"Non siamo per il principio di autodeterminazione, ma per una legislazione che eviti sia l'accanimento terapeutico sia l'abbandono terapeutico", "la decisione non deve spettare alla persona." Queste parole furono pronunciate da Monsignor Betori in una conferenza stampa della CEI e pubblicate il 1° ottobre del 2008. Parole di una gravità inaudita che non passarono inosservate ai più attenti osservatori, soprattutto a quelli vicini alla cultura cattolica. Roberta de Monticelli le considerò così gravi da arrivare addirittura ad una abiura dalla Chiesa cattolica.
De Monticelli ha letto in quelle parole la rottura di una nozione tipicamente cristiana che è quella di individuo e di responsabilità. Questo concetto nasce in occidente con la tradizione cristiana. Solo con il riconoscimento dell'individualità dell'anima e della irrevocabilità di una storia lineare è possibile concepire la responsabilità e indissolubilmente la libertà di azione, da cui discendono colpa e perdono. Impianto concettuale che troviamo trasposto nel diritto quando il riconoscimento della responsabilità penale dell'individuo non può prescindere dalla volontà del soggetto e dalla libertà di esercitare tale volontà.
Solitamente l'anima di Platone viene posta a fondamento del concetto cristiano di individuo ma per il filosofo greco l’anima è modello di riferimento per la conoscenza che nulla può modificare dell’ordine cosmico, per il cristiano l'anima può intercedere presso Dio. In Platone l’ordine immanente e quello trascendente non comunicano e non interagiscono, il primo deve imitare il secondo, poiché questo ha abbandonato il mondo terreno. E' per questo motivo che l'uomo deve organizzare politicamente il proprio agire, in una dimensione politica dove la collettività ha il primato sul singolo.
Nonostante il principium individuationis apollineo avesse ormai definitivamente vinto la sua battaglia contro l'universale dionisiaco ed il tempo della tragedia greca fosse già finito[1], il tempo di Platone scorreva ancora ciclicamente secondo necessità che gli Dei non potevano turbare e alle quali essi stessi erano assoggettati. Il tempo cristiano è governato da una divinità che può tutto e che può intervenire nelle cose terrene secondo disegni imperscrutabili. Il cristiano, eredita dalla cultura giudaica la storia nata dalla creazione del mondo che scioglie il circolo del tempo greco rendendolo lineare e progressivo verso una meta di salvezza. La giustizia dei greci è scalzata dalla colpa dei cristiani e se l’una riguarda l’ordine universale, l’altra investe i singoli individui.
In buona sostanza per Platone il concetto di anima (che nelle sue trasmigrazioni ha conosciuto le idee) era un concetto metodologico, squisitamente epistemologico, ossia modello di conoscenza al quale conformarsi per non cadere vittime degli inganni della sensibilità. In altre parole è un concetto più vicino alla razionalità di quanto non si sia inteso successivamente. E' con Agostino che l'anima diventa sede dell'identità personale e della rivelazione della verità della fede. Il registro platonico, da modello di conoscenza diventa strumento di salvezza. Con Agostino l'io diventa oggetto di interrogazione e assume valenza concreta di realtà. Il modello di realtà che prima era esterno all'interrogante adesso è portato al suo interno. E' in questo rivolgimento della filosofia platonica che prende forma l'individuo cristiano[2].
Da qui all'individuo della modernità, con la sua fiducia nella ragione, c'è un altro rivolgimento. Le similitudini tra il cogito cartesiano e l'intima interrogazione delle Confessioni di Agostino sono innegabili ma "se davvero, con Descartes, la prima modernità è caratterizzata «dall'interesse esclusivo per l'io» e dalla «perdita del mondo» (ma il dubbio è lecito), la fase successiva mira piuttosto, in alcune delle sue più rilevanti espressioni, all'acclimatazione del soggetto alla «fertile pianura dell'esperienza» condivisa e al terreno accidentato della storia collettiva. Questa impresa s'intreccia con lo sviluppo del giusnaturalismo, che lega il singolo uomo a tutti gli altri in un patto politico artificiale, sottraendolo così al suo isolamento e spingendolo verso l'universalità."[3]
L'individuo moderno, titolare di diritti che la collettività non può negargli e che varrebbero etsi Deus non daretur, non ha alcun senso se estratto dal contesto sociale in cui questi diritti hanno riconoscimento. Molto tempo dopo le guerre di religione tra cattolici e protestanti (tutti cristiani) che insanguinarono l'Europa per decenni e da cui l'Europa rinacque ormai secolarizzata, l'individuo fu riconosciuto nel suo contesto sociale e l'atto politico in cui tale individuo venne definitivamente alla luce è la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 26 agosto 1789. In quel testo si imponevano "l'intreccio di due temi contrapposti, quello dei diritti individuali e quello della volontà generale, che si è soliti associare al nome di Locke il primo, di Rousseau il secondo, e con tanta forza che il problema centrale diventa quello di sapere cosa li unisca, cosa conferisca unità e coerenza a questa dichiarazione." [4] La storia poi prese un'altra strada e quell'individuo, che doveva essere la sintesi delle due tendenze, rimase in bilico, ora spostato tutto da una parte, ora tutto dall'altra. Ciononostante quell'individuo era stato concepito e l'Europa non sarebbe più stata quella di prima.
Quando si parla di individuo ci confrontiamo con un concetto dalle molteplici forme e significati, francamente devo ammettere che il concetto di individuo di matrice cristiana su cui si baserebbero le radici dell'Europa moderna mi lascia un po' perplesso. In un libro recente Dario Antiseri si chiede se relativismo, nichilismo ed individualismo siano manifestazioni fisiologiche o patologiche dell’Europa[5]. In quelle che solitamente vengono presentate come le piaghe dell’occidente Antiseri vede giustamente ciò che ha costruito un’Europa aperta al pluralismo dei valori, consapevole dell’assenza di senso assoluto che è sorgente di tolleranza, e dove l’individuo libero, cosciente e responsabile ha il primato rispetto allo Stato.
Antiseri riconosce nel concetto di individuo le radici cristiane dell’Europa. Indubbiamente questo concetto sorge con il cristianesimo ed è innegabile che l’individuo, manifestazione di una libera coscienza, si oppone allo Stato totalitario e totalizzante. Il filosofo ci guida per le vie di un pensiero debole che apre alla fede, riconoscendone tuttavia l’infondabilità. Le motivazioni del suo pensiero sono convincenti, a differenza di quanti, dietro il paravento del pensiero forte e dei paramenti papali, nascondono solo un’adolescenziale arroganza. Pertanto se il concetto di individuo, di matrice cristiana, fonda un’Europa dalle radici cristiane è cosa che va considerata seriamente. Tuttavia manca a mio avviso una precisazione di non poco conto per avere un quadro completo della faccenda, ovvero se insieme all’individuo doveva nascere anche il cittadino perché l’Europa, così come la conosciamo, prendesse forma. Se avevano ragione Rousseau ad affermare che il cristiano è un cattivo cittadino, perché incurante dei problemi terreni[6], e Agostino che invocava la subordinazione della città terrena a quella divina[7], mi pare difficile riconoscere al cristianesimo un diritto esclusivo di paternità dell’Europa solo sulla base del concetto di individuo. Il cristianesimo ha creato l’individuo ma non lo ha certamente concepito per le cose terrene. Ma allora l’Europa non sarà mica il regno dei cieli?
Comunque sia, se non si possono disconoscere del tutto le radici cristiane dell'Europa, né vedo ragioni per farlo, è anche vero che è forte l'impressione che, come Agostino ha tirato un brutto scherzo a Platone, a volte si confonda l'individuo di Agostino, soggetto recipiente della verità e titolare del rapporto con Dio, con l'individuo sociale della polis.
Se l'individuo è l'atomo del discorso (i due termini, individuo/atomo, hanno simili radici, l'uno latina, l'altro greca) è necessario considerare che esistono molti tipi atomi, alcuni non stabiliscono legami con altri atomi, sono i cosiddetti gas nobili, altri non possono esistere se non in stretto legame con altri atomi. La struttura atomica dei gas nobili è stabile, gli orbitali più esterni hanno una configurazione elettronica completa e non presentano valenze di legame disponibili. Per comprendere le interazioni tra gli atomi comuni si deve spostare l'attenzione non tanto sulla loro individualità ma sulla loro valenza, ovvero sulla loro disponibilità a creare legami equilibrando il rispettivo eccesso o difetto di elettroni. Io ho l'impressione che all'individuo, che nasce dal cristianesimo di matrice agostiniana, sia connaturata una sorta di autosufficienza che manca all'individuo che prende forma nella modernità, sebbene non si può non riconoscerne dell'uno la filiazione dall'altro, né si può disconoscere l'evoluzione del concetto di individuo nella cultura cristiana e le implicazioni che questo ha avuto in termini di partecipazione sociale. L'individuo cristiano "adulto" che viene fuori da questa evoluzione più che il padre dell'Europa moderna ne è il figlio. Un'Europa che annovera tra le sue radici Atene, Gerusalemme e Roma, e inevitabilmente l'elaborazione illuministica dell'individuo[8]. Elaborazione che in nessun modo può essere messa da parte, sia pure con tutte le sue degenerazioni successive.
