Dall'associazione animalista tedesca PeTA |
"Concludiamone dunque che il mondo sarebbe assai migliore se ciascuno si accontentasse di quello che dice, senza aspettarsi che gli rispondano, e soprattutto senza chiederlo né desiderarlo." José Saramago
lunedì 28 febbraio 2011
Eccellenti promoter
E' sempre doloroso dover sterilizzare i propri animali domestici ma a volte è necessario farlo.
L'associazione animalista ha lanciato una campagna di sensibilizzazione in tedesco, inglese e italiano. Visitate il sito di PeTA.
sabato 26 febbraio 2011
Il grande esodo
«Vattene dal tuo paese, dalla tua patria
e dalla casa di tuo padre,
verso il paese che io ti indicherò.» Genesi, 12,1.
«Perché i confini sono tracciati sulle carte ma sulla terra, come Dio la fece, per quanto si percorrano i mari, per quanto si cerchi, si frughi lungo il corso dei fiumi e sul crinale delle montagne, non ci sono confini su questa terra.» In Il Cammino della speranza, Pietro Germi, 1950.
Il più grande esodo migratorio della storia moderna è stato quello degli Italiani.
Qualche giorno fa ho visitato il MEI, il Museo dell'Emigrazione Italiana al Vittoriano. Mi è capitato spesso di passare accanto al Vittoriano, sul lato del Campidoglio, e di vedere l'ingresso al museo ma ho sempre rimandato quella visita.
I numeri dell'emigrazione italiana sono impressionanti, quando si parla di esodo biblico non ci rendiamo conto di quello che diciamo eppure l'esodo è la nostra storia.
Dal 1861 fino al 1985 più di 29 milioni di italiani sono emigrati ma le cifre più sicure si hanno a partire dal 1876, anno in cui si iniziarono a rilevare con regolarità le partenze degli italiani. Da quella data fino al 1985 sono più di 27 milioni gli italiani che hanno lasciato il proprio paese per andare a "cercare fortuna" altrove.
Dal 1876 al 1915 più di 14 milioni di italiani lasciarono l'Italia a fronte di 2,5 milioni di rientri. Nel giro di 30 anni emigrò quasi metà della popolazione italiana che nel 1900 contava circa 33,5 milioni di abitanti.
Gli emigranti disertano il processo di formazione nazionale e mettono in pericolo la nazione, questa era la prima reazione delle istituzioni di fronte all'esodo di massa dell'Italia post unitaria, esodo dettato dalla povertà e dalle condizione di vita insostenibili - “o rubare o emigrare” era la risposta secca che mons. Giovanni Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza, riceveva negli ultimi anni dell'800 dai contadini che incontrava durante le sue visite pastorali.
L'esodo è tale che vengono approvati provvedimenti per impedire l'emigrazione. In questo modo si accontentano i proprietari terrieri che chiedono misure restrittive contro la fuga dai campi. Se tutti vanno via chi coltiverà i loro latifondi?
«[...] Guardateci in viso, signor barone, le nostre facce pallide e ingiallite, le nostre guance infossate, non vi accusano esse, con la loro muta eloquenza, l’improba fatica e l’assoluta deficienza di nutrimento? La nostra vita tanto è amara che poco più è morte. Coltiviamo il frumento e non sappiamo cosa sia il pane bianco. Coltiviamo viti e non beviamo vino. Alleviamo bestiame e non mangiamo mai carne..» Questo scrissero - naturalmente nel loro dialetto e scritto dai pochi che a quell'epoca sapevano scrivere - i contadini lombardi nel 1876 al ministro Nicotera, autore di un provvedimento restrittivo all'emigrazione.
I provvedimenti restrittivi non possono fermare quel fiume di gente e, per quanto in maniera frammentaria, il fenomeno dell'emigrazione di massa sarà in qualche modo gestito dalle autorità italiane. Dopo una prima fase di ostilità si cominciano a vedere i vantaggi di questo esodo: rimesse economiche, pacificazione sociale (le partenze come valvola di sfogo) e persino penetrazione in mercati ed aree che prima sembravano irraggiungibili.
Tra il 1876 e il 1900 le partenze interessarono prevalentemente le regioni del Nord, soprattutto il Veneto, Friuli-Venezia Giulia, il Piemonte e la Lombardia. Dopo il primato migratorio passò alle regioni meridionali come Sicilia, Campania e Calabria.
Di questo imponente esodo umano 7,6 milioni vanno nelle Americhe (Argentina, Brasile, Stati Uniti, Canada), 6,1 milioni emigrano in Europa (Francia, Belgio, Germania, Svizzera). Altre destinazioni saranno l'Australia e altri paesi.
Agli inizi del '900 la folla di migranti nei porti suscita pietà nei residenti delle città, ma più spesso il sentimento che quella folla suscita è paura. L'America è il sogno e i migranti aspettano nei porti per essere imbarcati sui “vascelli della morte” per raggiungere quel sogno. I vascelli spesso non potevano contenere più di 700 persone, ma ne caricavano più di 1.000, e partivano, senza la certezza di arrivare a destinazione. Saranno in molti a morire in quei viaggi verso il sogno.
Le condizioni di viaggio sono terribili, è facile contrarre una malattia se devi stare stipato per diversi mesi in mezzo al mare insieme ad altra gente senza troppo spazio per muoversi. Non mancano i decessi. Tra i casi più clamorosi di “vascelli fantasma” con decine di morti durante la traversata, il “Matteo Brazzo”, nel 1884, in un viaggio di tre mesi con 1.333 passeggeri ha avuto 20 morti di colera ed è stato respinto a cannonate a Montevideo; il “Carlo Raggio” in un viaggio del 18.12.1888 con 1.851 emigranti ha avuto 18 vittime per fame e in un altro viaggio, del 1894, 206 morti di cui 141 per colera e morbillo; il “Cachar” che partito per il Brasile il 28.12.1888 con 2.000 emigranti ha avuto 34 vittime per asfissia e altri per fame; il “Frisia” in viaggio per il Brasile il 16.11.1889 ha avuto 27 morti per asfissia e più di 300 ammalati; nello stesso anno sul “Parà” un epidemia di morbillo uccide 34 persone; il “Remo”, partito nel 1893 con 1.500 emigranti, ha avuto 96 morti per colera e difterite e fu respinto dal Brasile; l’“Andrea Doria” nel viaggio del 1894 ha contato 159 morti su 1.317 emigranti; sul “Vincenzo Florio” nello stesso anno i morti sono stati 20 su 1.321 passeggeri. Le navi degli emigranti, per tutto l’Ottocento, non avevano infermerie, ambulatori e farmacie, e tra il 1897 e il 1899, più dell’1% degli arrivati a New York è respinto in Italia perché ridotto in pessimo stato dalle sofferenze del viaggio. (MEI)
La sola ricchezza che gli emigrati portavano nel loro viaggio era la forza delle loro braccia. Nei paesi di destinazione svolgevano i lavori più pesanti, quelli rifiutati dagli altri, come le opere stradali o ferroviarie, il piccolo commercio, attività capaci di garantire un guadagno immediato da spedire alla famiglia rimasta in Italia. E tra quei lavori non potevano mancare quelli più pericolosi come nelle miniere e non mancarono le tragedie, come quelle di Monongah del 1907, la "tragedia dimenticata" di Dawson del 1913, quella di Marcinelle del 1956 e via e via che la memoria fatica a trattenere, come la sciagura di Mattmark del 1965 o la strage di operaie a New York il 25.3.1911, quando un incendio devastò gli ultimi piani di un palazzo che ospitava una camiceria dove lavoravano in condizioni disumane, con le porte sbarrate dall’esterno, 500 donne: delle 146 vittime almeno 39 erano italiane riconosciute "da un anello, da un frammento di scarpa", altre 10 furono considerate ufficialmente disperse. Quella stessa strage che forse ha dato origine alla commemorazione dell'8 marzo.
