per fare qualche considerazione: "Nel primo semestre del 2009 gli infortuni sul lavoro sono stati 397.980 contro i 444.958 del primo semestre 2008, mentre i casi mortali sono stati 490 a fronte dei 558 dello stesso periodo dell'anno precedente." pari ad una diminuzione del 10,6% di incidenti complessivi e del 12,2% di casi mortali. Sono questi i dati che comunica INAIL e che secondo l'Istituto è "soltanto parzialmente imputabile agli effetti della recessione economica."
Vogliamo crederci, ma perché non fornire anche il numero dei lavoratori per ciascun anno? Inoltre, sarebbe interessante sapere, oltre al dato nazionale, anche i dati di incidentalità e mortalità, così come io propongo, per ciascun settore produttivo. In questo modo qualcuno potrebbe farsi due conti della serva e trovare qualche spiacevole sorpresa.
Se non si può pretendere che ogni media sia accompagnata da opportuno indice di variabilità tra i diversi settori (cosa che avrebbe risolto anche le perplessità di Trilussa, ma ai poveri elaboratori non vogliamo chiedere cose 'troppo complicate'), che almeno si facciano le percentuali correttamente. Non dovrebbe essere difficile per chi fa le statistiche ed è abituato a "calcoli di valore scientifico" (ipse dixit Marco Fabio Sartori, Presidente/Commissario straordinario INAIL)!
La Statistica
Sai ched’è la statistica? È ’na cosa
che serve pe’ fa’ un conto in generale
de la gente che nasce, che sta male,
che more, che va in carcere e che sposa.
Ma pe’ me la statistica curiosa
è dove c’entra la percentuale,
pe’ via che, lì, la media è sempre eguale
puro co’ la persona bisognosa.
Me spiego: da li conti che se fanno
secondo le statistiche d’adesso
risurta che te tocca un pollo all’anno:
e, se nun entra ne le spese tue,
t’entra ne la statistica lo stesso
perché c’è un antro che ne magna due.
Trilussa
La stessa INAIL riporta un po' di numeri per fare qualche considerazione: "Nel primo semestre del 2009 gli infortuni sul lavoro sono stati 397.980 contro i 444.958 del primo semestre 2008, mentre i casi mortali sono stati 490 a fronte dei 558 dello stesso periodo dell'anno precedente." pari ad una diminuzione del 10,6% di incidenti complessivi e del 12,2% di casi mortali. Sono questi i dati che comunica INAIL e che secondo l'Istituto è "soltanto parzialmente imputabile agli effetti della recessione economica."
Vogliamo crederci, ma perché non fornire anche il numero dei lavoratori per ciascun anno? Inoltre, sarebbe interessante sapere, oltre al dato nazionale, anche i dati di incidentalità e mortalità, così come io propongo, per ciascun settore produttivo. In questo modo qualcuno potrebbe farsi due conti della serva e trovare qualche spiacevole sorpresa.
Se non si può pretendere che ogni media sia accompagnata da opportuno indice di variabilità tra i diversi settori (cosa che avrebbe risolto anche le perplessità di Trilussa, ma ai poveri elaboratori non vogliamo chiedere cose 'troppo complicate'), che almeno si facciano le percentuali correttamente. Non dovrebbe essere difficile per chi fa le statistiche ed è abituato a "calcoli di valore scientifico" (ipse dixit Marco Fabio Sartori, Presidente/Commissario straordinario INAIL)!
La Statistica
Sai ched’è la statistica? È ’na cosa
che serve pe’ fa’ un conto in generale
de la gente che nasce, che sta male,
che more, che va in carcere e che sposa.
Ma pe’ me la statistica curiosa
è dove c’entra la percentuale,
pe’ via che, lì, la media è sempre eguale
puro co’ la persona bisognosa.
Me spiego: da li conti che se fanno
secondo le statistiche d’adesso
risurta che te tocca un pollo all’anno:
e, se nun entra ne le spese tue,
t’entra ne la statistica lo stesso
perché c’è un antro che ne magna due.
Trilussa
martedì 17 novembre 2009
Le radici storiche
Incredibile, c’è ancora in Italia qualcuno che quando si parla di radici storiche va davvero a controllare la storia.
E’ evidente che si tratta di un miscredente, privo del ‘fondamento trascendente’.
E’ evidente che si tratta di un miscredente, privo del ‘fondamento trascendente’.
lunedì 16 novembre 2009
What a wonderful world!
Vertice alla FAO: “Non è possibile la sicurezza alimentare senza la sicurezza climatica.” Perché la dichiarazione non rimanesse soltanto un annuncio vuoto di contenuti è stato preparato un buffet in una sala climatizzata.
Dall'altra parte del pianeta procedono intensi gli incontri del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Nuovo corso della politica USA, quando alle parole seguono le parole.
Dall'altra parte del pianeta procedono intensi gli incontri del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Nuovo corso della politica USA, quando alle parole seguono le parole.
sabato 14 novembre 2009
Esperti di umanità?
L'arcidiocesi della capitale USA ha lanciato il suo ultimatum al consiglio comunale: se riconoscerà il valore legale delle nozze tra soggetti dello stesso sesso, la Chiesa interromperà i servizi in favore di migliaia di poveri che aiuta ogni giorno. (leggi qui)
Questa notizia è ripresa dal Washington Post dell'altro ieri (12 novembre 2009).
Straordinaria mostruosità! Se pensate che il comportamento di qualcuno con cui avete una qualche relazione sia un torto nei vostri confronti, cercate un mendicante che non avete mai visto prima e dategli un calcio, mi raccomando che sia forte!
Questa sì che è carità.
Questa notizia è ripresa dal Washington Post dell'altro ieri (12 novembre 2009).
Straordinaria mostruosità! Se pensate che il comportamento di qualcuno con cui avete una qualche relazione sia un torto nei vostri confronti, cercate un mendicante che non avete mai visto prima e dategli un calcio, mi raccomando che sia forte!
Questa sì che è carità.
giovedì 12 novembre 2009
Il governo non sta studiando
Qualche giorno fa Alfano dichiarava: "Il governo non sta studiando alcuna norma relativa alla prescrizione". Quando ascoltavo quelle parole io prendevo in parola il semiministro della giustizia e pensavo che il problema era esattamente quello, che avrebbero fatto una norma per salvare il miserabile perseguitato dai processi senza studiarla. Studiare per alcuni è tempo perso. La norma è arrivata, a firma di Gasparri, Quagliariello e Bricolo, tre noti esperti di diritto prestanome di Ghedini, il celebre giurista della "legge uguale per tutti ma non la sua applicazione". Il Ddl è stato presentato oggi al Senato. La norma si richiama alla tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi in attuazione della Costituzione e dell'articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
Bene, il principio è sacrosanto! Il problema però è che solitamente in un processo ci sono almeno due parti in causa. Spessissimo una delle due parti è innocente e l'altra è presumibilmente colpevole. Ora, dato un certo apparato giudiziario, con le sue risorse, umane ed economiche, si ha anche un tempo tecnico per la realizzazione dei processi, in modo che la giustizia possa definire il ruolo delle parti in causa, cercando di mantenere l'equilibrio tra il principio della legittimità della difesa ed il principio della legittimità della richiesta di giustizia della parte lesa. Si dà il caso che entrambe le parti siano cittadini. Quindi se non si interviene sulle risorse dell'apparato giudiziario, conservando l'equilibrio tra i principi citati, la domanda che fa sorgere il Ddl presentato al Senato oggi, che si limita a ridurre i tempi della prescrizione è "quale cittadino intende tutelare la norma? quale delle due parti in causa?"