Per ritornare alla questione di partenza, De Monticelli scrive della dichiarazione di Betori "questa dichiarazione è la più tremenda, la più diabolica negazione di esistenza della possibilità stessa di ogni morale: la coscienza, e la sua libertà. La sua libertà: di credere e di non credere (e che valore mai potrebbe avere una fede se uno non fosse libero di accoglierla o no?), di dare la propria vita, o non darla, di accettare lo strazio, l'umiliazione di non essere più che cosa in mano altrui, o di volerne essere risparmiato." Monsignor Betori nella sua replica a De Monticelli opera una netta distinzione, a mio avviso assurda, tra libertà di coscienza e auto-determinazione. Il problema è se Betori e De Monticelli si riferiscono allo stesso individuo. A quale individuo fa riferimento Betori? A quello di Agostino o a quello del cristianesimo sociale e del personalismo? All'individuo dell'infanzia cristiana o a quello della sua maturità che ha trovato espressione nel magistero del Concilio Vaticano II?
A seconda delle risposte a queste domande la replica di Betori potrebbe apparire persino sensata, anche se devo ammettere che per farla apparire tale lo sforzo deve essere proprio enorme e giustamente Vito Mancuso non ha fatto questo sforzo. Il teologo, non riuscendo a cogliere la pertinenza della distinzione di Betori, chiede "che cosa se ne fa un uomo di una coscienza libera a livello teorico, se poi, a livello pratico, non può autodeterminarsi deliberando su se stesso?". Mancuso, quando pone questa fondamentale domanda e De Monticelli, quando vede la terribile lacerazione nel concetto di individuo aperta dalle affermazioni di Betori, forse hanno in mente un individuo che sostiene Sapere aude! Un individuo che osa guardare alla bellezza e all'orrore dell'esistente, che guarda quell'abisso, ne è meravigliato e atterrito, eppure sa di non potersi sottrarre da quello sguardo. E' un individuo che sa di correre il rischio di rimanere pietrificato da quello sguardo ma lo affronta pur di "consegnare alla morte una goccia di splendore / di umanità / di verità."[9] Monsignor Betori aveva in mente un altro tipo di individuo.
Un mio carissimo amico, che non vedo da tanto tempo e che ricordo molto sensibile al discorso della fede, diceva "ci sono tre grandi temi che nostro Signore, nella sua infinita onniscienza, non potrà mai sapere, il primo è quanti soldi hanno i salesiani, il secondo è quanti ordini monastici femminili esistono al mondo e il terzo, di tutti il più arduo, è cosa pensano i gesuiti." Se è impresa ardua per Dio, figuriamoci per filosofi e teologi, e per me che non sono né l'uno né l'altro!
[1] F. W. Nietzsche, La nascita della tragedia. Newton Compton, 1991.
[2] U. Galimberti, Il corpo, 2008.
[3] R. Bodei, Destini personali. L'età della colonizzazione delle coscienze. Feltrinelli, 2009, p.11
[4] A. Touraine, Critica della modernità. L'epoca moderna tra soggetto e ragione. Il Saggiatore, 2005, p.71
[5] D. Antiseri, Relativismo, nichilismo, individualismo. Fisiologia o patologia dell’Europa? Rubbettino, 2005.
[6] J. J. Rousseau, Il contratto sociale. Einaudi, 1966. "Ciò che i pagani avevano temuto è accaduto. Allora tutto ha cambiato aspetto; gli umili cristiani hanno cambiato linguaggio; e ben presto si è visto questo preteso regno dell'altro mondo divenire, sotto un capo visibile, il più violento dispotismo di questo mondo.", p. 206.
"Rimane dunque la religione dell'uomo o il cristianesimo, non quello d'oggigiorno (era il 1761, nota mia) , ma quello del Vangelo, che è del tutto differente. Con questa religione santa, sublime, vera, gli uomini, figli dello stesso Dio, si riconoscono tutti fratelli e la società che li unisce non si dissolve neanche con la morte.
Ma questa religione, non avendo alcun legame particolare con il corpo politico, lascia alle leggi la sola forza che esse traggono da se stesse senza conferirne loro alcun'altra; e con ciò uno dei grandi vincoli della società particolare resta senza effetto. Inoltre, invece di far sì che i cuori dei cittadini si affezionino allo Stato, li distacca da esso come da tutte le cose di questo mondo. Non conosco niente di più contrario allo spirito sociale." p. 210.
[7] Agostino di Tagaste, La città di Dio. Rusconi, 1984.
[8] T. Todorov, Lo spirito dell'illuminismo. Garzanti, 2007.
[9] F. De André, I. Fossati, Smisurata preghiera. In: Anime salve, 1996.
"Concludiamone dunque che il mondo sarebbe assai migliore se ciascuno si accontentasse di quello che dice, senza aspettarsi che gli rispondano, e soprattutto senza chiederlo né desiderarlo." José Saramago
sabato 28 febbraio 2009
martedì 24 febbraio 2009
Origine degli angeli
Elias Canetti |
“Solo un’immagine può piacere interamente, mai una persona. Origine degli angeli”.[1] In questa mesta osservazione di Elias Canetti, riportata nei quaderni del 1942, c’è la premessa dell’annientamento dell’uomo e del conflitto con la sua natura terrena, irrimediabilmente caduca, sfuggente e in fin dei conti refrattaria alla volontà. L’uomo rifiuta quella parte di sé che, come la natura, sfugge al controllo. Solo l’infanzia, nella sua condizione indifesa, soddisfa ad un tempo il desiderio di sopraffazione e di amore dell’uomo celando l’uno e l’altro sotto la maschera della custodia. Se l’amore per l’infante è l’ultima soglia prima del rifiuto dell’altro, allora occorre cautela nell’amare Dio senza considerare l’uomo poiché quest’atto è come amare i bambini, troppo facile e nasconde innumerevoli insidie. Più difficile è confrontarsi con la spietata varietà umana nel suo stato adulto, misurarsi con la sete di libertà che affligge quell’essere capace di pensarsi nel tempo, capace di allevare la speranza di un senso e capace di stabilire per sè quando la ricerca del senso può dirsi compiuta. Amare l’uomo è difficile perché, come il cucciolo quando cresce, può diventare feroce, intrattabile, comunque altro e non può essere in alcun modo inteso come proiezione di un desiderio di amore ma deve essere rispettato in quanto soggetto autonomo, capace e libero. Amare l’uomo è difficile, eppure inevitabile, al di là della sua ferocia, al di là di Dio.
Lèvinas che ha posto al centro della sua riflessione l'alterità, che si è immerso nel mare infinito dell'altro, "scrive che l’etica è più importante della religione e i credenti, se sono onesti, devono rispondere alle legittime, pressanti e chiare sollecitazioni degli atei"[2].
Intorno al testamento biologico si incontrano due grandi temi, il libero arbitrio del pensiero teologico e l'autodeterminazione della cultura laica. I due discorsi non si escludono e, se si spogliano dal mediocre e atavico bisogno del controllo dell'altro, le loro strade possono congiungersi. La libertà dell'uomo sta a fondamento del discorso di fede e del discorso laico, se il fondamento viene meno, cade per entrambi, allora si potrà parlare solo di dominio.
Ascolta Stefano Rodotà, Paolo Flores d'Arcais, Andrea Camilleri, Giovanni Franzoni, Daniele Garrone.
[1] E. Canetti, La provincia dell’uomo. Opere 1932-1973, Bompiani, Milano, 1990, p. 1600
[2] Cit. in L'ateismo della ragione e le ragioni della fede, Dialogo tra O. Franceschelli, P. Flores d'Arcais, E. Bianchi, M. Ovadia, U. Galimberti. Micromega 3/2007, 207-235
giovedì 19 febbraio 2009
Effetto senza causa
La condanna di Mills (in primo grado, diciamolo subito per non sembrare giustizialisti) fa sorgere una riflessione. Per allontanare ulteriormente ogni sospetto di giustizialismo anticipo subito che non si tratta di pensiero di natura giudiziaria o politica ma squisitamente filosofica che potrebbe avere interessanti sviluppi in ambito scientifico. Il ragionamento sorge ancora più imperioso considerando i resoconti della stampa estera sulla vicenda.