La storia dell’emigrazione italiana non è e non può essere solo agiografica. Uno degli aspetti più tragici dell’emigrazione è lo sfruttamento dei minori. Tra Ottocento e Novecento i bambini sono venduti a decine di migliaia per 100 lire l’uno a trafficanti che li rivendevano alle miniere americane, ai cantieri svizzeri, alle vetrerie francesi. Come riporta il sito del MEI, solo negli Stati Uniti, a fine Ottocento si calcolavano 80.000 minori italiani appartenenti a quella categoria di girovaghi da cui escono delinquenti e prostitute. Questi bambini cominciavano raccogliendo legna o carbone negli scarichi, vendendo i giornali per strada, portando il lavoro dalla fabbrica a casa, e vivevano più per strada che a casa o a scuola e molti finivano per compiere lavori poco onesti.
Le condizioni di vita degli emigrati italiani nelle grandi città americane sono insostenibili a causa del malsano affollamento di uomini, donne e bambini stipati nella promiscuità e nel disordine.
Questi emigrati, spesso supersfruttati, venivano considerati dalla società ospitante come “indesiderabile people”. La loro segregazione in ghetti veniva giustificata dall’impossibilità del cafone meridionale di inserirsi in un contesto urbano dinamico e innovativo. In questa atmosfera non potevano non svilupparsi comportamenti di ostilità e la criminalità trovava terreno fertile. Le manifestazioni di autodifesa delle comunità etniche degenerarono, a volte, in forme di banditismo urbano o di delinquenza organizzata. Gli italiani diventano nell’immaginario collettivo criminali incalliti, sporchi, ignoranti, facili al coltello, mafiosi, straccioni, capaci solo di lavori pesanti o, al massimo, di vendere noccioline.
La xenofobia produce diversi episodi di violenza contro gli italiani in molti paesi (Algeria, Argentina, Australia e America). Fra gli avvenimenti più gravi si ricordano:
- New Orleans (14.3.1891): 11 italiani sono massacrati da 20 mila manifestanti che avevano assaltato il carcere accusandoli di essere colpevoli dell’omicidio del capo della polizia di New Orleans, omicidio dal quale erano stati assolti. Il linciaggio era stato compiuto con una chiara responsabilità delle autorità locali che, pur essendo a conoscenza del progetto delittuoso e nonostante le richieste di protezione del console italiano, non avevano fatto nulla per impedire l’eccidio.
- Aigues-Mortes (17.8.1893): circa 2.000 operai francesi linciano 11 italiani (secondo il processo farsa che assolse tutti gli imputati; più di 200 secondo la stima di studiosi italiani) accusati di rubare il lavoro dei francesi nelle saline della Camargue, alle foci del Rodano.
- Zurigo (8.8.1896): si devono organizzare treni speciali per portare in salvo gli italiani da una spietata caccia all’uomo da parte di cittadini svizzeri.
- Tallulah (21.7.1899): 3 fratelli e 2 amici siciliani sono assassinati dopo una banale lite perché accusati di essere troppo gentili con i neri. (MEI)
Salvo pensare che l'italiano è sempre e solo buono, santo e lavoratore è inutile dire che tra i diversi milioni di emigrati ve ne furono anche di delinquenti, che negli Stati Uniti trovarono nella mafia la scorciatoia per raggiungere il “sogno americano”. «L’America è diventata la terra promessa dei delinquenti italiani» affermava all’inizio del Novecento il capo della polizia di New York (Richard Nixon nel 1973 rincarerà la dose: «Il guaio è che non se ne trova uno onesto»).
Alla fine della Prima guerra mondiale riprende l'emorragia degli italiani, ma gli Stati Uniti introducono leggi restrittive fin dai primi anni '20 e poi interviene la crisi del 1929 a frenare l'emigrazione. Nonostante le leggi restrittive americane gli espatri dall'Italia fanno registrare cifre spaventose con una media di circa 303.000 l’anno tra il 1921 e il 1925 e in seguito alla crisi del 1929 si riducono a circa 91.600 l’anno. Le restrizioni americane e la crisi frenano l'emigrazione degli italiani e incanalano i flussi verso nuove mete, principalmente in Europa.
Tra le due guerre partono oltre 4 milioni di italiani a fronte di circa 1,5 milioni di rientri e alla fine del secondo conflitto mondiale l’emigrazione dall’Italia riprende con vigore. Si va via perché non c’è lavoro e il paese è distrutto dalla guerra. Dal 1946 ai primi anni '70 partono circa 7,5 milioni di italiani, ne rientrano circa 4,5 milioni ma già dal 1973 i rientri superano annualmente le partenze.
Gente in fuga dalla miseria, un popolo di oltre 27 milioni di anime in poco più di un secolo a partire dal 1876 (oltre 29 milioni se consideriamo il 1861 come anno di inizio dell'esodo), un fiume in piena di quasi 250.000 persone all'anno, con picchi che raggiungono, e spesso superano, i 650.000 emigranti all'anno. Non tutti potevano preoccuparsi di partire regolarmente. La clandestinità è stata per gli emigranti italiani una condizione antica, sono almeno 4 milioni quelli che sono partiti senza documenti dopo il 1876 e considerando che la clandestinità mal si presta a statistiche affidabili è ragionevole pensare che sia una sottostima.
L’emigrazione clandestina attraverso le Alpi verso la Francia era un percorso seguito dagli emigrati italiani, non solo piemontesi, ma anche siciliani, come narra Il cammino della speranza di Pietro Germi del 1950.