Provo ad azzardare un giudizio inesperto e una previsione (o un auspicio). Si tratta dell'ennesimo mostro giuridico scritto con i piedi destinato ad essere affossato dalla Corte Costituzionale perché manca del contesto affinché la struttura giudiziaria possa dare concreta applicazione al principio della 'ragionevole' durata fissata dal Ddl (2 anni per grado di giudizio). In buona sostanza, la ragionevole durata dei processi è ragionevole proprio quando si adegua ai vincoli strutturali del sistema giudiziario, non quando è fissata giusto per cancellare i reati finanziari di qualcuno. Prima di intervenire sulla ragionevole durata di un processo occorrerebbe intervenire sulle condizioni che definiscono la ragionevolezza di un termine temporale. E' il solito maquillage, non si ha la forza (né la volontà) di fare le riforme vere e si fanno le norme spot per gettare fumo negli occhi (inoltre devo ammettere che se dovessi pensare ad una rifoma del codice stradale non vorrei certo che la facesse un pirata della strada!).
Io capisco che la disperazione fa perdere i lumi della ragione, capisco anche che è più facile perderli quando la natura non ne ha fatto dono, ma per carità, addirittura dichiarare che non si sta neanche studiando per presentare una norma è francamente troppo!
Agli incontri scuola-famiglia di un tempo, non so se oggi si usano più, in qualche occasione il docente diceva alla madre desiderosa di sapere del profitto scolastico del proprio pupillo: "Il ragazzo si impegna ma non raggiunge i risultati desiderati." Spesso era un modo educato per dire: "Signora, suo figlio è un caprone, qui ce la stiamo mettendo proprio tutta ma non vediamo molte speranze di riuscita." Era una questione di stile!
Parlare delle iniziative ad personam o delle immoralità di questo Governo è un insozzamento del pensiero, ma parlarne significa tentare di evitare di cadere ancora di più nel sozzume e nella barbarie. A volte è inevitabile e necessario sporcarsi, per gridare la propria volontà di rimanere puliti (leggi l'articolo di Repubblica).
Clicca sull'immagine per leggere dell'iniziativa organizzata su Facebook.
Bene, il principio è sacrosanto! Il problema però è che solitamente in un processo ci sono almeno due parti in causa. Spessissimo una delle due parti è innocente e l'altra è presumibilmente colpevole. Ora, dato un certo apparato giudiziario, con le sue risorse, umane ed economiche, si ha anche un tempo tecnico per la realizzazione dei processi, in modo che la giustizia possa definire il ruolo delle parti in causa, cercando di mantenere l'equilibrio tra il principio della legittimità della difesa ed il principio della legittimità della richiesta di giustizia della parte lesa. Si dà il caso che entrambe le parti siano cittadini. Quindi se non si interviene sulle risorse dell'apparato giudiziario, conservando l'equilibrio tra i principi citati, la domanda che fa sorgere il Ddl presentato al Senato oggi, che si limita a ridurre i tempi della prescrizione è "quale cittadino intende tutelare la norma? quale delle due parti in causa?"
Provo ad azzardare un giudizio inesperto e una previsione (o un auspicio). Si tratta dell'ennesimo mostro giuridico scritto con i piedi destinato ad essere affossato dalla Corte Costituzionale perché manca del contesto affinché la struttura giudiziaria possa dare concreta applicazione al principio della 'ragionevole' durata fissata dal Ddl (2 anni per grado di giudizio). In buona sostanza, la ragionevole durata dei processi è ragionevole proprio quando si adegua ai vincoli strutturali del sistema giudiziario, non quando è fissata giusto per cancellare i reati finanziari di qualcuno. Prima di intervenire sulla ragionevole durata di un processo occorrerebbe intervenire sulle condizioni che definiscono la ragionevolezza di un termine temporale. E' il solito maquillage, non si ha la forza (né la volontà) di fare le riforme vere e si fanno le norme spot per gettare fumo negli occhi (inoltre devo ammettere che se dovessi pensare ad una rifoma del codice stradale non vorrei certo che la facesse un pirata della strada!).
Io capisco che la disperazione fa perdere i lumi della ragione, capisco anche che è più facile perderli quando la natura non ne ha fatto dono, ma per carità, addirittura dichiarare che non si sta neanche studiando per presentare una norma è francamente troppo!
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Agli incontri scuola-famiglia di un tempo, non so se oggi si usano più, in qualche occasione il docente diceva alla madre desiderosa di sapere del profitto scolastico del proprio pupillo: "Il ragazzo si impegna ma non raggiunge i risultati desiderati." Spesso era un modo educato per dire: "Signora, suo figlio è un caprone, qui ce la stiamo mettendo proprio tutta ma non vediamo molte speranze di riuscita." Era una questione di stile!
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Parlare delle iniziative ad personam o delle immoralità di questo Governo è un insozzamento del pensiero, ma parlarne significa tentare di evitare di cadere ancora di più nel sozzume e nella barbarie. A volte è inevitabile e necessario sporcarsi, per gridare la propria volontà di rimanere puliti (leggi l'articolo di Repubblica).
Clicca sull'immagine per leggere dell'iniziativa organizzata su Facebook.
mercoledì 11 novembre 2009
La lampadina fulminata
Da più di un anno abbiamo una piccola cantina in affitto al piano terra. E' comodo avere una cantina, in un angolo ci metto ogni ben di dio, vino, olio, marmellate e quant'altro porto da giù tutte le volte che vado a trovare i miei e poi in cantina ci puoi lasciare le cose che normalmente non terresti dentro casa, biciclette e cianfrusaglie varie che occuperebbero spazio nelle nostre case già troppo piene. E' comodo avere una cantina, anche se a volte ti tocca fare quattro piani di scale per andare a prendere quello che ti serve perché ti sei scordato di fermarti a prenderlo al ritorno dal lavoro.
Qualche mese fa in cantina si è fulminata la lampadina, non dava più segni di volersi accendere. Le prime volte che entravo in cantiva era spontaneo provare ad accendere l'interruttore ma dopo alcuni giorni è diventato inutile provarci. Non c'è mai stato il tempo per poter sostituire la lampadina fulminata. Di sera, quando entravo in cantina che ormai era buio, mi servivo dello schermo del cellulare per muovere i pochi passi che mi conducono dalla porta all'armadietto delle riserve. Ma quella luce è fioca e non è successo poche volte di dovermi accontentare del vino bianco quando invece cercavo il rosso o viceversa, per non dire della volta che sono tornato su con una bottiglia di passato di pomodoro invece del vino!
Giorni fa sono venuti a farci visita i genitori di Vito. Sapevano della lampadina fulminata in cantina ma il padre di Vito doveva prendere qualcosa e un accendino poteva bastare. Entrando ha premuto l'interruttore e la luce si è accesa. Non era fulminata, funzionava ancora, non è mai stata fulminata!
Quante lampadine non proviamo più ad accendere, assuefatti da una abitudine cui basta poco tempo per abitare stabilmente le nostre menti? Quante lampadine ancora funzionanti consideriamo fulminate e in attesa di sostituzione?
Nell'immensa cantina della storia, dove regna il buio del tempo non proviamo più ad accendere lampadine che pensiamo fulminate. Forse tra quelle lampadine ci sono anche le "cause perse" di cui parla Slavoj Žižek. Abbiamo visto cose terribili alla luce di quelle lampadine, eppure era altra la luce che illuminava la cantina dell'umanità, luce più antica, mai davvero spenta, luce nera che si spegnerà solo quando abbandoneremo la cantina per non farvi più ritorno.
«[...] C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, e le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine cresce davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.[…]» W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia (1940), Tesi IX. In: Angelus novus. Saggi e frammenti, Einaudi, p. 80, 1995.
«All of old. Nothing else ever. Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better.» S. Beckett, Worstward Ho, 1983.
Qualche mese fa in cantina si è fulminata la lampadina, non dava più segni di volersi accendere. Le prime volte che entravo in cantiva era spontaneo provare ad accendere l'interruttore ma dopo alcuni giorni è diventato inutile provarci. Non c'è mai stato il tempo per poter sostituire la lampadina fulminata. Di sera, quando entravo in cantina che ormai era buio, mi servivo dello schermo del cellulare per muovere i pochi passi che mi conducono dalla porta all'armadietto delle riserve. Ma quella luce è fioca e non è successo poche volte di dovermi accontentare del vino bianco quando invece cercavo il rosso o viceversa, per non dire della volta che sono tornato su con una bottiglia di passato di pomodoro invece del vino!