Il nocciolo della riflessione, breve per carità, ruota intorno al principio di causalità. Una semplificazione della faccenda vuole che ad un effetto sia associata una causa, che solitamente lo precede temporalmente. L'antico concetto di causalità raggiunge la sua forma più alta con Aristotele che ne La fisica di cause ne aveva formalizzate addirittura quattro: efficiens, materialis, formalis e finalis. La connessione tra causa ed effetto è stata messa in dubbio da Hume che nel 1739-40 aveva capito che la causalità, intesa come necessaria connessione tra due eventi, potrebbe non essere affatto presente in natura e potrebbe non essere altro che un "bisogno della mente". Secondo il filosofo scozzese l'unica relazione dimostrabile tra causa ed effetto è la contiguità o la successione degli eventi e la relazione non può prescindere dalla nostra esperienza[1]. In altre parole, visto che siamo abituati ad osservare una certa relazione tra una certa causa ed un certo effetto, stabiliamo una connessione necessaria tra i due eventi che in realtà è una necessità psicologica e non oggettiva. Il pensiero di Hume influenzò enormemente lo stesso Kant il quale riconobbe che l'intelletto non attinge le sue leggi dalla natura, ma le prescrive ad essa[2].
Nella seconda metà del '900 questo pensiero ha trovato espressione, ad opera di diversi pensatori, nel cosiddetto costruttivismo, ossia "una teoria della conoscenza in cui la conoscenza non riguarda più una realtà "oggettiva" ontologica, ma esclusivamente l'ordine e l'organizzazione di esperienze nel mondo del nostro esperire"[3]. Insomma, la nostra realtà non avrebbe uno status indipendente dalla nostra percezione ma sarebbe letteralmente inventata attraverso la nostra percezione e "a condizione che la materia prima del mondo dell'esperienza sia abbastanza ricca, una coscienza assimilante può costruire regolarità e ordine anche in un mondo del tutto disordinato e caotico"[4]. Il costruttivismo ha dato un duro colpo al principio di causalità, soprattutto nella sua forma di linearità e di successione temporale. Si riconosce, grazie alla cibernetica, l'esistenza di una causalità circolare e si considerano i fenomeni di autoregolazione presenti in natura, in cui l'effetto agisce sulla causa e non solo viceversa (se si pensa alla tragedia di Edipo si scoprono le radici antiche di questo pensiero). Tuttavia la percezione, "l'invenzione" ed il bisogno di ordine, cui il principio di causalità risponde, restano vincolati ai meccanismi fisiologici che attraverso i processi evolutivi si sono selezionati. Si tratta sicuramente di quello zoccolo duro dell'essere di cui parla Eco, che pone dei limiti al discorso e ne condiziona l'attività ermeneutica[5].
Ad ogni modo, per non complicarsi di più la vita, sembrerebbe che, necessaria o meno, oggettiva o meno, una qualche relazione tra due eventi solitamente la stabiliamo.
Il caso Mills è invece paradigmatico di un fatto straordinario sotto due aspetti, da un lato è ormai assodato che esiste un effetto senza una causa (nel caso specifico, stando in un tribunale, si potrebbe parlare di una causa senza causa, ma questo l'aveva capito già Aristotele e non coglierebbe la novità della faccenda), dall'altro lato emerge che all'estero non è stata fatta ancora una profonda riflessione sul principio di causalità e sulla sua revisione. Se siamo pronti a cogliere il momento questo episodio ci avvantaggia enormemente per tentare di recuperare il ritardo nella ricerca scientifica rispetto agli altri paesi. Una nuova strada si apre per la lettura dei fenomeni naturali, una strada che ci porta oltre i paradigmi di Kuhn, ben oltre l'epistemologia anarchica di Feyerabend, verso nuovi lidi dove si possono osservare effetti senza dover perdere energie e tempo prezioso a comprenderne le cause. E' un gran vantaggio, basta saperlo sfruttare.
Per cui, o siamo di fronte ad un banale caso di autocorruzione, ma solitamente non sono pessimista, oppure stiamo aprendo un nuovo campo di straordinaria vastità nella riflessione filosofica e scientifica. Sempre che non intervengano i giudici dei gradi successivi o della Corte Costituzionale a rovinare tutto, come al solito.
[1] D. Hume, Ricerche sull’intelletto umano e sui principii della morale. Laterza, Bari, 1980.
[2] I. Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza. Laterza, Bari, 1985.
[3] E. von Glasersfeld, Introduzione al costruttivismo radicale. In: La realtà inventata. Contributi al costruttivismo. A cura di P. Watzlawick. Feltrinelli, Milano, 2006. p. 23
[4] Ibidem, p. 33. Una divertente digressione. Odifreddi riporta una osservazione simpaticamente simile da parte di Leibniz, sebbene per ragioni del tutto diverse. Leibniz nel Discorso di metafisica scrive: "Supponiamo che qualcuno segni su una carta una quantità di punti a caso: è possibile trovare una curva geometrica definibile in maniera uniforme mediante una regola, e che passi per tutti questi punti, proprio nell'ordine in cui la mano li ha tracciati. E se qualcuno traccia una curva continua, è possibile trovare un'equazione di questa curva che rende conto del suo comportamento. Ciò vuol dire che, in qualunque modo Dio avesse creato il mondo, esso sarebbe stato sempre regolare e fornito di un ordine generale." Con tutto il rispetto per l'inventore del calcolo infinitesimale, il ragionamento non sembra molto forte se il proposito è dimostrare l'esistenza dell'ordine-Dio. Odifreddi fa giustamente notare: "se però ogni universo, per quanto caotico, sarebbe pur sempre ordinato in senso astratto, allora il particolare ordine di questo universo non può dimostrare niente." In: P. Odifreddi, Il vangelo secondo la scienza. Einaudi, Torino, 1999, p. 209
[5] U. Eco, Kant e l'ornitorinco. Bompiani, Milano, 1997.
Il nocciolo della riflessione, breve per carità, ruota intorno al principio di causalità. Una semplificazione della faccenda vuole che ad un effetto sia associata una causa, che solitamente lo precede temporalmente. L'antico concetto di causalità raggiunge la sua forma più alta con Aristotele che ne La fisica di cause ne aveva formalizzate addirittura quattro: efficiens, materialis, formalis e finalis. La connessione tra causa ed effetto è stata messa in dubbio da Hume che nel 1739-40 aveva capito che la causalità, intesa come necessaria connessione tra due eventi, potrebbe non essere affatto presente in natura e potrebbe non essere altro che un "bisogno della mente". Secondo il filosofo scozzese l'unica relazione dimostrabile tra causa ed effetto è la contiguità o la successione degli eventi e la relazione non può prescindere dalla nostra esperienza[1]. In altre parole, visto che siamo abituati ad osservare una certa relazione tra una certa causa ed un certo effetto, stabiliamo una connessione necessaria tra i due eventi che in realtà è una necessità psicologica e non oggettiva. Il pensiero di Hume influenzò enormemente lo stesso Kant il quale riconobbe che l'intelletto non attinge le sue leggi dalla natura, ma le prescrive ad essa[2].
Nella seconda metà del '900 questo pensiero ha trovato espressione, ad opera di diversi pensatori, nel cosiddetto costruttivismo, ossia "una teoria della conoscenza in cui la conoscenza non riguarda più una realtà "oggettiva" ontologica, ma esclusivamente l'ordine e l'organizzazione di esperienze nel mondo del nostro esperire"[3]. Insomma, la nostra realtà non avrebbe uno status indipendente dalla nostra percezione ma sarebbe letteralmente inventata attraverso la nostra percezione e "a condizione che la materia prima del mondo dell'esperienza sia abbastanza ricca, una coscienza assimilante può costruire regolarità e ordine anche in un mondo del tutto disordinato e caotico"[4]. Il costruttivismo ha dato un duro colpo al principio di causalità, soprattutto nella sua forma di linearità e di successione temporale. Si riconosce, grazie alla cibernetica, l'esistenza di una causalità circolare e si considerano i fenomeni di autoregolazione presenti in natura, in cui l'effetto agisce sulla causa e non solo viceversa (se si pensa alla tragedia di Edipo si scoprono le radici antiche di questo pensiero). Tuttavia la percezione, "l'invenzione" ed il bisogno di ordine, cui il principio di causalità risponde, restano vincolati ai meccanismi fisiologici che attraverso i processi evolutivi si sono selezionati. Si tratta sicuramente di quello zoccolo duro dell'essere di cui parla Eco, che pone dei limiti al discorso e ne condiziona l'attività ermeneutica[5].
Ad ogni modo, per non complicarsi di più la vita, sembrerebbe che, necessaria o meno, oggettiva o meno, una qualche relazione tra due eventi solitamente la stabiliamo.