Nel 1962, 87 italiani trovarono la morte al “Passo del diavolo” presso Ventimiglia per recarsi clandestinamente in Francia. Ancora a metà degli anni '70 circa 30 mila bambini italiani erano tenuti nascosti in casa dai loro genitori emigrati in Svizzera che temevano di essere rimpatriati perché il governo elvetico proibiva ai lavoratori stagionali di farsi accompagnare dalla famiglia («non ridere, non piangere, non far rumore», questo dovevano dire i genitori ai «les enfants de l’ombre») .
La grande emigrazione italiana può dirsi conclusa agli inizi degli anni '80 quando gli espatri sono uguali ai rimpatri. Lo sviluppo sociale ed economico del paese cambia la natura dell'emigrazione, non coinvolge più consistenti fasce di popolazione ma personale qualificato e tecnici, studenti e docenti universitari. Ancora oggi, ogni anno, circa 50.000 italiani cercano lavoro all’estero e secondo il Rapporto Italiani nel mondo del 2009 gli italiani residenti all'estero fino all'aprile del 2009 (3.915.767) superavano gli stranieri in Italia (3.891.295).
Sì, ho fatto decisamente bene a entrare nel museo pochi giorni fa e mi ha fatto piacere sapere che nel corso di quest'anno, in occasione dell'anniversario dell'Unità d'Italia, l'esposizione potrebbe diventare itinerante e raccontare le emigrazioni regione per regione, far conoscere o, in alcuni casi, ricordare le condizioni degli emigranti, quella doppia assenza di cui parla Abdelmalek Sayad: essere solo parzialmente assenti là dove si è assenti - assenti dalla famiglia, dal villaggio, dal paese - e, nello stesso tempo, non essere totalmente presenti là dove si è presenti - per le molte forme di esclusione di cui si è vittime nel paese di arrivo (A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell'emigrato alle sofferenze dell'immigrato. Raffaello Cortina, 2002).
In quel museo ci sono cose di noi italiani che è bene sapere in certi tornanti della storia.
Sono passato tante volte davanti all'ingresso del museo dell'emigrazione ma ho sempre rimandato la visita. Forse perché io, figlio e nipote di chi nella sua vita ha dovuto emigrare, mi sono sempre nutrito delle storie di famiglia e pensavo che quel museo non mi avrebbe dato nulla che già non sapessi. Mi sbagliavo. Un museo non dà soltanto notizie, se è ben fatto dà anche emozioni, in qualche museo può capitare di accorgersi che la nostra memoria non ci appartiene, siamo noi che apparteniamo a lei.
e dalla casa di tuo padre,
verso il paese che io ti indicherò.» Genesi, 12,1.
«Perché i confini sono tracciati sulle carte ma sulla terra, come Dio la fece, per quanto si percorrano i mari, per quanto si cerchi, si frughi lungo il corso dei fiumi e sul crinale delle montagne, non ci sono confini su questa terra.» In Il Cammino della speranza, Pietro Germi, 1950.
***
Il più grande esodo migratorio della storia moderna è stato quello degli Italiani.
Qualche giorno fa ho visitato il MEI, il Museo dell'Emigrazione Italiana al Vittoriano. Mi è capitato spesso di passare accanto al Vittoriano, sul lato del Campidoglio, e di vedere l'ingresso al museo ma ho sempre rimandato quella visita.
I numeri dell'emigrazione italiana sono impressionanti, quando si parla di esodo biblico non ci rendiamo conto di quello che diciamo eppure l'esodo è la nostra storia.
Dal 1861 fino al 1985 più di 29 milioni di italiani sono emigrati ma le cifre più sicure si hanno a partire dal 1876, anno in cui si iniziarono a rilevare con regolarità le partenze degli italiani. Da quella data fino al 1985 sono più di 27 milioni gli italiani che hanno lasciato il proprio paese per andare a "cercare fortuna" altrove.
Dal 1876 al 1915 più di 14 milioni di italiani lasciarono l'Italia a fronte di 2,5 milioni di rientri. Nel giro di 30 anni emigrò quasi metà della popolazione italiana che nel 1900 contava circa 33,5 milioni di abitanti.
Gli emigranti disertano il processo di formazione nazionale e mettono in pericolo la nazione, questa era la prima reazione delle istituzioni di fronte all'esodo di massa dell'Italia post unitaria, esodo dettato dalla povertà e dalle condizione di vita insostenibili - “o rubare o emigrare” era la risposta secca che mons. Giovanni Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza, riceveva negli ultimi anni dell'800 dai contadini che incontrava durante le sue visite pastorali.
L'esodo è tale che vengono approvati provvedimenti per impedire l'emigrazione. In questo modo si accontentano i proprietari terrieri che chiedono misure restrittive contro la fuga dai campi. Se tutti vanno via chi coltiverà i loro latifondi?
«[...] Guardateci in viso, signor barone, le nostre facce pallide e ingiallite, le nostre guance infossate, non vi accusano esse, con la loro muta eloquenza, l’improba fatica e l’assoluta deficienza di nutrimento? La nostra vita tanto è amara che poco più è morte. Coltiviamo il frumento e non sappiamo cosa sia il pane bianco. Coltiviamo viti e non beviamo vino. Alleviamo bestiame e non mangiamo mai carne..» Questo scrissero - naturalmente nel loro dialetto e scritto dai pochi che a quell'epoca sapevano scrivere - i contadini lombardi nel 1876 al ministro Nicotera, autore di un provvedimento restrittivo all'emigrazione.
I provvedimenti restrittivi non possono fermare quel fiume di gente e, per quanto in maniera frammentaria, il fenomeno dell'emigrazione di massa sarà in qualche modo gestito dalle autorità italiane. Dopo una prima fase di ostilità si cominciano a vedere i vantaggi di questo esodo: rimesse economiche, pacificazione sociale (le partenze come valvola di sfogo) e persino penetrazione in mercati ed aree che prima sembravano irraggiungibili.
Tra il 1876 e il 1900 le partenze interessarono prevalentemente le regioni del Nord, soprattutto il Veneto, Friuli-Venezia Giulia, il Piemonte e la Lombardia. Dopo il primato migratorio passò alle regioni meridionali come Sicilia, Campania e Calabria.
Stima del numero di emigranti nei periodi 1876-1900 e 1901-1915, per regione di provenienza. Wikipedia da Gianfausto Rosoli, Un secolo di emigrazione italiana 1876-1976. Cser, 1978. |
Di questo imponente esodo umano 7,6 milioni vanno nelle Americhe (Argentina, Brasile, Stati Uniti, Canada), 6,1 milioni emigrano in Europa (Francia, Belgio, Germania, Svizzera). Altre destinazioni saranno l'Australia e altri paesi.