Giorni fa sono venuti a farci visita i genitori di Vito. Sapevano della lampadina fulminata in cantina ma il padre di Vito doveva prendere qualcosa e un accendino poteva bastare. Entrando ha premuto l'interruttore e la luce si è accesa. Non era fulminata, funzionava ancora, non è mai stata fulminata!
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Quante lampadine non proviamo più ad accendere, assuefatti da una abitudine cui basta poco tempo per abitare stabilmente le nostre menti? Quante lampadine ancora funzionanti consideriamo fulminate e in attesa di sostituzione?
Nell'immensa cantina della storia, dove regna il buio del tempo non proviamo più ad accendere lampadine che pensiamo fulminate. Forse tra quelle lampadine ci sono anche le "cause perse" di cui parla Slavoj Žižek. Abbiamo visto cose terribili alla luce di quelle lampadine, eppure era altra la luce che illuminava la cantina dell'umanità, luce più antica, mai davvero spenta, luce nera che si spegnerà solo quando abbandoneremo la cantina per non farvi più ritorno.
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«[...] C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, e le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine cresce davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.[…]» W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia (1940), Tesi IX. In: Angelus novus. Saggi e frammenti, Einaudi, p. 80, 1995.
«All of old. Nothing else ever. Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better.» S. Beckett, Worstward Ho, 1983.
martedì 10 novembre 2009
Straziante meravigliosa bellezza
« L'Italia è un paese che diventa sempre più stupido e ignorante. Vi si coltivano retoriche sempre più insopportabili. Non c'è del resto conformismo peggiore di quello di sinistra, soprattutto naturalmente quando viene fatto proprio anche dalla destra.» Pier Paolo Pasolini, Bestia da stile, Garzanti, 1979.
Da: "Che cosa sono le nuvole?", 1967
- Perché non fanno mai vedere i film di Pier Paolo Pasolini?
- Perché era un gigante in un tempo di nani, quel tempo dura ancora!
Il confronto reale tra "fascismi" non può essere dunque "cronologicamente", tra il fascismo fascista e il fascismo democristiano: ma tra il fascismo fascista e il fascismo radicalmente, totalmente, imprevedibilmente nuovo che è nato da quel "qualcosa" che è successo una decina di anni fa.
Poiché sono uno scrittore, e scrivo in polemica, o almeno discuto, con altri scrittori, mi si lasci dare una definizione di carattere poetico-letterario di quel fenomeno che è successo in Italia una decina di anni fa. Ciò servirà a semplificare e ad abbreviare il nostro discorso (e probabilmente a capirlo anche meglio).
Nei primi anni sessanta, a causa dell'inquinamento dell'aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell'inquinamento dell'acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c'erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta).
Quel "qualcosa" che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque "scomparsa delle lucciole".
Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente distinte, che non solo non si possono confrontare tra loro, implicandone una certa continuità, ma sono diventate addirittura storicamente incommensurabili. La prima fase di tale regime (come giustamente hanno sempre insistito a chiamarlo i radicali) è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a oggi. Osserviamole una alla volta.
Prima della scomparsa delle lucciole
La continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta. Taccio su ciò, che a questo proposito, si diceva anche allora, magari appunto nel "Politecnico": la mancata epurazione, la continuità dei codici, la violenza poliziesca, il disprezzo per la Costituzione. E mi soffermo su ciò che ha poi contato in una coscienza storica retrospettiva. La democrazia che gli antifascisti democristiani opponevano alla dittatura fascista, era spudoratamente formale.
Si fondava su una maggioranza assoluta ottenuta attraverso i voti di enormi strati di ceti medi e di enormi masse contadine, gestiti dal Vaticano. Tale gestione del Vaticano era possibile solo se fondata su un regime totalmente repressivo. In tale universo i "valori" che contavano erano gli stessi che per il fascismo: la Chiesa, la Patria, la famiglia, l'obbedienza, la disciplina, l'ordine, il risparmio, la moralità. Tali "valori" (come del resto durante il fascismo) erano "anche reali": appartenevano cioè alle culture particolari e concrete che costituivano l'Italia arcaicamente agricola e paleoindustriale. Ma nel momento in cui venivano assunti a "valori" nazionali non potevano che perdere ogni realtà, e divenire atroce, stupido, repressivo conformismo di Stato: il conformismo del potere fascista e democristiano. Provincialità, rozzezza e ignoranza sia delle "élites" che, a livello diverso, delle masse, erano uguali sia durante il fascismo sia durante la prima fase del regime democristiano. Paradigmi di questa ignoranza erano il pragmatismo e il formalismo vaticani.
Tutto ciò che risulta chiaro e inequivocabilmente oggi, perché allora si nutrivano, da parte degli intellettuali e degli oppositori, insensate speranze. Si sperava che tutto ciò non fosse completamente vero, e che la democrazia formale contasse in fondo qualcosa. Ora, prima di passare alla seconda fase, dovrò dedicare qualche riga al momento di transizione.
Durante la scomparsa delle lucciole
In questo periodo la distinzione tra fascismo e fascismo operata sul "Politecnico" poteva anche funzionare. Infatti sia il grande paese che si stava formando dentro il paese - cioè la massa operaia e contadina organizzata dal PCI - sia gli intellettuali anche più avanzati e critici, non si erano accorti che "le lucciole stavano scomparendo". Essi erano informati abbastanza bene dalla sociologia (che in quegli anni aveva messo in crisi il metodo dell'analisi marxista): ma erano informazioni ancora non vissute, in sostanza formalistiche. Nessuno poteva sospettare la realtà storica che sarebbe stato l'immediato futuro; né identificare quello che allora si chiamava "benessere" con lo "sviluppo" che avrebbe dovuto realizzare in Italia per la prima volta pienamente il "genocidio" di cui nel "Manifesto" parlava Marx.
Dopo la scomparsa delle lucciole
I "valori" nazionalizzati e quindi falsificati del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non contano più. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più. E non servono neanche più in quanto falsi. Essi sopravvivono nel clerico-fascismo emarginato (anche il MSI in sostanza li ripudia). A sostituirli sono i "valori" di un nuovo tipo di civiltà, totalmente "altra" rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale. Questa esperienza è stata fatta già da altri Stati. Ma in Italia essa è del tutto particolare, perché si tratta della prima "unificazione" reale subita dal nostro paese; mentre negli altri paesi essa si sovrappone con una certa logica alla unificazione monarchica e alla ulteriore unificazione della rivoluzione borghese e industriale. Il trauma italiano del contatto tra l'"arcaicità" pluralistica e il livellamento industriale ha forse un solo precedente: la Germania prima di Hitler. Anche qui i valori delle diverse culture particolaristiche sono stati distrutti dalla violenta omologazione dell'industrializzazione: con la conseguente formazione di quelle enormi masse, non più antiche (contadine, artigiane) e non ancor moderne (borghesi), che hanno costituito il selvaggio, aberrante, imponderabile corpo delle truppe naziste.
In Italia sta succedendo qualcosa di simile: e con ancora maggiore violenza, poiché l'industrializzazione degli anni Settanta costituisce una "mutazione" decisiva anche rispetto a quella tedesca di cinquant'anni fa. Non siamo più di fronte, come tutti ormai sanno, a "tempi nuovi", ma a una nuova epoca della storia umana, di quella storia umana le cui scadenze sono millenaristiche. Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono diventati in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l'avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione disperata a essi), sia al di fuori degli schemi populisti e umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque "coi miei sensi" il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiani, fino a una irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza. Vanamente il potere "totalitario" iterava e reiterava le sue imposizioni comportamentistiche: la coscienza non ne era implicata. I "modelli" fascisti non erano che maschere, da mettere e levare. Quando il fascismo fascista è caduto, tutto è tornato come prima. Lo si è visto anche in Portogallo: dopo quarant'anni di fascismo, il popolo portoghese ha celebrato il primo maggio come se l'ultimo lo avesse celebrato l'anno prima.