Il caso Mills è invece paradigmatico di un fatto straordinario sotto due aspetti, da un lato è ormai assodato che esiste un effetto senza una causa (nel caso specifico, stando in un tribunale, si potrebbe parlare di una causa senza causa, ma questo l'aveva capito già Aristotele e non coglierebbe la novità della faccenda), dall'altro lato emerge che all'estero non è stata fatta ancora una profonda riflessione sul principio di causalità e sulla sua revisione. Se siamo pronti a cogliere il momento questo episodio ci avvantaggia enormemente per tentare di recuperare il ritardo nella ricerca scientifica rispetto agli altri paesi. Una nuova strada si apre per la lettura dei fenomeni naturali, una strada che ci porta oltre i paradigmi di Kuhn, ben oltre l'epistemologia anarchica di Feyerabend, verso nuovi lidi dove si possono osservare effetti senza dover perdere energie e tempo prezioso a comprenderne le cause. E' un gran vantaggio, basta saperlo sfruttare.
Per cui, o siamo di fronte ad un banale caso di autocorruzione, ma solitamente non sono pessimista, oppure stiamo aprendo un nuovo campo di straordinaria vastità nella riflessione filosofica e scientifica. Sempre che non intervengano i giudici dei gradi successivi o della Corte Costituzionale a rovinare tutto, come al solito.
[1] D. Hume, Ricerche sull’intelletto umano e sui principii della morale. Laterza, Bari, 1980.
[2] I. Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza. Laterza, Bari, 1985.
[3] E. von Glasersfeld, Introduzione al costruttivismo radicale. In: La realtà inventata. Contributi al costruttivismo. A cura di P. Watzlawick. Feltrinelli, Milano, 2006. p. 23
[4] Ibidem, p. 33. Una divertente digressione. Odifreddi riporta una osservazione simpaticamente simile da parte di Leibniz, sebbene per ragioni del tutto diverse. Leibniz nel Discorso di metafisica scrive: "Supponiamo che qualcuno segni su una carta una quantità di punti a caso: è possibile trovare una curva geometrica definibile in maniera uniforme mediante una regola, e che passi per tutti questi punti, proprio nell'ordine in cui la mano li ha tracciati. E se qualcuno traccia una curva continua, è possibile trovare un'equazione di questa curva che rende conto del suo comportamento. Ciò vuol dire che, in qualunque modo Dio avesse creato il mondo, esso sarebbe stato sempre regolare e fornito di un ordine generale." Con tutto il rispetto per l'inventore del calcolo infinitesimale, il ragionamento non sembra molto forte se il proposito è dimostrare l'esistenza dell'ordine-Dio. Odifreddi fa giustamente notare: "se però ogni universo, per quanto caotico, sarebbe pur sempre ordinato in senso astratto, allora il particolare ordine di questo universo non può dimostrare niente." In: P. Odifreddi, Il vangelo secondo la scienza. Einaudi, Torino, 1999, p. 209
[5] U. Eco, Kant e l'ornitorinco. Bompiani, Milano, 1997.
mercoledì 18 febbraio 2009
Ricetta rapida
Da tempo si preparano ricette dei più svariati gusti: Brunetta per la pubblica amministrazione, Gelmini (leggasi Tremonti) per la scuola, Maroni per la sicurezza, e via e via. Altre ricette arriveranno di sicuro. Piatti rapidi, fatti sempre in emergenza, fast food che non insegnano nulla, senza l'ingrediente che dà senso alle cose e che non è più nella lista della spesa.
Anch'io voglio dare un contributo sul tema e dirò della zuppa di grano che ho preparato ieri sera. E' una ricetta semplice, fatta di ingredienti genuini, facile da preparare. L'occorrente è per due persone.
grano (150 g)
cipolla (1)
carota (2)
zucchina (1)
pomodori (10)
prezzemolo (qualche foglia)
sale (qb)
olio (qb)
acqua (qb per la cottura)
Grano – La semina si fa tra ottobre e novembre dopo aver lavorato il terreno per accoglierne i semi. La pianta cresce rapidamente in primavera e solo a giugno, dopo nove mesi dalla semina, come un bambino, le spighe sono mature per essere raccolte.
Cipolla – Si seminano da settembre a dicembre. Dopo la semina bisogna attendere da tre a quattro mesi prima di raccoglierle.
Carota - Si coltiva due volte l'anno, in primavera e in estate. Le carote precoci vengono raccolte dopo quattro mesi, le tardive ne richiedono almeno sei.
Zucchine - La semina delle piante inizia quando è passato il pericolo delle gelate tardive, da marzo ad aprile. La raccolta è scalare fino ad agosto. Le prime raccolte si possono fare tra fine maggio e metà giugno, dopo almeno due mesi dalla semina. Le mie sono nate in qualche serra ma i tempi, bene o male, sono gli stessi che si hanno in natura.
Pomodori – E’ una pianta esigente, tutti i contadini della mia famiglia lo sanno bene, teme il freddo, ha bisogno di tanto sole e acqua a volontà. Di solito si preferisce la semina in semenzaio in piena estate, poi si trapianta sul terreno. Dopo 100-120 giorni dal trapianto si raccoglie il pomodoro. I pomodorini che ho usato io sono quelli “a pennula”, cresciuti al caldo sole del mio Salento, li ha raccolti mio nonno che ancora faceva caldo e avendo cura di tenerli al fresco si conservano fino a marzo.
Olio – L’olivo comincia a fruttificare quando ha 3-4 anni di età, per la piena produttività bisogna aspettare che compia 9-10 anni; la maturità arriva dopo almeno mezzo secolo, e non basta solo aspettare. L'olio che ho usato viene da alberi che hanno conosciuto la fatica dei nonni dei miei nonni e di tutti i loro figli, fino a mio padre. Da qualche parte, tra quei rami, ci sono ancora le loro impronte.
Prezzemolo– Quest'estate mio padre ne ha piantato i semi in un vasetto, dopo almeno due mesi e mezzo ho cominciato a raccoglierlo e ancora continuo a raccoglierlo.
Sale – Il sale da cucina italiano di solito è coltivato nelle miniere di salgemma, non so quanta strada avrà fatto per arrivare nella mia cucina, ma sicuramente viene da lontano.
Acqua – Prima di scorrere dal mio rubinetto sarà evaporata in cielo e caduta in terra milioni di volte. Ne ha fatta di strada.
La sera prima di preparare la zuppa metti a bagno il grano. Prepara le zucchine e le carote tagliandole a dadi non troppo piccoli, taglia la cipolla, trincia il prezzemolo, ci metterai 10 minuti, anche meno se hai buona manualità in cucina. Togli la buccia dei pomodori, non c’è bisogno di sbollentarli, se i pomodori sono maturi al punto giusto con un po’ di pazienza dovresti riuscirci senza problemi. Metti tutto in una pentola, aggiungi l’olio e soffriggi per 2-3 minuti. Aggiungi un litro e mezzo di acqua e quando sarà calda aggiungi il grano. Mescola di tanto in tanto e fai cuocere tutto per almeno 40 minuti. Se la zuppa ti piace asciutta non aggiungere altra acqua, quella che hai messo evaporerà.
Un giorno una madre insegnò a sua figlia come preparare questa ricetta, quell'insegnamento è arrivato fino a mia nonna, poi a mia madre. Io ho raccolto quell'insegnamento e lo racconto. Un giorno forse questa ricetta la prepareranno i tuoi figli, sicuramente non sapranno da dove viene eppure ne ha di storia, è importante che loro sappiano che c'è una storia, anche se non sapranno esattamente quale.
Ci ho messo più di un secolo e qualche minuto per preparare un piatto per due persone. Se preparare un piatto è un atto d'amore, come ci ricorda Enzo Bianchi ne "Il pane di ieri", non è possibile farlo senza una riflessione sul tempo che si porta dietro, e sul tempo che ha davanti.
Per questo non capirò mai né i fast food né la fast politics.
Anch'io voglio dare un contributo sul tema e dirò della zuppa di grano che ho preparato ieri sera. E' una ricetta semplice, fatta di ingredienti genuini, facile da preparare. L'occorrente è per due persone.
grano (150 g)
cipolla (1)
carota (2)
zucchina (1)
pomodori (10)
prezzemolo (qualche foglia)
sale (qb)
olio (qb)
acqua (qb per la cottura)
Grano – La semina si fa tra ottobre e novembre dopo aver lavorato il terreno per accoglierne i semi. La pianta cresce rapidamente in primavera e solo a giugno, dopo nove mesi dalla semina, come un bambino, le spighe sono mature per essere raccolte.
Cipolla – Si seminano da settembre a dicembre. Dopo la semina bisogna attendere da tre a quattro mesi prima di raccoglierle.
Carota - Si coltiva due volte l'anno, in primavera e in estate. Le carote precoci vengono raccolte dopo quattro mesi, le tardive ne richiedono almeno sei.
Zucchine - La semina delle piante inizia quando è passato il pericolo delle gelate tardive, da marzo ad aprile. La raccolta è scalare fino ad agosto. Le prime raccolte si possono fare tra fine maggio e metà giugno, dopo almeno due mesi dalla semina. Le mie sono nate in qualche serra ma i tempi, bene o male, sono gli stessi che si hanno in natura.