Agli inizi del '900 la folla di migranti nei porti suscita pietà nei residenti delle città, ma più spesso il sentimento che quella folla suscita è paura. L'America è il sogno e i migranti aspettano nei porti per essere imbarcati sui “vascelli della morte” per raggiungere quel sogno. I vascelli spesso non potevano contenere più di 700 persone, ma ne caricavano più di 1.000, e partivano, senza la certezza di arrivare a destinazione. Saranno in molti a morire in quei viaggi verso il sogno.
Angelo Tommasi, Gli emigranti, 1885. |
La sola ricchezza che gli emigrati portavano nel loro viaggio era la forza delle loro braccia. Nei paesi di destinazione svolgevano i lavori più pesanti, quelli rifiutati dagli altri, come le opere stradali o ferroviarie, il piccolo commercio, attività capaci di garantire un guadagno immediato da spedire alla famiglia rimasta in Italia. E tra quei lavori non potevano mancare quelli più pericolosi come nelle miniere e non mancarono le tragedie, come quelle di Monongah del 1907, la "tragedia dimenticata" di Dawson del 1913, quella di Marcinelle del 1956 e via e via che la memoria fatica a trattenere, come la sciagura di Mattmark del 1965 o la strage di operaie a New York il 25.3.1911, quando un incendio devastò gli ultimi piani di un palazzo che ospitava una camiceria dove lavoravano in condizioni disumane, con le porte sbarrate dall’esterno, 500 donne: delle 146 vittime almeno 39 erano italiane riconosciute "da un anello, da un frammento di scarpa", altre 10 furono considerate ufficialmente disperse. Quella stessa strage che forse ha dato origine alla commemorazione dell'8 marzo.
La storia dell’emigrazione italiana non è e non può essere solo agiografica. Uno degli aspetti più tragici dell’emigrazione è lo sfruttamento dei minori. Tra Ottocento e Novecento i bambini sono venduti a decine di migliaia per 100 lire l’uno a trafficanti che li rivendevano alle miniere americane, ai cantieri svizzeri, alle vetrerie francesi. Come riporta il sito del MEI, solo negli Stati Uniti, a fine Ottocento si calcolavano 80.000 minori italiani appartenenti a quella categoria di girovaghi da cui escono delinquenti e prostitute. Questi bambini cominciavano raccogliendo legna o carbone negli scarichi, vendendo i giornali per strada, portando il lavoro dalla fabbrica a casa, e vivevano più per strada che a casa o a scuola e molti finivano per compiere lavori poco onesti.
Le condizioni di vita degli emigrati italiani nelle grandi città americane sono insostenibili a causa del malsano affollamento di uomini, donne e bambini stipati nella promiscuità e nel disordine.
Questi emigrati, spesso supersfruttati, venivano considerati dalla società ospitante come “indesiderabile people”. La loro segregazione in ghetti veniva giustificata dall’impossibilità del cafone meridionale di inserirsi in un contesto urbano dinamico e innovativo. In questa atmosfera non potevano non svilupparsi comportamenti di ostilità e la criminalità trovava terreno fertile. Le manifestazioni di autodifesa delle comunità etniche degenerarono, a volte, in forme di banditismo urbano o di delinquenza organizzata. Gli italiani diventano nell’immaginario collettivo criminali incalliti, sporchi, ignoranti, facili al coltello, mafiosi, straccioni, capaci solo di lavori pesanti o, al massimo, di vendere noccioline.
La xenofobia produce diversi episodi di violenza contro gli italiani in molti paesi (Algeria, Argentina, Australia e America). Fra gli avvenimenti più gravi si ricordano:
- New Orleans (14.3.1891): 11 italiani sono massacrati da 20 mila manifestanti che avevano assaltato il carcere accusandoli di essere colpevoli dell’omicidio del capo della polizia di New Orleans, omicidio dal quale erano stati assolti. Il linciaggio era stato compiuto con una chiara responsabilità delle autorità locali che, pur essendo a conoscenza del progetto delittuoso e nonostante le richieste di protezione del console italiano, non avevano fatto nulla per impedire l’eccidio.
- Aigues-Mortes (17.8.1893): circa 2.000 operai francesi linciano 11 italiani (secondo il processo farsa che assolse tutti gli imputati; più di 200 secondo la stima di studiosi italiani) accusati di rubare il lavoro dei francesi nelle saline della Camargue, alle foci del Rodano.
- Zurigo (8.8.1896): si devono organizzare treni speciali per portare in salvo gli italiani da una spietata caccia all’uomo da parte di cittadini svizzeri.
- Tallulah (21.7.1899): 3 fratelli e 2 amici siciliani sono assassinati dopo una banale lite perché accusati di essere troppo gentili con i neri. (MEI)
Salvo pensare che l'italiano è sempre e solo buono, santo e lavoratore è inutile dire che tra i diversi milioni di emigrati ve ne furono anche di delinquenti, che negli Stati Uniti trovarono nella mafia la scorciatoia per raggiungere il “sogno americano”. «L’America è diventata la terra promessa dei delinquenti italiani» affermava all’inizio del Novecento il capo della polizia di New York (Richard Nixon nel 1973 rincarerà la dose: «Il guaio è che non se ne trova uno onesto»).
Alla fine della Prima guerra mondiale riprende l'emorragia degli italiani, ma gli Stati Uniti introducono leggi restrittive fin dai primi anni '20 e poi interviene la crisi del 1929 a frenare l'emigrazione. Nonostante le leggi restrittive americane gli espatri dall'Italia fanno registrare cifre spaventose con una media di circa 303.000 l’anno tra il 1921 e il 1925 e in seguito alla crisi del 1929 si riducono a circa 91.600 l’anno. Le restrizioni americane e la crisi frenano l'emigrazione degli italiani e incanalano i flussi verso nuove mete, principalmente in Europa.
Tra le due guerre partono oltre 4 milioni di italiani a fronte di circa 1,5 milioni di rientri e alla fine del secondo conflitto mondiale l’emigrazione dall’Italia riprende con vigore. Si va via perché non c’è lavoro e il paese è distrutto dalla guerra. Dal 1946 ai primi anni '70 partono circa 7,5 milioni di italiani, ne rientrano circa 4,5 milioni ma già dal 1973 i rientri superano annualmente le partenze.