È ridicolo dunque che Fortini retrodati la distinzione tra fascismo e fascismo al primo dopoguerra: la distinzione tra il fascismo fascista e il fascismo di questa seconda fase del potere democristiano non solo non ha confronti nella nostra storia, ma probabilmente nell'intera storia.
Io tuttavia non scrivo il presente articolo solo per polemizzare su questo punto, benché esso mi stia molto a cuore. Scrivo il presente articolo in realtà per una ragione molto diversa. Eccola.
Tutti i miei lettori si saranno certamente accorti del cambiamento dei potenti democristiani: in pochi mesi, essi sono diventati delle maschere funebri. È vero: essi continuano a sfoderare radiosi sorrisi, di una sincerità incredibile. Nelle loro pupille si raggruma della vera, beata luce di buon umore. Quando non si tratti dell'ammiccante luce dell'arguzia e della furberia. Cosa che agli elettori piace, pare, quanto la piena felicità. Inoltre, i nostri potenti continuano imperterriti i loro sproloqui incomprensibili; in cui galleggiano i "flatus vocis" delle solite promesse stereotipe. In realtà essi sono appunto delle maschere. Son certo che, a sollevare quelle maschere, non si troverebbe nemmeno un mucchio d'ossa o di cenere: ci sarebbe il nulla, il vuoto. La spiegazione è semplice: oggi in realtà in Italia c'è un drammatico vuoto di potere. Ma questo è il punto: non un vuoto di potere legislativo o esecutivo, non un vuoto di potere dirigenziale, né, infine, un vuoto di potere politico in un qualsiasi senso tradizionale. Ma un vuoto di potere in sé.
Come siamo giunti, a questo vuoto? O, meglio, "come ci sono giunti gli uomini di potere?".
La spiegazione, ancora, è semplice: gli uomini di potere democristiani sono passati dalla "fase delle lucciole" alla "fase della scomparsa delle lucciole" senza accorgersene. Per quanto ciò possa sembrare prossimo alla criminalità la loro inconsapevolezza su questo punto è stata assoluta; non hanno sospettato minimamente che il potere, che essi detenevano e gestivano, non stava semplicemente subendo una "normale" evoluzione, ma sta cambiando radicalmente natura.
Essi si sono illusi che nel loro regime tutto sostanzialmente sarebbe stato uguale: che, per esempio, avrebbero potuto contare in eterno sul Vaticano: senza accorgersi che il potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, non sapeva più che farsene del Vaticano quale centro di vita contadina, retrograda, povera. Essi si erano illusi di poter contare in eterno su un esercito nazionalista (come appunto i loro predecessori fascisti): e non vedevano che il potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, già manovrava per gettare la base di eserciti nuovi in quanto transnazionali, quasi polizie tecnocratiche. E lo stesso si dica per la famiglia, costretta, senza soluzione di continuità dai tempi del fascismo, al risparmio, alla moralità: ora il potere dei consumi imponeva a essa cambiamenti radicali nel senso della modernità, fino ad accettare il divorzio, e ormai, potenzialmente, tutto il resto, senza più limiti (o almeno fino ai limiti consentiti dalla permissività del nuovo potere, peggio che totalitario in quanto violentemente totalizzante).
Gli uomini del potere democristiani hanno subito tutto questo, credendo di amministrarselo e soprattutto di manipolarselo. Non si sono accorti che esso era "altro": incommensurabile non solo a loro ma a tutta una forma di civiltà. Come sempre (cfr. Gramsci) solo nella lingua si sono avuti dei sintomi. Nella fase di transizione - ossia "durante" la scomparsa delle lucciole - gli uomini di potere democristiani hanno quasi bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state, organizzate dal '69 ad oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere.
Dico formalmente perché, ripeto, nella realtà, i potenti democristiani coprono con la loro manovra da automi e i loro sorrisi, il vuoto. Il potere reale procede senza di loro: ed essi non hanno più nelle mani che quegli inutili apparati che, di essi, rendono reale nient'altro che il luttuoso doppiopetto.
Tuttavia nella storia il "vuoto" non può sussistere: esso può essere predicato solo in astratto e per assurdo. È probabile che in effetti il "vuoto" di cui parlo stia già riempiendosi, attraverso una crisi e un riassestamento che non può non sconvolgere l'intera nazione. Ne è un indice ad esempio l'attesa "morbosa" del colpo di Stato. Quasi che si trattasse soltanto di "sostituire" il gruppo di uomini che ci ha tanto spaventosamente governati per trenta anni, portando l'Italia al disastro economico, ecologico, urbanistico, antropologico.
In realtà la falsa sostituzione di queste "teste di legno" (non meno, anzi più funereamente carnevalesche), attuata attraverso l'artificiale rinforzamento dei vecchi apparati del potere fascista, non servirebbe a niente (e sia chiaro che, in tal caso, la "truppa" sarebbe, già per sua costituzione, nazista). Il potere reale che da una decina di anni le "teste di legno" hanno servito senza accorgersi della sua realtà: ecco qualcosa che potrebbe aver già riempito il "vuoto" (vanificando anche la possibile partecipazione al governo del grande paese comunista che è nato nello sfacelo dell'Italia: perché non si tratta di "governare"). Di tale "potere reale" noi abbiamo immagini astratte e in fondo apocalittiche: non sappiamo raffigurarci quali "forme" esso assumerebbe sostituendosi direttamente ai servi che l'hanno preso per una semplice "modernizzazione" di tecniche. Ad ogni modo, quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore) sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l'intera Montedison per una lucciola.
***
Da: "Che cosa sono le nuvole?", 1967
***
Dialogo con un amico:- Perché non fanno mai vedere i film di Pier Paolo Pasolini?
- Perché era un gigante in un tempo di nani, quel tempo dura ancora!
***
Il vuoto del potere
ovvero
L'articolo delle lucciole
di Pier Paolo Pasolini (5 marzo 1922 – 2 novembre 1975)
dal "Corriere della sera" del 1° febbraio 1975
La distinzione tra fascismo aggettivo e fascismo sostantivo risale niente meno che al giornale "Il Politecnico", cioè all'immediato dopoguerra..." Così comincia un intervento di Franco Fortini sul fascismo ("L'Europeo, 26-12-1974): intervento che, come si dice, io sottoscrivo tutto, e pienamente. Non posso però sottoscrivere il tendenzioso esordio. Infatti la distinzione tra "fascismi" fatta sul "Politecnico" non è né pertinente né attuale. Essa poteva valere ancora fino a circa una decina di anni fa: quando il regime democristiano era ancora la pura e semplice continuazione del regime fascista. Ma una decina di anni fa, è successo "qualcosa". "Qualcosa" che non c'era e non era prevedibile non solo ai tempi del "Politecnico", ma nemmeno un anno prima che accadesse (o addirittura, come vedremo, mentre accadeva).ovvero
L'articolo delle lucciole
di Pier Paolo Pasolini (5 marzo 1922 – 2 novembre 1975)
dal "Corriere della sera" del 1° febbraio 1975
Il confronto reale tra "fascismi" non può essere dunque "cronologicamente", tra il fascismo fascista e il fascismo democristiano: ma tra il fascismo fascista e il fascismo radicalmente, totalmente, imprevedibilmente nuovo che è nato da quel "qualcosa" che è successo una decina di anni fa.
Poiché sono uno scrittore, e scrivo in polemica, o almeno discuto, con altri scrittori, mi si lasci dare una definizione di carattere poetico-letterario di quel fenomeno che è successo in Italia una decina di anni fa. Ciò servirà a semplificare e ad abbreviare il nostro discorso (e probabilmente a capirlo anche meglio).
Nei primi anni sessanta, a causa dell'inquinamento dell'aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell'inquinamento dell'acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c'erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta).