Pomodori – E’ una pianta esigente, tutti i contadini della mia famiglia lo sanno bene, teme il freddo, ha bisogno di tanto sole e acqua a volontà. Di solito si preferisce la semina in semenzaio in piena estate, poi si trapianta sul terreno. Dopo 100-120 giorni dal trapianto si raccoglie il pomodoro. I pomodorini che ho usato io sono quelli “a pennula”, cresciuti al caldo sole del mio Salento, li ha raccolti mio nonno che ancora faceva caldo e avendo cura di tenerli al fresco si conservano fino a marzo.
Olio – L’olivo comincia a fruttificare quando ha 3-4 anni di età, per la piena produttività bisogna aspettare che compia 9-10 anni; la maturità arriva dopo almeno mezzo secolo, e non basta solo aspettare. L'olio che ho usato viene da alberi che hanno conosciuto la fatica dei nonni dei miei nonni e di tutti i loro figli, fino a mio padre. Da qualche parte, tra quei rami, ci sono ancora le loro impronte.
Prezzemolo– Quest'estate mio padre ne ha piantato i semi in un vasetto, dopo almeno due mesi e mezzo ho cominciato a raccoglierlo e ancora continuo a raccoglierlo.
Sale – Il sale da cucina italiano di solito è coltivato nelle miniere di salgemma, non so quanta strada avrà fatto per arrivare nella mia cucina, ma sicuramente viene da lontano.
Acqua – Prima di scorrere dal mio rubinetto sarà evaporata in cielo e caduta in terra milioni di volte. Ne ha fatta di strada.
La sera prima di preparare la zuppa metti a bagno il grano. Prepara le zucchine e le carote tagliandole a dadi non troppo piccoli, taglia la cipolla, trincia il prezzemolo, ci metterai 10 minuti, anche meno se hai buona manualità in cucina. Togli la buccia dei pomodori, non c’è bisogno di sbollentarli, se i pomodori sono maturi al punto giusto con un po’ di pazienza dovresti riuscirci senza problemi. Metti tutto in una pentola, aggiungi l’olio e soffriggi per 2-3 minuti. Aggiungi un litro e mezzo di acqua e quando sarà calda aggiungi il grano. Mescola di tanto in tanto e fai cuocere tutto per almeno 40 minuti. Se la zuppa ti piace asciutta non aggiungere altra acqua, quella che hai messo evaporerà.
Un giorno una madre insegnò a sua figlia come preparare questa ricetta, quell'insegnamento è arrivato fino a mia nonna, poi a mia madre. Io ho raccolto quell'insegnamento e lo racconto. Un giorno forse questa ricetta la prepareranno i tuoi figli, sicuramente non sapranno da dove viene eppure ne ha di storia, è importante che loro sappiano che c'è una storia, anche se non sapranno esattamente quale.
Ci ho messo più di un secolo e qualche minuto per preparare un piatto per due persone. Se preparare un piatto è un atto d'amore, come ci ricorda Enzo Bianchi ne "Il pane di ieri", non è possibile farlo senza una riflessione sul tempo che si porta dietro, e sul tempo che ha davanti.
Per questo non capirò mai né i fast food né la fast politics.
lunedì 16 febbraio 2009
Onestà nipponica
Il ministro delle Finanze giapponese Shoichi Nakagawa si presenta ubriaco al G7 di Roma e dice un mucchio di fesserie coprendo di imbarazzo il suo paese. Alcuni colleghi occidentali dovrebbero prenderlo ad esempio, lui ha avuto l'onestà di ubriacarsi prima di dire fesserie. La sbornia passa, le fesserie dette nei fumi dell'alcol si correggono e il paese ha un alibi per risollevare lo spirito!
Si dice che nylon sia l'acronimo di: Now You Lose Old Nippon. Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale il Giappone impedì l'importazione di seta dalla Cina agli Stati Uniti che l'avrebbero usata per i paracadute. I ricercatori statunitensi crearono questo nuovo materiale.
Oggi cosa ci toccherà inventare per fare fronte alla proverbiale onestà dell'oriente?
Si dice che nylon sia l'acronimo di: Now You Lose Old Nippon. Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale il Giappone impedì l'importazione di seta dalla Cina agli Stati Uniti che l'avrebbero usata per i paracadute. I ricercatori statunitensi crearono questo nuovo materiale.
Oggi cosa ci toccherà inventare per fare fronte alla proverbiale onestà dell'oriente?
giovedì 12 febbraio 2009
Post-moderno italiano
Oggi pioveva, c'era un sole splendido, non c'era una sola nuvola e pioveva. Ultimamente quando piove non ci si bagna più, quindi non è così fastidioso come prima. Sì, perchè fino a poco tempo fa, diciamo fino alla fine degli anni '80, quando pioveva ci si bagnava, ma adesso è tutta un'altra storia. Ero in giro per Roma con il mio teletrasportatore quando ho visto la tour Eiffel che si stagliava in tutta la sua magnificenza, "incredibile" mi son detto, "come avranno fatto gli antichi egizi ad alzare fin là in cima tutte quelle tonnellate di acciaio?". La cosa straordinaria è che abbiamo perso traccia di tutte le loro fonderie, ma è fuori dubbio che ne avessero tante, le prove sono qui davanti a me, inconfutabili. Mentre ammiravo quel monumento è passato di lì un megalodonte, molto distinto, potrebbe impressionare per la sua mole ma non tutti sanno che è un animale pacifico e poi è estinto da quasi 15.000 anni. Mi è venuto da ridere a vedere la gente spaventata solo perchè ha la forma di uno squalo, i soliti pregiudizi che tardano a morire messi in giro da vecchi paleontologi che peraltro dicevano che si trattasse di un animale acquatico. Mi ha chiesto educatamente due o tre indicazioni per il Cremlino e gli ho detto che non aveva da fare molta strada, giusto un paio di svolte passando davanti ai giardini di Babilonia e poi se lo sarebbe trovato di fronte. Ha salutato con cortesia e un ruggito, davvero un signore!
Mi son seduto su una panchina, stando attento ad evitare quelle con la trappola fatte per i poveri, ma tutto sommato sono ben segnalate. Ho letto il giornale di oggi e in prima pagina c'era un dettagliato resoconto di una guerra che dura ormai da nove anni tra achei e troiani. Pare ci siano degli sviluppi, per fermare questa baraonda i greci hanno regalato un cavallo a dondolo ai troiani ma questi non hanno gradito e hanno rilanciato con una singolare sfida, 13 cavalieri da una parte e 13 dall'altra si scontreranno tra loro e la guerra si decide così. Sembra che la proposta l'abbia suggerita Gengis Khan durante un reality show a Yalta dopo aver letto un romanzo di fantascienza di un giovane autore barlettano. Vedi! alle volte la letteratura risolve con eleganza questioni annose. Nella pagina di enigmistica c'erano le solite scaramucce della politica, ho letto che c'è ancora chi sostiene che il riformismo sia una bandiera dei progressisti quando lo sanno pure i sassi che è un valore dei conservatori, a patto che siano moderati.
Passando per piazza dei Dodici Centravanti c'era un crocchio di persone anziane che aspettavano un tizio che voleva manifestare contro qualcosa che sarebbe avvenuto sul pianeta K2 (quello dietro a Marte) e che secondo lui avrebbe offeso la storia di un paesino sulla cometa V5 (quella che passa ogni tanto a sinistra di Venere), mah! oggigiorno la gente non fa altro che protestare per delle inezie, si fa una strage e si manifesta, si nomina un dittatore e la gente strilla per le piazze. Davvero incomprensibile, peraltro la notizia di questa offesa non era riportata neanche sui giornali dei giorni scorsi! Gli slogan poi, i soliti, senza fantasia, inneggiano alle regole, all'etica, quando ormai è assodato che l'etichetta viene rispettata alla lettera. Comunque non mi sono fermato più di tanto, mi scadeva il tempo per una rapina in banca perchè ad una certa ora chiudono i caveau e non c'è più niente da fare, non si aprono più fino al giorno dopo, e lì ti accorgi che le linee guida per gli scassinatori sono scritte male. Tu ti fidi, visto che sono ufficiali, diffuse dal Dipartimento dell'Economia Nazionale, e le segui scrupolosamente ma niente, il caveau una volta chiuso non si apre più così facilmente per cui non si può proprio fare un lavoro pulito, nottetempo, in tutta tranquillità, tocca proprio farlo di giorno con il rischio che ti vede farlo il solito scemo che non ricorda che le rapine si denunciano solo dalle 20.30 alle 22.00 di ogni 1° aprile. Davvero imbarazzante, perchè il cretino chiama la polizia e quelli, poveretti, sono costretti ad umiliarsi chiedendoti scusa quando gli fai vedere il calendario! Tutto sommato far chiamare la polizia avrebbe un suo vantaggio perchè poi portano via il cretino così ne abbiamo uno di meno in giro. Comunque mi sarebbe dispiaciuto scomodare i poliziotti, oggi c'era la partita tra Facchini e Minatori e quelli non vorranno certo perdersela, in palio c'era un contratto di un anno in un call center per i figli dei giocatori, solo se laureati in filosofia. Chissà chi avrà vinto il premio? Domani mi informerò.