Numero di partenze e di rientri dal 1876 al 1985. I dati dei rimpatri sono disponibili solo dal 1901. |
Andamento delle partenze e dei rientri dal 1876 al 1985. I dati dei rimpatri sono disponibili solo dal 1901. |
Gente in fuga dalla miseria, un popolo di oltre 27 milioni di anime in poco più di un secolo a partire dal 1876 (oltre 29 milioni se consideriamo il 1861 come anno di inizio dell'esodo), un fiume in piena di quasi 250.000 persone all'anno, con picchi che raggiungono, e spesso superano, i 650.000 emigranti all'anno. Non tutti potevano preoccuparsi di partire regolarmente. La clandestinità è stata per gli emigranti italiani una condizione antica, sono almeno 4 milioni quelli che sono partiti senza documenti dopo il 1876 e considerando che la clandestinità mal si presta a statistiche affidabili è ragionevole pensare che sia una sottostima.
L’emigrazione clandestina attraverso le Alpi verso la Francia era un percorso seguito dagli emigrati italiani, non solo piemontesi, ma anche siciliani, come narra Il cammino della speranza di Pietro Germi del 1950.
Nel 1962, 87 italiani trovarono la morte al “Passo del diavolo” presso Ventimiglia per recarsi clandestinamente in Francia. Ancora a metà degli anni '70 circa 30 mila bambini italiani erano tenuti nascosti in casa dai loro genitori emigrati in Svizzera che temevano di essere rimpatriati perché il governo elvetico proibiva ai lavoratori stagionali di farsi accompagnare dalla famiglia («non ridere, non piangere, non far rumore», questo dovevano dire i genitori ai «les enfants de l’ombre») .
La grande emigrazione italiana può dirsi conclusa agli inizi degli anni '80 quando gli espatri sono uguali ai rimpatri. Lo sviluppo sociale ed economico del paese cambia la natura dell'emigrazione, non coinvolge più consistenti fasce di popolazione ma personale qualificato e tecnici, studenti e docenti universitari. Ancora oggi, ogni anno, circa 50.000 italiani cercano lavoro all’estero e secondo il Rapporto Italiani nel mondo del 2009 gli italiani residenti all'estero fino all'aprile del 2009 (3.915.767) superavano gli stranieri in Italia (3.891.295).
Sì, ho fatto decisamente bene a entrare nel museo pochi giorni fa e mi ha fatto piacere sapere che nel corso di quest'anno, in occasione dell'anniversario dell'Unità d'Italia, l'esposizione potrebbe diventare itinerante e raccontare le emigrazioni regione per regione, far conoscere o, in alcuni casi, ricordare le condizioni degli emigranti, quella doppia assenza di cui parla Abdelmalek Sayad: essere solo parzialmente assenti là dove si è assenti - assenti dalla famiglia, dal villaggio, dal paese - e, nello stesso tempo, non essere totalmente presenti là dove si è presenti - per le molte forme di esclusione di cui si è vittime nel paese di arrivo (A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell'emigrato alle sofferenze dell'immigrato. Raffaello Cortina, 2002).
In quel museo ci sono cose di noi italiani che è bene sapere in certi tornanti della storia.
***
Sono passato tante volte davanti all'ingresso del museo dell'emigrazione ma ho sempre rimandato la visita. Forse perché io, figlio e nipote di chi nella sua vita ha dovuto emigrare, mi sono sempre nutrito delle storie di famiglia e pensavo che quel museo non mi avrebbe dato nulla che già non sapessi. Mi sbagliavo. Un museo non dà soltanto notizie, se è ben fatto dà anche emozioni, in qualche museo può capitare di accorgersi che la nostra memoria non ci appartiene, siamo noi che apparteniamo a lei.
lunedì 21 febbraio 2011
La sovranità secondo Frattini
Mentre la rivolta in Libia viene soppressa nel sangue il governo italiano non muove un dito. Il capobranco dice che non vuole disturbare il suo amico e il ministro degli esteri Frattini preferisce "non interferire per rispetto della sovranità dei popoli". Solitamente un esponente politico di un paese democratico quando usa l'espressione "sovranità dei popoli" sottende una sovranità che è espressione del popolo. Chiunque sano di mente, mediamente intelligente e minimamente acculturato sa benissimo che il caso della Libia non è questo, per cui il ministro Frattini di quale sovranità parla? Di quale popolo parla? Non sarà più chiaro e onesto il ministro se confessa che non vuole interferire, come il suo padrone gli ha imposto, con il sovrano libico? Non sarebbe più chiaro se dicesse che il governo preferisce tenersi buono il tiranno Gheddafi perché freni l'immigrazione in Italia - facendo sparire i profughi nel deserto ma queste sono cose che non preoccupano più gli italiani, l'importante è non avere cartacce davanti al portone di casa - e continui a fornirci quasi un terzo del petrolio e più del 10% del gas naturale che ci serve?
Nel numero di novembre/dicembre del 2010 di Reset un articolo di Larry Diamond ha dato avvio ad una tavola rotonda sui motivi dell'assenza di democrazia nei paesi arabi, con un tempismo quasi profetico, visto le successive rivolte nell'area mediterranea che ancora a dicembre nessuno poteva prevedere. Diamond mette in guardia dal considerare il fattore religioso quale principale ostacolo all'affermazione della democrazia nei paesi musulmani (arabi e non), infatti si danno molti casi di paesi dove democrazia e islam convivono senza particolari problemi (come India e Indonesia). Nella sua analisi Diamond cerca spiegazioni nella geopolitica e nella struttura economica che non ha fatto altro che rafforzare regimi autoritari preesistenti.
La rappresentanza democratica è il risultato di una partecipazione alla distribuzione di una ricchezza limitata, secondo lo slogan "no taxation without representation". Se la ricchezza di un paese è tale da non rendere necessaria la tassazione, come è il caso dei paesi la cui economia si basa prevalentemente sulla rendita da petrolio, allora cade la motivazione alla rappresentanza democratica e il vecchio slogan si rovescia nella realtà politica in "niente rappresentanti senza tasse". Questo è stato finora il paradigma della mancanza di democrazia nei paesi con enormi risorse petrolifere, come la Libia o l'Algeria (non è il caso dell'Egitto o della Tunisia). Tuttavia, sono molti i fattori che entrano in gioco nelle dinamiche sociali complesse come quelle che stanno investendo l'area mediterranea e la presenza di risorse petrolifere spiega solo una parte del fenomeno. Le recenti rivoluzioni di piazza nell'area mediterranea dimostrano che le risorse petrolifere non sono sufficienti a spiegare i regimi politici ed è evidente che nei paesi ricchi di petrolio qualcosa scricchiola nella distribuzione di ricchezza che ha mantenuto bassa la motivazione alla democrazia - la forbice tra clan al potere e popolo si è fatta troppo ampia per essere assorbita efficacemente nelle forme di riconoscimento sociale che hanno retto finora.