Quel "qualcosa" che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque "scomparsa delle lucciole".
Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente distinte, che non solo non si possono confrontare tra loro, implicandone una certa continuità, ma sono diventate addirittura storicamente incommensurabili. La prima fase di tale regime (come giustamente hanno sempre insistito a chiamarlo i radicali) è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a oggi. Osserviamole una alla volta.
Prima della scomparsa delle lucciole
La continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta. Taccio su ciò, che a questo proposito, si diceva anche allora, magari appunto nel "Politecnico": la mancata epurazione, la continuità dei codici, la violenza poliziesca, il disprezzo per la Costituzione. E mi soffermo su ciò che ha poi contato in una coscienza storica retrospettiva. La democrazia che gli antifascisti democristiani opponevano alla dittatura fascista, era spudoratamente formale.
Si fondava su una maggioranza assoluta ottenuta attraverso i voti di enormi strati di ceti medi e di enormi masse contadine, gestiti dal Vaticano. Tale gestione del Vaticano era possibile solo se fondata su un regime totalmente repressivo. In tale universo i "valori" che contavano erano gli stessi che per il fascismo: la Chiesa, la Patria, la famiglia, l'obbedienza, la disciplina, l'ordine, il risparmio, la moralità. Tali "valori" (come del resto durante il fascismo) erano "anche reali": appartenevano cioè alle culture particolari e concrete che costituivano l'Italia arcaicamente agricola e paleoindustriale. Ma nel momento in cui venivano assunti a "valori" nazionali non potevano che perdere ogni realtà, e divenire atroce, stupido, repressivo conformismo di Stato: il conformismo del potere fascista e democristiano. Provincialità, rozzezza e ignoranza sia delle "élites" che, a livello diverso, delle masse, erano uguali sia durante il fascismo sia durante la prima fase del regime democristiano. Paradigmi di questa ignoranza erano il pragmatismo e il formalismo vaticani.
Tutto ciò che risulta chiaro e inequivocabilmente oggi, perché allora si nutrivano, da parte degli intellettuali e degli oppositori, insensate speranze. Si sperava che tutto ciò non fosse completamente vero, e che la democrazia formale contasse in fondo qualcosa. Ora, prima di passare alla seconda fase, dovrò dedicare qualche riga al momento di transizione.
Durante la scomparsa delle lucciole
In questo periodo la distinzione tra fascismo e fascismo operata sul "Politecnico" poteva anche funzionare. Infatti sia il grande paese che si stava formando dentro il paese - cioè la massa operaia e contadina organizzata dal PCI - sia gli intellettuali anche più avanzati e critici, non si erano accorti che "le lucciole stavano scomparendo". Essi erano informati abbastanza bene dalla sociologia (che in quegli anni aveva messo in crisi il metodo dell'analisi marxista): ma erano informazioni ancora non vissute, in sostanza formalistiche. Nessuno poteva sospettare la realtà storica che sarebbe stato l'immediato futuro; né identificare quello che allora si chiamava "benessere" con lo "sviluppo" che avrebbe dovuto realizzare in Italia per la prima volta pienamente il "genocidio" di cui nel "Manifesto" parlava Marx.
Dopo la scomparsa delle lucciole
I "valori" nazionalizzati e quindi falsificati del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non contano più. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più. E non servono neanche più in quanto falsi. Essi sopravvivono nel clerico-fascismo emarginato (anche il MSI in sostanza li ripudia). A sostituirli sono i "valori" di un nuovo tipo di civiltà, totalmente "altra" rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale. Questa esperienza è stata fatta già da altri Stati. Ma in Italia essa è del tutto particolare, perché si tratta della prima "unificazione" reale subita dal nostro paese; mentre negli altri paesi essa si sovrappone con una certa logica alla unificazione monarchica e alla ulteriore unificazione della rivoluzione borghese e industriale. Il trauma italiano del contatto tra l'"arcaicità" pluralistica e il livellamento industriale ha forse un solo precedente: la Germania prima di Hitler. Anche qui i valori delle diverse culture particolaristiche sono stati distrutti dalla violenta omologazione dell'industrializzazione: con la conseguente formazione di quelle enormi masse, non più antiche (contadine, artigiane) e non ancor moderne (borghesi), che hanno costituito il selvaggio, aberrante, imponderabile corpo delle truppe naziste.
In Italia sta succedendo qualcosa di simile: e con ancora maggiore violenza, poiché l'industrializzazione degli anni Settanta costituisce una "mutazione" decisiva anche rispetto a quella tedesca di cinquant'anni fa. Non siamo più di fronte, come tutti ormai sanno, a "tempi nuovi", ma a una nuova epoca della storia umana, di quella storia umana le cui scadenze sono millenaristiche. Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono diventati in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l'avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione disperata a essi), sia al di fuori degli schemi populisti e umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque "coi miei sensi" il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiani, fino a una irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza. Vanamente il potere "totalitario" iterava e reiterava le sue imposizioni comportamentistiche: la coscienza non ne era implicata. I "modelli" fascisti non erano che maschere, da mettere e levare. Quando il fascismo fascista è caduto, tutto è tornato come prima. Lo si è visto anche in Portogallo: dopo quarant'anni di fascismo, il popolo portoghese ha celebrato il primo maggio come se l'ultimo lo avesse celebrato l'anno prima.
È ridicolo dunque che Fortini retrodati la distinzione tra fascismo e fascismo al primo dopoguerra: la distinzione tra il fascismo fascista e il fascismo di questa seconda fase del potere democristiano non solo non ha confronti nella nostra storia, ma probabilmente nell'intera storia.
Io tuttavia non scrivo il presente articolo solo per polemizzare su questo punto, benché esso mi stia molto a cuore. Scrivo il presente articolo in realtà per una ragione molto diversa. Eccola.
Tutti i miei lettori si saranno certamente accorti del cambiamento dei potenti democristiani: in pochi mesi, essi sono diventati delle maschere funebri. È vero: essi continuano a sfoderare radiosi sorrisi, di una sincerità incredibile. Nelle loro pupille si raggruma della vera, beata luce di buon umore. Quando non si tratti dell'ammiccante luce dell'arguzia e della furberia. Cosa che agli elettori piace, pare, quanto la piena felicità. Inoltre, i nostri potenti continuano imperterriti i loro sproloqui incomprensibili; in cui galleggiano i "flatus vocis" delle solite promesse stereotipe. In realtà essi sono appunto delle maschere. Son certo che, a sollevare quelle maschere, non si troverebbe nemmeno un mucchio d'ossa o di cenere: ci sarebbe il nulla, il vuoto. La spiegazione è semplice: oggi in realtà in Italia c'è un drammatico vuoto di potere. Ma questo è il punto: non un vuoto di potere legislativo o esecutivo, non un vuoto di potere dirigenziale, né, infine, un vuoto di potere politico in un qualsiasi senso tradizionale. Ma un vuoto di potere in sé.
Come siamo giunti, a questo vuoto? O, meglio, "come ci sono giunti gli uomini di potere?".
La spiegazione, ancora, è semplice: gli uomini di potere democristiani sono passati dalla "fase delle lucciole" alla "fase della scomparsa delle lucciole" senza accorgersene. Per quanto ciò possa sembrare prossimo alla criminalità la loro inconsapevolezza su questo punto è stata assoluta; non hanno sospettato minimamente che il potere, che essi detenevano e gestivano, non stava semplicemente subendo una "normale" evoluzione, ma sta cambiando radicalmente natura.