Avviso ai naviganti: Io non ho scritto niente di tutto questo, non l'ho neanche pensato, anzi l'ho contestato mentre lo scrivevo senza scriverlo e senza pensarlo e se lo leggete, sebbene non sia stato scritto, è la prova che siete dei disfattisti.
lunedì 9 febbraio 2009
Relazioni pericolose!
I cambiamenti climatici e in particolare il riscaldamento globale purtroppo non sono soltanto oggetto di dibattimento tra le ragioni scientifiche ma anche terreno di scontro tra opposti modi di vedere il ruolo dell’uomo sulla terra e di conseguenza il suo futuro. Se da una parte vi sono quanti sostengono che le nostre economie possono avere effetti devastanti sull’ambiente e in fin dei conti sull’uomo stesso, dall’altra vi sono i sostenitori del primato umano fiduciosi nell’inarrestabile progresso che ha portato la scimmia sulla luna. Sebbene io preferisca di gran lunga frequentare i primi, devo riconoscere che i secondi sono davvero divertenti quando si lanciano in argomentazioni che negano la fattualità dei cambiamenti climatici e le basi scientifiche che ne dimostrano la fondatezza, confondendo spesso i modesti fatti con i superbi desideri. Su queste tematiche Stefano Caserini ha scritto poco tempo fa un bel libro[1] in cui opera, con linguaggio piacevole e misurata ironia, una decostruzione minuziosa delle più importanti “tesi negazioniste” del riscaldamento globale e anche degli interventi che meno si presterebbero ad avere dignità di tesi ma che meritano attenzione, vista l’autorevolezza delle fonti e la naturale rapidità di diffusione che caratterizza da sempre le sciocchezze ("La calunnia è un venticello… Incomincia a sussurrar… Alla fin trabocca e scoppia", canta Basilio).
Tra le varie perle che Caserini ci dona, una mi ha stuzzicato particolarmente, per l’intreccio di riflessioni che suscita. Riguarda una delle numerose prese di posizione del professor Antonino Zichichi sull’argomento in cui l’illustre fisico della materia (non del clima), accenna ad una interessante relazione tra scienza e democrazia che a suo avviso sarebbe infondata:
«Per attaccare Bush è stato detto che la “stragrande maggioranza” del mondo scientifico concorda sulle conclusioni relative al cambiamento climatico più drastico e repentino che il pianeta abbia conosciuto negli ultimi millenni. Siccome non è possibile mettere ai voti una certezza scientifica il termine “stragrande maggioranza” è privo di senso.» A. Zichichi, Effetto serra, i dilemmi della Casa Bianca. Il Messaggero, 8 giugno 2001.[2]
Il consenso scientifico quindi è “privo di senso” secondo il professor Zichichi! Che “non si può mettere ai voti una verità scientifica”, come Galileo ci ha insegnato, è lampante, tuttavia non è altrettanto chiaro il parallelo tra processo scientifico e processo di formazione del consenso democratico, così come delineato dal professor Zichichi.
Se è vero che il risultato di una indagine scientifica non può essere messo ai voti è perché la comunità scientifica è d’accordo a priori sul metodo adottato per raggiungere quel risultato, ha quindi raggiunto un consenso che precede il risultato! Del resto nelle democrazie non si può mettere ai voti la forma democratica, che è il contesto di discussione. Gli esperti del diritto ci hanno insegnato che le regole costitutive della democrazia, e tra queste vi è il potere dal basso e la partecipazione quali fondamenti di questa forma di governo discutidora, non possono essere discussi senza compromettere la natura stessa della democrazia. Sarà un aspetto del banale principio di autoconservazione di ogni forma di potere ma, se di democrazia si vuole continuare a parlare, il principio di maggioranza non può valere per alcune regole costitutive esattamente come vale per le regole regolative[3]. Questo per quanto riguarda il consenso che precede un risultato, mentre per quanto attiene al consenso che succede a un risultato e alla relazione tra scienza e democrazia, rinnegata da Zichichi, potrebbe essere di qualche aiuto ricordare quanto affermava Popper del progresso scientifico: “La scienza, e in particolar modo il progresso scientifico, non sono il risultato di sforzi isolati, ma della libera concorrenza del pensiero. […] In ultima analisi il progresso dipende in larghissima misura da fattori politici; da istituzioni politiche che garantiscono la libertà di pensiero: dipende dalla democrazia.”[4]
A quanto pare il contesto democratico, il solo che consenta il costante confronto tra assenso e dissenso, lega a filo doppio la scienza al consenso, sia nelle fasi che precedono un risultato scientifico (metodologia adottata) sia dopo che un risultato scientifico è stato conseguito (replicabilità del risultato, verifica dei risultati, resistenza alla falsificazione con ipotesi alternative). Naturalmente il consenso non può che essere informato e nel caso specifico si parla di consenso tra esperti di una ben determinata disciplina caratterizzata da criteri procedurali ben definiti. Ma ancora una volta dobbiamo ricordare che anche nel versante politico il voto è un momento successivo alla formazione dell'opinione pubblica, che è tale solo se correttamente informata secondo criteri di trasparenza e equilibrio tra le diverse voci, criteri stabiliti a priori rispetto all'esercizio del voto[5].
Pertanto le affermazioni del professor Zichichi, riguardo l’assenza di legame tra consenso e scienza, possono essere intese solo alla luce di due gravissimi fraintendimenti, il primo è che le attuali videocrazie siano la democrazia, il secondo che l’IPCC (International Panel on Climate Change), anziché un consesso di 2500 scienziati di tutto il mondo (tra cui climatologi e fisici dell’atmosfera che solitamente non discettano di particelle subnucleari), sia in realtà una sorta di Internazionale dei Partiti Comunisti Combattenti che vogliono sovvertire l’ordine costituito!
Quello del clima non è il solo campo in cui il professor Zichichi ha voluto mettere alla prova le sue doti di divulgatore, c'è anche quello dell'evoluzione. Come è noto l'illustre fisico mette in discussione il valore scientifico dell'evoluzionismo propendendo per un più sobrio creazionismo, soprattutto per la specie umana (non l'avremmo mai detto!!!). Naturalmente anche per Zichichi il creazionismo è diventato il Disegno Intelligente, per ironia della sorte anche il creazionismo evolve![6]. Il "punto di forza" dell'obiezione di Zichichi è l'impossibilità di trovare un'equazione dell'evoluzione che ne legittimi la natura scientifica. Anche qui c'è da rilevare una simpatica e sostanziale differenza tra le posizioni del fisico e quelle di Popper sull'argomento. Anche Popper sosteneva l'impossibilità di definire una legge dell'evoluzione, ma non per disconoscerne il valore scientifico bensì per sottolineare la natura storica e irripetibile dei processi evolutivi, e su questo punto non aveva dubbi neanche il grande Stephen Jay Gould. Ad ogni modo bisognerebbe informare Zichichi che alle lezioni di genetica delle popolazioni di diverse facoltà scientifiche, anzichè parlare di scienza ci si trova spesso a parlare dell'equazione di Hardy-Weinberg, che scandalo!
[1] S. Caserini, A qualcuno piace caldo. Errori e leggende sul clima che cambia. Edizioni Ambiente, Milano, 2008.
[2] Cit. da S. Caserini, op. cit., p. 201.
[3] B. Celano, Fatti istituzionali e fatti convenzionali, 2/2000, Filosofia e Questioni Pubbliche. "In The Construction of Social Reality, Searle fa oggetto di trattazione sistematica la distinzione [...] fra fatti «bruti» e fatti istituzionali. Con la locuzione «fatti istituzionali» Searle intende, specificamente, fatti la cui esistenza è dipendente da istituzioni umane (fatti che esistono soltanto «entro» istituzioni). Queste ultime sono, a loro volta, sistemi di regole costitutive: regole della forma ‘X ha valore di (counts as) Y nel contesto C’, che, dice Searle, creano, e anche regolano, nuove forme di comportamento, che non sarebbero possibili in assenza di tali regole medesime (forme di comportamento, cioè, il cui concetto è logicamente dipendente dalle regole in questione). Le regole costitutive vengono da Searle contrapposte alle regole che egli chiama «regolative», nella classe delle quali ricadono le norme in termini di obblighi, divieti, permessi. Le regole regolative, a differenza delle regole costitutive, regolano forme di comportamento che sono possibili anche in assenza di tali regole medesime e, in questo senso, preesistono rispetto ad esse (le regole regolative, cioè, regolano forme di comportamento il cui concetto è logicamente indipendente da tali regole medesime)."