Da parte mia osservo che dei numerosi articoli di Reset che hanno partecipato al dibattito intorno all'articolo di Diamond - firmati da Massimo Campanini, Stefano Allievi, Emma Bonino e Giuliano Amato, tra gli altri -, nessuno mi è sembrato tenesse in debito conto il ruolo, direi attivo, dei paesi (apparentemente) democratici nel frenare lo sviluppo della democrazia nei paesi musulmani - semmai si fa riferimento al timore occidentale che la democrazia nell'islam divenga strumento del fondamentalismo dei fratelli musulmani, Hamas docet, e questo rivela in definitiva quanto i paesi occidentali abbiano paura della democrazia, paura celata sotto le mentite spoglie della prudenza. Lo stesso Diamond sostiene, in maniera del tutto autoassolutoria (ed errata, a ragion veduta) in quanto americano, che l'Iraq potrebbe fare da apripista nella domanda di democrazia nei paesi musulmani, di fatto legittimando la cosiddetta "esportazione di democrazia" perseguita da un governo criminale e sostenuta da alleati altrettanto criminali. Poca o nessuna attenzione viene rivolta al fatto che la democrazia è in sé una struttura di potere complessa, più complessa di un qualsiasi regime autoritario in cui la linea del potere è corta e lineare, contrariamente al 'flusso' di potere diffuso, lungo e ramificato che potrebbe descrivere una democrazia. Solo marginalmente Diamond parla delle "forze esterne" che aiutano i regimi autocratici "a conservare il proprio ruolo" lasciando sottinteso che il motivo del sostegno economico e militare è la domanda energetica dei paesi occidentali ma evitando di dire che un regime autocratico fa comodo proprio alla soddisfazione di quella domanda. In sostanza l'Italia sta dimostrando come per molti paesi occidentali, più attenti ai propri interessi economici che all'affermazione dei diritti, sia molto più facile e redditizio avere a che fare con strutture di potere semplici che fanno capo ad un singolo soggetto anziché avere a che fare con strutture complesse tipiche della democrazia. Quando il potere è concentrato la linea di comunicazione è molto più breve e le trattative sono più rapide. In questi casi le transazioni praticamente volano.
Preferirei sentirmi dire che bisogna tenere spenta la luce e i riscaldamenti, che bisogna ridurre l'uso delle auto per risparmiare sull'energia che viene dalla Libia anziché far parte di un paese governato da un tizio che appoggia un dittatore che fa bombardare il suo popolo dall'aviazione militare.
***
Nel numero di novembre/dicembre del 2010 di Reset un articolo di Larry Diamond ha dato avvio ad una tavola rotonda sui motivi dell'assenza di democrazia nei paesi arabi, con un tempismo quasi profetico, visto le successive rivolte nell'area mediterranea che ancora a dicembre nessuno poteva prevedere. Diamond mette in guardia dal considerare il fattore religioso quale principale ostacolo all'affermazione della democrazia nei paesi musulmani (arabi e non), infatti si danno molti casi di paesi dove democrazia e islam convivono senza particolari problemi (come India e Indonesia). Nella sua analisi Diamond cerca spiegazioni nella geopolitica e nella struttura economica che non ha fatto altro che rafforzare regimi autoritari preesistenti.
La rappresentanza democratica è il risultato di una partecipazione alla distribuzione di una ricchezza limitata, secondo lo slogan "no taxation without representation". Se la ricchezza di un paese è tale da non rendere necessaria la tassazione, come è il caso dei paesi la cui economia si basa prevalentemente sulla rendita da petrolio, allora cade la motivazione alla rappresentanza democratica e il vecchio slogan si rovescia nella realtà politica in "niente rappresentanti senza tasse". Questo è stato finora il paradigma della mancanza di democrazia nei paesi con enormi risorse petrolifere, come la Libia o l'Algeria (non è il caso dell'Egitto o della Tunisia). Tuttavia, sono molti i fattori che entrano in gioco nelle dinamiche sociali complesse come quelle che stanno investendo l'area mediterranea e la presenza di risorse petrolifere spiega solo una parte del fenomeno. Le recenti rivoluzioni di piazza nell'area mediterranea dimostrano che le risorse petrolifere non sono sufficienti a spiegare i regimi politici ed è evidente che nei paesi ricchi di petrolio qualcosa scricchiola nella distribuzione di ricchezza che ha mantenuto bassa la motivazione alla democrazia - la forbice tra clan al potere e popolo si è fatta troppo ampia per essere assorbita efficacemente nelle forme di riconoscimento sociale che hanno retto finora.
Da parte mia osservo che dei numerosi articoli di Reset che hanno partecipato al dibattito intorno all'articolo di Diamond - firmati da Massimo Campanini, Stefano Allievi, Emma Bonino e Giuliano Amato, tra gli altri -, nessuno mi è sembrato tenesse in debito conto il ruolo, direi attivo, dei paesi (apparentemente) democratici nel frenare lo sviluppo della democrazia nei paesi musulmani - semmai si fa riferimento al timore occidentale che la democrazia nell'islam divenga strumento del fondamentalismo dei fratelli musulmani, Hamas docet, e questo rivela in definitiva quanto i paesi occidentali abbiano paura della democrazia, paura celata sotto le mentite spoglie della prudenza. Lo stesso Diamond sostiene, in maniera del tutto autoassolutoria (ed errata, a ragion veduta) in quanto americano, che l'Iraq potrebbe fare da apripista nella domanda di democrazia nei paesi musulmani, di fatto legittimando la cosiddetta "esportazione di democrazia" perseguita da un governo criminale e sostenuta da alleati altrettanto criminali. Poca o nessuna attenzione viene rivolta al fatto che la democrazia è in sé una struttura di potere complessa, più complessa di un qualsiasi regime autoritario in cui la linea del potere è corta e lineare, contrariamente al 'flusso' di potere diffuso, lungo e ramificato che potrebbe descrivere una democrazia. Solo marginalmente Diamond parla delle "forze esterne" che aiutano i regimi autocratici "a conservare il proprio ruolo" lasciando sottinteso che il motivo del sostegno economico e militare è la domanda energetica dei paesi occidentali ma evitando di dire che un regime autocratico fa comodo proprio alla soddisfazione di quella domanda. In sostanza l'Italia sta dimostrando come per molti paesi occidentali, più attenti ai propri interessi economici che all'affermazione dei diritti, sia molto più facile e redditizio avere a che fare con strutture di potere semplici che fanno capo ad un singolo soggetto anziché avere a che fare con strutture complesse tipiche della democrazia. Quando il potere è concentrato la linea di comunicazione è molto più breve e le trattative sono più rapide. In questi casi le transazioni praticamente volano.