Essi si sono illusi che nel loro regime tutto sostanzialmente sarebbe stato uguale: che, per esempio, avrebbero potuto contare in eterno sul Vaticano: senza accorgersi che il potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, non sapeva più che farsene del Vaticano quale centro di vita contadina, retrograda, povera. Essi si erano illusi di poter contare in eterno su un esercito nazionalista (come appunto i loro predecessori fascisti): e non vedevano che il potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, già manovrava per gettare la base di eserciti nuovi in quanto transnazionali, quasi polizie tecnocratiche. E lo stesso si dica per la famiglia, costretta, senza soluzione di continuità dai tempi del fascismo, al risparmio, alla moralità: ora il potere dei consumi imponeva a essa cambiamenti radicali nel senso della modernità, fino ad accettare il divorzio, e ormai, potenzialmente, tutto il resto, senza più limiti (o almeno fino ai limiti consentiti dalla permissività del nuovo potere, peggio che totalitario in quanto violentemente totalizzante).
Gli uomini del potere democristiani hanno subito tutto questo, credendo di amministrarselo e soprattutto di manipolarselo. Non si sono accorti che esso era "altro": incommensurabile non solo a loro ma a tutta una forma di civiltà. Come sempre (cfr. Gramsci) solo nella lingua si sono avuti dei sintomi. Nella fase di transizione - ossia "durante" la scomparsa delle lucciole - gli uomini di potere democristiani hanno quasi bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state, organizzate dal '69 ad oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere.
Dico formalmente perché, ripeto, nella realtà, i potenti democristiani coprono con la loro manovra da automi e i loro sorrisi, il vuoto. Il potere reale procede senza di loro: ed essi non hanno più nelle mani che quegli inutili apparati che, di essi, rendono reale nient'altro che il luttuoso doppiopetto.
Tuttavia nella storia il "vuoto" non può sussistere: esso può essere predicato solo in astratto e per assurdo. È probabile che in effetti il "vuoto" di cui parlo stia già riempiendosi, attraverso una crisi e un riassestamento che non può non sconvolgere l'intera nazione. Ne è un indice ad esempio l'attesa "morbosa" del colpo di Stato. Quasi che si trattasse soltanto di "sostituire" il gruppo di uomini che ci ha tanto spaventosamente governati per trenta anni, portando l'Italia al disastro economico, ecologico, urbanistico, antropologico.
In realtà la falsa sostituzione di queste "teste di legno" (non meno, anzi più funereamente carnevalesche), attuata attraverso l'artificiale rinforzamento dei vecchi apparati del potere fascista, non servirebbe a niente (e sia chiaro che, in tal caso, la "truppa" sarebbe, già per sua costituzione, nazista). Il potere reale che da una decina di anni le "teste di legno" hanno servito senza accorgersi della sua realtà: ecco qualcosa che potrebbe aver già riempito il "vuoto" (vanificando anche la possibile partecipazione al governo del grande paese comunista che è nato nello sfacelo dell'Italia: perché non si tratta di "governare"). Di tale "potere reale" noi abbiamo immagini astratte e in fondo apocalittiche: non sappiamo raffigurarci quali "forme" esso assumerebbe sostituendosi direttamente ai servi che l'hanno preso per una semplice "modernizzazione" di tecniche. Ad ogni modo, quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore) sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l'intera Montedison per una lucciola.
lunedì 9 novembre 2009
Vent'anni dopo
Vent'anni fa cadeva il muro che divideva in due una città, specchio di un mondo diviso, un mondo separato da un muro alto non più di tre metri e mezzo.
Il muro cadde, le sue pietre si spostarono altrove, parte andarono ai confini del benessere, dove oggi abita il benavere, lì fu realizzato un muro che lasciava fuori una umanità affamata di pane e diritti, l'altra parte del muro si annidò dentro ciascuno di noi dove il muro poteva essere al riparo dal vento di cambiamento che invochiamo.
I muri sono ancora in piedi, adesso. Quello che cadde vent'anni fa, e che doveva cadere, era una prova generale di una umanità che non sa rinunciare ai suoi muri. Salvo pensare che la libera circolazione di merci inutili sia sufficiente a testimoniare della caduta dei muri.
Il muro cadde, le sue pietre si spostarono altrove, parte andarono ai confini del benessere, dove oggi abita il benavere, lì fu realizzato un muro che lasciava fuori una umanità affamata di pane e diritti, l'altra parte del muro si annidò dentro ciascuno di noi dove il muro poteva essere al riparo dal vento di cambiamento che invochiamo.
I muri sono ancora in piedi, adesso. Quello che cadde vent'anni fa, e che doveva cadere, era una prova generale di una umanità che non sa rinunciare ai suoi muri. Salvo pensare che la libera circolazione di merci inutili sia sufficiente a testimoniare della caduta dei muri.
giovedì 5 novembre 2009
Delirio di numeri e vite a scadenza
Stando alle nozioni di matematica residue nella mia memoria, la distanza tra un numero naturale ed il suo successivo è sempre uguale a 1. Naturalmente non mi è mai venuto in mente di mettere in discussione questo fatto, non ne ho la competenza, però da un po' di tempo mi è sorto qualche dubbio!
Per esempio mi viene da pensare che forse la distanza tra 0 e 1 sia molto più grande della distanza tra 1 e 2, inoltre man mano che si procede per i successivi intervalli la distanza tra un numero naturale ed il suo successivo diventa sempre più piccola. Sarà perché mi diverto a fare incroci poco onesti tra le discipline più disparate? Sarà perché confondo i vari ambiti del pensiero o sarà semplicemente perché sono un ignorante in matematica. Comunque sia, mi piace pensare che la cosa non sia poi così peregrina, è come assumere una visione topografica o prospettica dell’asse dei numeri naturali, ponendosi sul punto 0. Si obietterà che la matematica corregge l’errore prospettico dovuto ad una certa posizione piuttosto che un’altra e rende i suoi principi validi indipendentemente dal punto di osservazione. Io non posso che essere d’accordo, ma in definitiva quell’errore prospettico è il risultato dell’evoluzione del nostro sistema percettivo o più semplicemente di una visione sociale e politica (nel senso ampio del termine) e probabilmente eliminarlo del tutto può comportare qualche rischio.
Ignorando per un po’ la mia ignoranza in matematica e pensando a quello che accade in ambito sociale non sarebbe difficile comprendere questa mia ‘fantasia’, eppure non è così facile trovare chi possa seguirmi nel delirio che a me sembra di una chiarezza cristallina.
Pensateci un attimo! Se uno perde il suo lavoro, possiamo dire che siamo nel caso di passaggio da uno stato 1 ad uno stato 0, mentre se a qualcuno tolgono qualcosa dal suo stipendio potremmo dire che passa da 2 a 1 o da 100 a 99, o da 51 a 50. Bene, in questi casi secondo voi quali sono le distanze più ampie da colmare? Quali sono le priorità da assegnare nella lotta al ripristino dello stato che si perde o nella lotta per conquistare uno stato? Io non ho dubbi, nella lotta contro la perdita di uno stato prima viene il caso di passaggio da 1 a 0, poi quello da 2 a 1, dopo ancora quella da 51 a 50 ed infine, molto dopo, viene quello da 100 a 99.
Se c’è da difendere delle posizioni (almeno in ambito lavorativo), le distanze tra un numero e quello successivo non possono essere considerate tutte uguali, ecco perché penso che la distanza tra 0 e 1 sia molto più grande della distanza che c’è tra ogni altro numero ed il suo successivo e che le distanze diventano sempre meno ampie man mano che i numeri crescono. Ecco, questo tipo di approccio, per esempio, non dovrebbe costare alcuna fatica alle organizzazioni sindacali che nascono proprio per difendere il lavoro e invece curiosamente assisto ad una sorta di approccio che potremmo definire troppo matematico. Si potrebbe avanzare la critica che il problema è che le organizzazioni sindacali sono nate quando il lavoro era una categoria irrinunciabile per la produzione e che la loro lotta si esprimeva tutta nella conquista di migliori condizioni di lavoro, mentre adesso che in alcuni settori il lavoro diventa una categoria alla quale la produzione può rinunciare più facilmente, perché non più direttamente connessa con il lavoro in senso stretto, ai sindacati viene meno la loro missione, ma questo è un discorso che ci porterebbe troppo lontano.