L. Tussi, Il processo di crescita e di socializzazione. 2009, http://www.politicamentecorretto.com/. "Il nostro tessuto sociale è forte riguardo le regole costitutive, invece è flessibile sulle regolative."
[4] K.R. Popper, Miseria dello storicismo. Feltrinelli, 2002, p. 154.
[5] N. Bobbio, Il futuro della democrazia. Einaudi, 1995.
G. Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero. Laterza, 2006.
G. Zagrebelsky, Imparare Democrazia. Einaudi, 2007.
[6] A. Zichichi, Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo, Il Saggiatore, 1999.
Nel caso la curiosità spingesse a leggere il libro di Zichichi che ho citato, mi corre l'obbligo di seguire l'esempio di Piergiorgio Odifreddi, quando ha passato in rassegna alcune delle "zichicche" del fisico, e consigliare almeno tre irrinunciabili antidoti in tema di letteratura divulgativa evoluzionistica. E' il minimo ma è sufficiente per una disintossicazione pressoché completa.
S. J. Gould, La vita meravigliosa. Feltrinelli, 1990.
S. J. Gould, Otto piccoli porcellini. Riflessioni di storia naturale. Il Saggiatore, 2003
E. Mayr, L’unicità della biologia - Sull’autonomia di una disciplina scientifica. Raffaello Cortina, 2005.
Tra le varie perle che Caserini ci dona, una mi ha stuzzicato particolarmente, per l’intreccio di riflessioni che suscita. Riguarda una delle numerose prese di posizione del professor Antonino Zichichi sull’argomento in cui l’illustre fisico della materia (non del clima), accenna ad una interessante relazione tra scienza e democrazia che a suo avviso sarebbe infondata:
«Per attaccare Bush è stato detto che la “stragrande maggioranza” del mondo scientifico concorda sulle conclusioni relative al cambiamento climatico più drastico e repentino che il pianeta abbia conosciuto negli ultimi millenni. Siccome non è possibile mettere ai voti una certezza scientifica il termine “stragrande maggioranza” è privo di senso.» A. Zichichi, Effetto serra, i dilemmi della Casa Bianca. Il Messaggero, 8 giugno 2001.[2]
Il consenso scientifico quindi è “privo di senso” secondo il professor Zichichi! Che “non si può mettere ai voti una verità scientifica”, come Galileo ci ha insegnato, è lampante, tuttavia non è altrettanto chiaro il parallelo tra processo scientifico e processo di formazione del consenso democratico, così come delineato dal professor Zichichi.
Se è vero che il risultato di una indagine scientifica non può essere messo ai voti è perché la comunità scientifica è d’accordo a priori sul metodo adottato per raggiungere quel risultato, ha quindi raggiunto un consenso che precede il risultato! Del resto nelle democrazie non si può mettere ai voti la forma democratica, che è il contesto di discussione. Gli esperti del diritto ci hanno insegnato che le regole costitutive della democrazia, e tra queste vi è il potere dal basso e la partecipazione quali fondamenti di questa forma di governo discutidora, non possono essere discussi senza compromettere la natura stessa della democrazia. Sarà un aspetto del banale principio di autoconservazione di ogni forma di potere ma, se di democrazia si vuole continuare a parlare, il principio di maggioranza non può valere per alcune regole costitutive esattamente come vale per le regole regolative[3]. Questo per quanto riguarda il consenso che precede un risultato, mentre per quanto attiene al consenso che succede a un risultato e alla relazione tra scienza e democrazia, rinnegata da Zichichi, potrebbe essere di qualche aiuto ricordare quanto affermava Popper del progresso scientifico: “La scienza, e in particolar modo il progresso scientifico, non sono il risultato di sforzi isolati, ma della libera concorrenza del pensiero. […] In ultima analisi il progresso dipende in larghissima misura da fattori politici; da istituzioni politiche che garantiscono la libertà di pensiero: dipende dalla democrazia.”[4]
A quanto pare il contesto democratico, il solo che consenta il costante confronto tra assenso e dissenso, lega a filo doppio la scienza al consenso, sia nelle fasi che precedono un risultato scientifico (metodologia adottata) sia dopo che un risultato scientifico è stato conseguito (replicabilità del risultato, verifica dei risultati, resistenza alla falsificazione con ipotesi alternative). Naturalmente il consenso non può che essere informato e nel caso specifico si parla di consenso tra esperti di una ben determinata disciplina caratterizzata da criteri procedurali ben definiti. Ma ancora una volta dobbiamo ricordare che anche nel versante politico il voto è un momento successivo alla formazione dell'opinione pubblica, che è tale solo se correttamente informata secondo criteri di trasparenza e equilibrio tra le diverse voci, criteri stabiliti a priori rispetto all'esercizio del voto[5].
Pertanto le affermazioni del professor Zichichi, riguardo l’assenza di legame tra consenso e scienza, possono essere intese solo alla luce di due gravissimi fraintendimenti, il primo è che le attuali videocrazie siano la democrazia, il secondo che l’IPCC (International Panel on Climate Change), anziché un consesso di 2500 scienziati di tutto il mondo (tra cui climatologi e fisici dell’atmosfera che solitamente non discettano di particelle subnucleari), sia in realtà una sorta di Internazionale dei Partiti Comunisti Combattenti che vogliono sovvertire l’ordine costituito!
Quello del clima non è il solo campo in cui il professor Zichichi ha voluto mettere alla prova le sue doti di divulgatore, c'è anche quello dell'evoluzione. Come è noto l'illustre fisico mette in discussione il valore scientifico dell'evoluzionismo propendendo per un più sobrio creazionismo, soprattutto per la specie umana (non l'avremmo mai detto!!!). Naturalmente anche per Zichichi il creazionismo è diventato il Disegno Intelligente, per ironia della sorte anche il creazionismo evolve![6]. Il "punto di forza" dell'obiezione di Zichichi è l'impossibilità di trovare un'equazione dell'evoluzione che ne legittimi la natura scientifica. Anche qui c'è da rilevare una simpatica e sostanziale differenza tra le posizioni del fisico e quelle di Popper sull'argomento. Anche Popper sosteneva l'impossibilità di definire una legge dell'evoluzione, ma non per disconoscerne il valore scientifico bensì per sottolineare la natura storica e irripetibile dei processi evolutivi, e su questo punto non aveva dubbi neanche il grande Stephen Jay Gould. Ad ogni modo bisognerebbe informare Zichichi che alle lezioni di genetica delle popolazioni di diverse facoltà scientifiche, anzichè parlare di scienza ci si trova spesso a parlare dell'equazione di Hardy-Weinberg, che scandalo!
[1] S. Caserini, A qualcuno piace caldo. Errori e leggende sul clima che cambia. Edizioni Ambiente, Milano, 2008.
[2] Cit. da S. Caserini, op. cit., p. 201.
[3] B. Celano, Fatti istituzionali e fatti convenzionali, 2/2000, Filosofia e Questioni Pubbliche. "In The Construction of Social Reality, Searle fa oggetto di trattazione sistematica la distinzione [...] fra fatti «bruti» e fatti istituzionali. Con la locuzione «fatti istituzionali» Searle intende, specificamente, fatti la cui esistenza è dipendente da istituzioni umane (fatti che esistono soltanto «entro» istituzioni). Queste ultime sono, a loro volta, sistemi di regole costitutive: regole della forma ‘X ha valore di (counts as) Y nel contesto C’, che, dice Searle, creano, e anche regolano, nuove forme di comportamento, che non sarebbero possibili in assenza di tali regole medesime (forme di comportamento, cioè, il cui concetto è logicamente dipendente dalle regole in questione). Le regole costitutive vengono da Searle contrapposte alle regole che egli chiama «regolative», nella classe delle quali ricadono le norme in termini di obblighi, divieti, permessi. Le regole regolative, a differenza delle regole costitutive, regolano forme di comportamento che sono possibili anche in assenza di tali regole medesime e, in questo senso, preesistono rispetto ad esse (le regole regolative, cioè, regolano forme di comportamento il cui concetto è logicamente indipendente da tali regole medesime)."
L. Tussi, Il processo di crescita e di socializzazione. 2009, http://www.politicamentecorretto.com/. "Il nostro tessuto sociale è forte riguardo le regole costitutive, invece è flessibile sulle regolative."
[4] K.R. Popper, Miseria dello storicismo. Feltrinelli, 2002, p. 154.
[5] N. Bobbio, Il futuro della democrazia. Einaudi, 1995.
G. Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero. Laterza, 2006.