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Preferirei sentirmi dire che bisogna tenere spenta la luce e i riscaldamenti, che bisogna ridurre l'uso delle auto per risparmiare sull'energia che viene dalla Libia anziché far parte di un paese governato da un tizio che appoggia un dittatore che fa bombardare il suo popolo dall'aviazione militare.
sabato 19 febbraio 2011
Momenti solenni
Ho letto su alcuni blog (nel blog di Lameduck e in quello di Alberto) la proposta di organizzare per il 6 aprile prossimo un appuntamento davanti al Palazzo di Giustizia di Milano, ciascuno con una buona manciata di monetine in memoria di un altro storico momento della storia patria. Per ammissione dello stesso Alberto la proposta è una boutade perché "quando la storia si ripete diventa una stantia sceneggiata". Ha ragione Alberto a suggerire modi di manifestare che siano più creativi, "dalle pernacchie in poi", raccogliendo le osservazioni di Zio Scriba.
Da qui prendo le mosse per fare una proposta che non è per niente una boutade ed è invece estremamente seria, direi quasi solenne. Di solito nei momenti più alti della nazione ci si unisce nel fatidico minuto di silenzio che si può osservare in ogni luogo, al lavoro, per strada, in casa, ovunque. Tutti si fermano per un minuto di solenne raccoglimento, in piedi, mano sul cuore e in religioso silenzio. Ebbene, sulla scia di quella manifestazione di solennità per il 6 aprile propongo il "minuto del pernacchio" da osservare con la stessa identica solennità del minuto di silenzio, in piedi e con la mano sul cuore. Caro Alberto, altro che pernacchie, qui parliamo di ben altro e siccome la cosa richiede preparazione, studio e abnegazione tocca prepararsi per tempo per arrivare pronti all'appuntamento. Quale miglior Maestro di Eduardo De Filippo per studiare la difficile pratica del pernacchio?
Il 6 aprile non c'è bisogno di andare a Milano davanti al Palazzo di Giustizia, anche perché il celebre ospite atteso per quella data potrebbe trovare mille scuse (ops! legittimi impedimenti) per non presentarsi. Potremmo invece metterci d'accordo per un'ora precisa, diciamo mezzogiorno, e quando l'orologio scatta si parte all'unisono da tutti i punti d'Italia con il minuto del pernacchio.
Se cominciamo il tam tam da subito potremmo arrivare preparati al giorno designato!
Da qui prendo le mosse per fare una proposta che non è per niente una boutade ed è invece estremamente seria, direi quasi solenne. Di solito nei momenti più alti della nazione ci si unisce nel fatidico minuto di silenzio che si può osservare in ogni luogo, al lavoro, per strada, in casa, ovunque. Tutti si fermano per un minuto di solenne raccoglimento, in piedi, mano sul cuore e in religioso silenzio. Ebbene, sulla scia di quella manifestazione di solennità per il 6 aprile propongo il "minuto del pernacchio" da osservare con la stessa identica solennità del minuto di silenzio, in piedi e con la mano sul cuore. Caro Alberto, altro che pernacchie, qui parliamo di ben altro e siccome la cosa richiede preparazione, studio e abnegazione tocca prepararsi per tempo per arrivare pronti all'appuntamento. Quale miglior Maestro di Eduardo De Filippo per studiare la difficile pratica del pernacchio?
Da L'oro di Napoli, Vittorio De Sica, 1954. Il professore.
Il 6 aprile non c'è bisogno di andare a Milano davanti al Palazzo di Giustizia, anche perché il celebre ospite atteso per quella data potrebbe trovare mille scuse (ops! legittimi impedimenti) per non presentarsi. Potremmo invece metterci d'accordo per un'ora precisa, diciamo mezzogiorno, e quando l'orologio scatta si parte all'unisono da tutti i punti d'Italia con il minuto del pernacchio.
Se cominciamo il tam tam da subito potremmo arrivare preparati al giorno designato!
venerdì 18 febbraio 2011
L'utile idiota!
"Con il premier il Paese è ormai in declino, ma ci è utile e va aiutato: Obama deve salvarlo al G8 dell'Aquila", Wikileaks.
Canaletto, Capriccio con rovine, 1723. |
giovedì 17 febbraio 2011
Finis terrae
Una perla, vi offro una perla del mio amico Vincenzo. Ogni mia parola, imperativo stanco, sarebbe di troppo.
Senza titolo
L’imperativo della parola
chiede una voce.
Sono come nella periferia
di un paese del Capo sul mare,
con una vista e un vento battesimali
e navigo come viaggiatore con radici
a strascico.
Vincenzo Errico, Taccuino Blu.
Senza titolo
L’imperativo della parola
chiede una voce.
Sono come nella periferia
di un paese del Capo sul mare,
con una vista e un vento battesimali
e navigo come viaggiatore con radici
a strascico.
Vincenzo Errico, Taccuino Blu.
martedì 8 febbraio 2011
Era il 1981
Conoscevo questa vignetta, finora introvabile, perché citata da molti autori. E' stata pubblicata sulla copertina dell'ultimo numero di MicroMega 1/2011 dedicato a “Berlusconismo e fascismo (1)”.
A commento della vignetta non c'è nulla da aggiungere. Altan è autore sublime che in pochi tratti e pochissime parole dice tutto quello che c'è da dire e il trentennio che è seguito da quando la vignetta fu pubblicata è un esauriente e triste compendio della sua lungimiranza. Berlusconi e i suoi accoliti non sono che la ciliegina sulla torta del trentennio.
A commento della vignetta non c'è nulla da aggiungere. Altan è autore sublime che in pochi tratti e pochissime parole dice tutto quello che c'è da dire e il trentennio che è seguito da quando la vignetta fu pubblicata è un esauriente e triste compendio della sua lungimiranza. Berlusconi e i suoi accoliti non sono che la ciliegina sulla torta del trentennio.
Bordello Italia
Ieri sera ho visto L'infedele di Gad Lerner che si chiedeva "L'Italia non è un bordello?", tra gli ospiti c'era Vittorio Messori.
Immagino che doversi prostituire sia sempre imbarazzante, doverlo fare in latino fa venire il voltastomaco!
Nel XIX Canto dell'Inferno Dante tratta il tema della simonia, cioè della colpa di quanti sono dediti alla compravendita di cariche ecclesiastiche o di beni spirituali (p.es. il perdono dei peccati o vendita di indulgenze). Nei versi che riporto Dante risponde a Niccolò III che in vita fu papa e il poeta condanna a stare conficcato a testa in giù, dentro una buca da cui sporgono le gambe tormentate dal fuoco.
Io non so s'i' mi fui qui troppo folle,
ch'i' pur rispuosi lui a questo metro:
«Deh, or mi dì: quanto tesoro volle
Nostro Segnore in prima da san Pietro
ch'ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non "Viemmi retro".
Né Pier né li altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdé l'anima ria.
Però ti sta, ché tu se' ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
ch'esser ti fece contra Carlo ardito.