Dicevo delle 'correzioni prospettiche' che mi riesce difficile comprendere quando sono i sindacati a pensare che la distanza tra un numero naturale qualsiasi e il suo successivo sia sempre uguale a 1 (forse si tratta di un problema di banale lettura lineare laddove basterebbe un approccio non lineare! mah, ci devo pensare). Nell'istituto dove lavoro, dopo le prime 200 persone mandate a casa a giugno, altre 25 persone hanno un contratto in scadenza domani e nessuna certezza sull’eventuale rinnovo (che Tremonti vada a dire a loro che la crisi è ormai alle spalle! mi piacerebbe concedermi battute facili ma non è il caso, dico solo che per molti può essere più preoccupante avere qualcosa alle spalle che poterla guardare in faccia). Naturalmente i sindacati confederali oggi hanno manifestato per la scadenza dei contratti e per il loro rinnovo. Una bella manifestazione sotto il Ministero dell’Ambiente, che notoriamente ha a capo persone sensibile ai problemi dei lavoratori e soprattutto per le tematiche ambientali! Il volantino della manifestazione diceva “per avere riposte positive sul precariato e sulle vertenze contrattuali”. Nella mia testa anche le vertenze contrattuali riguardavano il precariato, sempre per via di quella visione prospettica che dicevo dei numeri. Invece, ascoltando i discorsi della gente che manifestava ho capito che le vertenze contrattuali riguardavano materia di decurtazione di salario accessorio, mentre il tema del precariato era decisamente in secondo piano, qualcosa di cui non si poteva non parlare, per questioni di decoro, ma che tutto sommato non è più così rilevante (dopo un’ondata di assunzioni a tempo indeterminanto nel mio istituto, tra cui c’è stata anche la mia - grazie ad una norma approvata dal governo Prodi ed osteggiata fino alla fine dal governo Berlusconi - i sindacati possono rivendicare la loro brava vittoria e qualche caduto sul campo rientra negli effetti attesi!!!). Per carità, il salario accessorio è tema nobilissimo e manifestare per opporsi alla sua decurtazione, ritenuta ingiusta, è cosa legittima ma, data l’attuale situazione, non credo sia una priorità e ritengo non dovrebbe essere in cima alle priorità di un sindacato (25 contratti scadono domani, altri 170 scadranno a fine dicembre), per lo meno del mio, la CGIL che storicamente ha sempre avuto una visione del lavoro che potrei definire di sinistra (si può usare ancora la parola sinistra facendo capire cosa intendo?). Al limite non sarebbe un problema far viaggiare i due temi uno a fianco all’altro, magari facendo in maniera seria qualche proposta forte tipo “ok, decurtatecelo pure ‘sto benedetto salario accessorio ma che i fondi siano dedicati solo ed esclusivamente al rinnovo dei contratti in scadenza della gente che va a casa”, invece il problema è che il tema che io considero prioritario è passato in secondo piano e che la proposta che io faccio risulterebbe una bestemmia da non pronunciare neanche per scherzo. Il sindacato dirà che per avere un numero alto di manifestanti si dovevano mettere insieme i diversi argomenti, ma se questa era la strategia è stata fallimentare perché a manifestare, ops! a parlare di salario accessorio, erano non più di una cinquantina di persone (non male per un istituto dove i dipendenti che vedranno decurtato il loro salario accessorio sono intorno al migliaio!).
A questo punto, affrontando la faccenda in maniera pragmatica, come le persone serie e adulte che oggi manifestavano, mi chiedo se non sia una buona soluzione per compensare la decurtazione del mio salario accessorio quella di cancellarmi dal sindacato.
Devo fare un po’ di conti.
Per esempio mi viene da pensare che forse la distanza tra 0 e 1 sia molto più grande della distanza tra 1 e 2, inoltre man mano che si procede per i successivi intervalli la distanza tra un numero naturale ed il suo successivo diventa sempre più piccola. Sarà perché mi diverto a fare incroci poco onesti tra le discipline più disparate? Sarà perché confondo i vari ambiti del pensiero o sarà semplicemente perché sono un ignorante in matematica. Comunque sia, mi piace pensare che la cosa non sia poi così peregrina, è come assumere una visione topografica o prospettica dell’asse dei numeri naturali, ponendosi sul punto 0. Si obietterà che la matematica corregge l’errore prospettico dovuto ad una certa posizione piuttosto che un’altra e rende i suoi principi validi indipendentemente dal punto di osservazione. Io non posso che essere d’accordo, ma in definitiva quell’errore prospettico è il risultato dell’evoluzione del nostro sistema percettivo o più semplicemente di una visione sociale e politica (nel senso ampio del termine) e probabilmente eliminarlo del tutto può comportare qualche rischio.
Ignorando per un po’ la mia ignoranza in matematica e pensando a quello che accade in ambito sociale non sarebbe difficile comprendere questa mia ‘fantasia’, eppure non è così facile trovare chi possa seguirmi nel delirio che a me sembra di una chiarezza cristallina.
Pensateci un attimo! Se uno perde il suo lavoro, possiamo dire che siamo nel caso di passaggio da uno stato 1 ad uno stato 0, mentre se a qualcuno tolgono qualcosa dal suo stipendio potremmo dire che passa da 2 a 1 o da 100 a 99, o da 51 a 50. Bene, in questi casi secondo voi quali sono le distanze più ampie da colmare? Quali sono le priorità da assegnare nella lotta al ripristino dello stato che si perde o nella lotta per conquistare uno stato? Io non ho dubbi, nella lotta contro la perdita di uno stato prima viene il caso di passaggio da 1 a 0, poi quello da 2 a 1, dopo ancora quella da 51 a 50 ed infine, molto dopo, viene quello da 100 a 99.
Se c’è da difendere delle posizioni (almeno in ambito lavorativo), le distanze tra un numero e quello successivo non possono essere considerate tutte uguali, ecco perché penso che la distanza tra 0 e 1 sia molto più grande della distanza che c’è tra ogni altro numero ed il suo successivo e che le distanze diventano sempre meno ampie man mano che i numeri crescono. Ecco, questo tipo di approccio, per esempio, non dovrebbe costare alcuna fatica alle organizzazioni sindacali che nascono proprio per difendere il lavoro e invece curiosamente assisto ad una sorta di approccio che potremmo definire troppo matematico. Si potrebbe avanzare la critica che il problema è che le organizzazioni sindacali sono nate quando il lavoro era una categoria irrinunciabile per la produzione e che la loro lotta si esprimeva tutta nella conquista di migliori condizioni di lavoro, mentre adesso che in alcuni settori il lavoro diventa una categoria alla quale la produzione può rinunciare più facilmente, perché non più direttamente connessa con il lavoro in senso stretto, ai sindacati viene meno la loro missione, ma questo è un discorso che ci porterebbe troppo lontano.