E se non fosse ch'ancor lo mi vieta
la reverenza de le somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta,
io userei parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
calcando i buoni e sollevando i pravi.
Di voi pastor s'accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l'acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;
quella che con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque.
Fatto v'avete dio d'oro e d'argento;
e che altro è da voi a l'idolatre,
se non ch'elli uno, e voi ne orate cento?
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!»
Dalla Divina Commedia di Dante Alighieri. Inferno, Canto XIX, vv. 89-117.
Immagino che doversi prostituire sia sempre imbarazzante, doverlo fare in latino fa venire il voltastomaco!
***
La bolgia dei simoniaci, Gustave Doré |
Nel XIX Canto dell'Inferno Dante tratta il tema della simonia, cioè della colpa di quanti sono dediti alla compravendita di cariche ecclesiastiche o di beni spirituali (p.es. il perdono dei peccati o vendita di indulgenze). Nei versi che riporto Dante risponde a Niccolò III che in vita fu papa e il poeta condanna a stare conficcato a testa in giù, dentro una buca da cui sporgono le gambe tormentate dal fuoco.
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Io non so s'i' mi fui qui troppo folle,
ch'i' pur rispuosi lui a questo metro:
«Deh, or mi dì: quanto tesoro volle
Nostro Segnore in prima da san Pietro
ch'ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non "Viemmi retro".
Né Pier né li altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdé l'anima ria.
Però ti sta, ché tu se' ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
ch'esser ti fece contra Carlo ardito.
E se non fosse ch'ancor lo mi vieta
la reverenza de le somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta,
io userei parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
calcando i buoni e sollevando i pravi.
Di voi pastor s'accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l'acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;
quella che con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque.
Fatto v'avete dio d'oro e d'argento;
e che altro è da voi a l'idolatre,
se non ch'elli uno, e voi ne orate cento?
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!»
Dalla Divina Commedia di Dante Alighieri. Inferno, Canto XIX, vv. 89-117.
domenica 6 febbraio 2011
150° dell'Unità d'Italia
Giuseppe Mazzini |
"Senza una bella tempesta che spazzi via tutto non c'è speranza. L'aria è inquinata. Le parole hanno perso il loro significato. Si è perduta ogni regola di veridicità e di morale politica." Giuseppe Mazzini, 1857. Cit. in Giancarlo De Cataldo, L'Antitaliano. MicroMega, 8/2010.
giovedì 3 febbraio 2011
All'improvviso
- E' successo così, all'improvviso.
- Cosa significa all'improvviso?
Gradualità, ci vuole gradualità. Abbiamo bisogno di tempo. Non possiamo comprendere eventi troppo rapidi, che accadono senza avvisarci, senza renderci partecipi del disegno che si sta realizzando. Non che ciò che accade rappresenti in alcun modo un disegno ma abbiamo il tenero bisogno di tracciare linee che uniscono i punti e le forme che vediamo chiamiamo disegno.
- Un incidente?
- No, a casa.
Gradualità o qualcosa di estraneo, va bene che sia inatteso ma deve essere estraneo, deve avvenire fuori dalle mura sicure della quotidianità. Serve per convincersi di poter capire.
- Come è successo?
- Te l'ho detto mille volte, il tempo di uscire dalla stanza, rovistare in un cassetto e al rientro...
Spiegare, descrivere tutto. Portare il caos nel recinto, contenerlo, dominarlo in qualche modo. Ripetere, ripetere ogni singola mossa, ogni tappa, mimarla se necessario, ripetere le parole già usate, le impressioni, ripercorrere minuziosamente i pensieri come per ricreare il corso degli eventi, per capire se è sfuggito qualcosa. Ogni volta un dettaglio in più per arrampicarsi in cima agli eventi, pronunciare le parole giuste, lentamente, eseguire ogni gesto, con cura, come a cercare la formula miracolosa o la posizione magica che fa riavvolgere il tempo.
- Non si spiega.
No, non si spiega. Le cose che accadono restano avvolte nelle pieghe del tempo e raccontarle e riraccontarle non le svolge da quell'intreccio ormai inestricabile.
- Eppure doveva esserci qualcosa, un segno, un'avvisaglia.
- Nulla, stava bene.
Si è rotto un filo nella maglia, il tessuto di vite sfilacciate non si ricuce. Non abbiamo fili per ripararlo, solo un fragile impasto di parole e silenzio, per nascondere gli strappi.
"Così va la vita!"
- Cosa significa all'improvviso?
Gradualità, ci vuole gradualità. Abbiamo bisogno di tempo. Non possiamo comprendere eventi troppo rapidi, che accadono senza avvisarci, senza renderci partecipi del disegno che si sta realizzando. Non che ciò che accade rappresenti in alcun modo un disegno ma abbiamo il tenero bisogno di tracciare linee che uniscono i punti e le forme che vediamo chiamiamo disegno.
- Un incidente?
- No, a casa.
Gradualità o qualcosa di estraneo, va bene che sia inatteso ma deve essere estraneo, deve avvenire fuori dalle mura sicure della quotidianità. Serve per convincersi di poter capire.
- Come è successo?
- Te l'ho detto mille volte, il tempo di uscire dalla stanza, rovistare in un cassetto e al rientro...
Spiegare, descrivere tutto. Portare il caos nel recinto, contenerlo, dominarlo in qualche modo. Ripetere, ripetere ogni singola mossa, ogni tappa, mimarla se necessario, ripetere le parole già usate, le impressioni, ripercorrere minuziosamente i pensieri come per ricreare il corso degli eventi, per capire se è sfuggito qualcosa. Ogni volta un dettaglio in più per arrampicarsi in cima agli eventi, pronunciare le parole giuste, lentamente, eseguire ogni gesto, con cura, come a cercare la formula miracolosa o la posizione magica che fa riavvolgere il tempo.
- Non si spiega.
No, non si spiega. Le cose che accadono restano avvolte nelle pieghe del tempo e raccontarle e riraccontarle non le svolge da quell'intreccio ormai inestricabile.
- Eppure doveva esserci qualcosa, un segno, un'avvisaglia.
- Nulla, stava bene.
Si è rotto un filo nella maglia, il tessuto di vite sfilacciate non si ricuce. Non abbiamo fili per ripararlo, solo un fragile impasto di parole e silenzio, per nascondere gli strappi.
"Così va la vita!"
Trophime Bigot o il maestro della candela (1579-1649/50). Ragazzo che brucia le ali di un pipistrello. |
Grandissima Annarella!
Un sincero grazie a Eleonora che ha pubblicato il filmato di questa donna straordinaria. Annarella, mi ricordi mia nonna che alla soglia dei novant'anni non poteva soffrire il "mascalzone che ride sempre".
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