Dicevo delle 'correzioni prospettiche' che mi riesce difficile comprendere quando sono i sindacati a pensare che la distanza tra un numero naturale qualsiasi e il suo successivo sia sempre uguale a 1 (forse si tratta di un problema di banale lettura lineare laddove basterebbe un approccio non lineare! mah, ci devo pensare). Nell'istituto dove lavoro, dopo le prime 200 persone mandate a casa a giugno, altre 25 persone hanno un contratto in scadenza domani e nessuna certezza sull’eventuale rinnovo (che Tremonti vada a dire a loro che la crisi è ormai alle spalle! mi piacerebbe concedermi battute facili ma non è il caso, dico solo che per molti può essere più preoccupante avere qualcosa alle spalle che poterla guardare in faccia). Naturalmente i sindacati confederali oggi hanno manifestato per la scadenza dei contratti e per il loro rinnovo. Una bella manifestazione sotto il Ministero dell’Ambiente, che notoriamente ha a capo persone sensibile ai problemi dei lavoratori e soprattutto per le tematiche ambientali! Il volantino della manifestazione diceva “per avere riposte positive sul precariato e sulle vertenze contrattuali”. Nella mia testa anche le vertenze contrattuali riguardavano il precariato, sempre per via di quella visione prospettica che dicevo dei numeri. Invece, ascoltando i discorsi della gente che manifestava ho capito che le vertenze contrattuali riguardavano materia di decurtazione di salario accessorio, mentre il tema del precariato era decisamente in secondo piano, qualcosa di cui non si poteva non parlare, per questioni di decoro, ma che tutto sommato non è più così rilevante (dopo un’ondata di assunzioni a tempo indeterminanto nel mio istituto, tra cui c’è stata anche la mia - grazie ad una norma approvata dal governo Prodi ed osteggiata fino alla fine dal governo Berlusconi - i sindacati possono rivendicare la loro brava vittoria e qualche caduto sul campo rientra negli effetti attesi!!!). Per carità, il salario accessorio è tema nobilissimo e manifestare per opporsi alla sua decurtazione, ritenuta ingiusta, è cosa legittima ma, data l’attuale situazione, non credo sia una priorità e ritengo non dovrebbe essere in cima alle priorità di un sindacato (25 contratti scadono domani, altri 170 scadranno a fine dicembre), per lo meno del mio, la CGIL che storicamente ha sempre avuto una visione del lavoro che potrei definire di sinistra (si può usare ancora la parola sinistra facendo capire cosa intendo?). Al limite non sarebbe un problema far viaggiare i due temi uno a fianco all’altro, magari facendo in maniera seria qualche proposta forte tipo “ok, decurtatecelo pure ‘sto benedetto salario accessorio ma che i fondi siano dedicati solo ed esclusivamente al rinnovo dei contratti in scadenza della gente che va a casa”, invece il problema è che il tema che io considero prioritario è passato in secondo piano e che la proposta che io faccio risulterebbe una bestemmia da non pronunciare neanche per scherzo. Il sindacato dirà che per avere un numero alto di manifestanti si dovevano mettere insieme i diversi argomenti, ma se questa era la strategia è stata fallimentare perché a manifestare, ops! a parlare di salario accessorio, erano non più di una cinquantina di persone (non male per un istituto dove i dipendenti che vedranno decurtato il loro salario accessorio sono intorno al migliaio!).
A questo punto, affrontando la faccenda in maniera pragmatica, come le persone serie e adulte che oggi manifestavano, mi chiedo se non sia una buona soluzione per compensare la decurtazione del mio salario accessorio quella di cancellarmi dal sindacato.
Devo fare un po’ di conti.
mercoledì 4 novembre 2009
Proposta per la parete perfetta
E' di questi giorni la polemica sul crocifisso da esporre o meno sulle pareti delle scuole dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo. Mi pare che il livello del dibattito nell'ambiente politico sia abbastanza ridicolo per non aggiungere nulla di serio. Nel coro di idiozie che ho sentito rilevo che il commento apparentemente meno idiota è stato quello di Bersani: "qualche volta il buonsenso finisce di essere vittima del diritto" (sull'affermazione che si tratti di un "simbolo inoffensivo" consiglio di rivedere un po' di storia dell'Europa moderna!). Che dire poi quando la parola su questi temi passa alle gerarchie vaticane? poveretti, hanno una interiorità così minuscola che tentano in ogni modo di portare all'esterno ciò che non possono permettersi di ospitare nel loro intimo. Sulla gran parte dei giornali si legge che la sentenza rischia di "cancellare la nostra cultura"! Sfido io, è così fragile che non ci vuole niente, signori miei, a cancellare la vostra cultura! Se permettete la mia è fatta di altra pasta.
Come contributo al dibattito aggiungo solo una bozza di proposta per la parete perfetta nelle scuole.
Naturalmente la proposta può essere modificata, ma solo ed esclusivamente per addizione di altri simboli. Su questo punto nessuna deroga.
***
Post Scriptum al post. Da non dimenticare le religioni considerate scomparse.
Tra l'altro il primo simbolo di questa seconda serie è il tridente di Shiva e in India questo culto non è affatto scomparso. Per quanto riguarda gli altri simboli (sono consapevole che non tutti siano propriamente dei simboli ma melius abundare) se ci pensate attentamente vedrete che non hanno fatto altro che trasformarsi negli attuali simboli religiosi.
Come contributo al dibattito aggiungo solo una bozza di proposta per la parete perfetta nelle scuole.
Naturalmente la proposta può essere modificata, ma solo ed esclusivamente per addizione di altri simboli. Su questo punto nessuna deroga.
***
Tra l'altro il primo simbolo di questa seconda serie è il tridente di Shiva e in India questo culto non è affatto scomparso. Per quanto riguarda gli altri simboli (sono consapevole che non tutti siano propriamente dei simboli ma melius abundare) se ci pensate attentamente vedrete che non hanno fatto altro che trasformarsi negli attuali simboli religiosi.
Un post di Andrea Bonanni su questa vicenda, per quanto sintetico, merita attenta riflessione. Per una lettura serena consiglio l'articolo di Rodotà, che non ha l'aria di essere un fanatico anticlericale. La Chiesa non è solo il Vaticano, per fortuna, e sull'argomento si possono leggere posizioni molto interessanti (leggi qui, qui e qui).
Per finire, un po' di storia delle religioni non guasterebbe in Italia o altrove, forse un argomento terribilmente serio come il discorso religioso salirebbe di livello.
martedì 3 novembre 2009
coi ginocchi piagati
Le più belle poesie
si scrivono sopra le pietre
coi ginocchi piagati
e le menti aguzzate dal mistero.
Le più belle poesie si scrivono
davanti a un altare vuoto,
accerchiati da argenti
della divina follia.
Così, pazzo criminale qual sei
tu detti versi all’umanità,
i versi della riscossa
e le bibliche profezie
e sei fratello a Giona.
Ma nella Terra Promessa
dove germinano i pomi d’oro
e l’albero della conoscenza
Dio non è mai disceso né ti ha mai maledetto.
Ma tu sì, maledici
ora per ora il tuo canto
perché sei sceso nel limbo,
dove aspiri l’assenzio
di una sopravvivenza negata.
Alda Merini, da "La Terra Santa" 1984
"I poeti sono specchi delle gigantesche ombre che l'avvenire getta sul presente...forza che non è mossa ma che muove. I poeti sono i non riconosciuti legislatori del mondo." Percy Bysshe Shelley
si scrivono sopra le pietre
coi ginocchi piagati
e le menti aguzzate dal mistero.
Le più belle poesie si scrivono
davanti a un altare vuoto,
accerchiati da argenti
della divina follia.
Così, pazzo criminale qual sei
tu detti versi all’umanità,
i versi della riscossa
e le bibliche profezie
e sei fratello a Giona.
Ma nella Terra Promessa
dove germinano i pomi d’oro
e l’albero della conoscenza
Dio non è mai disceso né ti ha mai maledetto.
Ma tu sì, maledici
ora per ora il tuo canto
perché sei sceso nel limbo,
dove aspiri l’assenzio
di una sopravvivenza negata.
Alda Merini, da "La Terra Santa" 1984
***
"I poeti sono specchi delle gigantesche ombre che l'avvenire getta sul presente...forza che non è mossa ma che muove. I poeti sono i non riconosciuti legislatori del mondo." Percy Bysshe Shelley
lunedì 2 novembre 2009
Il lungo riposo
Il silenzio avvolge i muri,
edere abbracciano archi austeri.
L'aria rarefatta di fiamme e fiori
si fende al grido di un bambino
richiamato da un tacito sguardo.
Qui il tempo trova riposo
e si ferma anche per noi vivi
che giriamo per stradine strette
affiancati da cipressi e visi.
Voci mute chiedono ascolto
di storie nascoste
tra le pieghe del tempo.
L'aria umida entra nelle ossa
e cancella le boriose movenze
dei nostri corpi prepotenti;
la luce querula di una cappella
è un sudario di quiete.
Una donna più in là
avvolge di colori profumati
ricordi svaniti,
rubati dalla morte,
sovrana di questo regno
senza sudditi
e senza rivoluzioni.
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