G. Zagrebelsky, Imparare Democrazia. Einaudi, 2007.
[6] A. Zichichi, Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo, Il Saggiatore, 1999.
Nel caso la curiosità spingesse a leggere il libro di Zichichi che ho citato, mi corre l'obbligo di seguire l'esempio di Piergiorgio Odifreddi, quando ha passato in rassegna alcune delle "zichicche" del fisico, e consigliare almeno tre irrinunciabili antidoti in tema di letteratura divulgativa evoluzionistica. E' il minimo ma è sufficiente per una disintossicazione pressoché completa.
S. J. Gould, La vita meravigliosa. Feltrinelli, 1990.
S. J. Gould, Otto piccoli porcellini. Riflessioni di storia naturale. Il Saggiatore, 2003
E. Mayr, L’unicità della biologia - Sull’autonomia di una disciplina scientifica. Raffaello Cortina, 2005.
venerdì 6 febbraio 2009
Sciacallaggio d'urgenza e scontro istituzionale
La decretazione in casi "straordinari di necessità e d'urgenza" è sancita dalla Costituzione ed è affidata alla responsabilità del Governo (art. 77). Ma nei casi in cui l'obiettivo di un decreto d'urgenza fosse in contrasto con sentenze passate in giudicato della Suprema Corte, inerenti gli stessi obiettivi del decreto, cadono le condizioni per la decretazione d'urgenza, oltre quelle di costituzionalità.
L'incostituzionalità di un eventuale decreto del governo, che ordinasse di proseguire l'alimentazione di Eluana Englaro, è stata chiarita oggi dal Capo dello Stato prima che il decreto venisse varato ed era chiaro che si sarebbe aperto un conflitto tra poteri dello Stato in presenza di tale decreto. Ma il decreto è stato varato ugualmente dallo stizzito Berlusconi che ha manifestato tutto il suo piccato disappunto per l'intervento del Presidente Napolitano sull'eventuale decretazione d'urgenza. Ha parlato di irritualità, uno che fa "cucù" alla Merkel, dà del kapò a Schulz, dice di aver dovuto fare il play-boy con la presidente finlandese, che Obama è abbronzato, fa le corna nelle foto di rito, ecc. ecc. Parla di irritualità!!!
L'esito di questo 'scatto d'orgoglio' è la prosecuzione dell'agonia di Eluana e l'apertura di un conflitto senza precedenti nella storia italiana tra Quirinale e Governo.
A chi soffre di priapismo dell'io, non basta camuffarsi da penitente in crisi di coscienza per celare il delirio di onnipotenza. La divisione dei poteri della democrazia è sempre stata un problema di chi concepisce il potere solo in termini di decisionismo. La triste vicenda degli Englaro si traduce in una ghiotta occasione per dare avvio ad uno scontro istituzionale che rafforzerà il potere esecutivo, indebolendo di conseguenza quello legislativo e quello degli organi di controllo dell'azione legislativa ed esecutiva. Non è un caso di coscienza, di etica, per il quale penso sia più rispettoso il silenzio, è un caso di sciacallaggio politico che casca a pennello nelle mani di chi non ha alcun scrupolo a servirsene.
Complimenti al Vaticano che in merito a regole democratiche non ha mai mostrato grande esperienza ed affinità, fatta salva la grande riflessione del Concilio Vaticano II, sbandierato a parole quanto avversato nei fatti. Vaticano che esulta di fronte a quella che fa passare come una questione di coscienza e si dice deluso dal Presidente Napolitano. Che il caso Englaro non fosse un problema di coscienza e di fede neanche per loro lo sanno solo i credenti in Dio, quelli che pensano sul serio che ci sia un Dio in cielo che accoglie le sue creature. Per la gerarchia ecclesiatica, invece, si tratta di triviale potere terreno, più carnale che mai, di potere sui corpi e sulla volontà che li fa muovere, per cui non smentisce la sua storia, ricca di alleanze strategiche con lo sciacallo di turno, alleanze che non hanno mai posto problemi di conflitto con la più importante delle virtù.
E complimenti anche a Di Pietro che nella foga di chiedere una maggiore incisività del Presidente Napolitano sui temi della giustizia, richiesta peraltro del tutto condivisibile, lo ha fatto in modo da indebolirne la figura, permettendo di mostrare il Capo dello Stato come facilmente attaccabile a chi non aspettava l'occasione per farlo.
Complimenti, questa volta sul serio, a quanti capiscono quale sia l'enorme importanza di un simbolo del Paese, a quanti fino a ieri, anche tra i miei carissimi amici, dicevano con sufficienza "il Presidente della Repubblica non ha poteri!" e che oggi capiscono che pur non avendo poteri, come si crede, rappresenta la garanzia delle regole costitutive di questo Paese. Il potere inteso solo nei suoi connotati esecutivi è pura forza, ma il potere è anche e soprattutto condizione di potenza, nel senso aristotelico del termine, possibilità di creare nuovi spazi di realtà, ed il potere del Presidente della Repubblica è il contesto in cui si realizza la condizione della democrazia. Tocchiamo questa sfera del potere, cedendo tutto alla prima, e non si parlerà più di democrazia in questo paese.
L'incostituzionalità di un eventuale decreto del governo, che ordinasse di proseguire l'alimentazione di Eluana Englaro, è stata chiarita oggi dal Capo dello Stato prima che il decreto venisse varato ed era chiaro che si sarebbe aperto un conflitto tra poteri dello Stato in presenza di tale decreto. Ma il decreto è stato varato ugualmente dallo stizzito Berlusconi che ha manifestato tutto il suo piccato disappunto per l'intervento del Presidente Napolitano sull'eventuale decretazione d'urgenza. Ha parlato di irritualità, uno che fa "cucù" alla Merkel, dà del kapò a Schulz, dice di aver dovuto fare il play-boy con la presidente finlandese, che Obama è abbronzato, fa le corna nelle foto di rito, ecc. ecc. Parla di irritualità!!!
L'esito di questo 'scatto d'orgoglio' è la prosecuzione dell'agonia di Eluana e l'apertura di un conflitto senza precedenti nella storia italiana tra Quirinale e Governo.
A chi soffre di priapismo dell'io, non basta camuffarsi da penitente in crisi di coscienza per celare il delirio di onnipotenza. La divisione dei poteri della democrazia è sempre stata un problema di chi concepisce il potere solo in termini di decisionismo. La triste vicenda degli Englaro si traduce in una ghiotta occasione per dare avvio ad uno scontro istituzionale che rafforzerà il potere esecutivo, indebolendo di conseguenza quello legislativo e quello degli organi di controllo dell'azione legislativa ed esecutiva. Non è un caso di coscienza, di etica, per il quale penso sia più rispettoso il silenzio, è un caso di sciacallaggio politico che casca a pennello nelle mani di chi non ha alcun scrupolo a servirsene.
Complimenti al Vaticano che in merito a regole democratiche non ha mai mostrato grande esperienza ed affinità, fatta salva la grande riflessione del Concilio Vaticano II, sbandierato a parole quanto avversato nei fatti. Vaticano che esulta di fronte a quella che fa passare come una questione di coscienza e si dice deluso dal Presidente Napolitano. Che il caso Englaro non fosse un problema di coscienza e di fede neanche per loro lo sanno solo i credenti in Dio, quelli che pensano sul serio che ci sia un Dio in cielo che accoglie le sue creature. Per la gerarchia ecclesiatica, invece, si tratta di triviale potere terreno, più carnale che mai, di potere sui corpi e sulla volontà che li fa muovere, per cui non smentisce la sua storia, ricca di alleanze strategiche con lo sciacallo di turno, alleanze che non hanno mai posto problemi di conflitto con la più importante delle virtù.
E complimenti anche a Di Pietro che nella foga di chiedere una maggiore incisività del Presidente Napolitano sui temi della giustizia, richiesta peraltro del tutto condivisibile, lo ha fatto in modo da indebolirne la figura, permettendo di mostrare il Capo dello Stato come facilmente attaccabile a chi non aspettava l'occasione per farlo.
Complimenti, questa volta sul serio, a quanti capiscono quale sia l'enorme importanza di un simbolo del Paese, a quanti fino a ieri, anche tra i miei carissimi amici, dicevano con sufficienza "il Presidente della Repubblica non ha poteri!" e che oggi capiscono che pur non avendo poteri, come si crede, rappresenta la garanzia delle regole costitutive di questo Paese. Il potere inteso solo nei suoi connotati esecutivi è pura forza, ma il potere è anche e soprattutto condizione di potenza, nel senso aristotelico del termine, possibilità di creare nuovi spazi di realtà, ed il potere del Presidente della Repubblica è il contesto in cui si realizza la condizione della democrazia. Tocchiamo questa sfera del potere, cedendo tutto alla prima, e non si parlerà più di democrazia in questo paese.
giovedì 5 febbraio 2009
La colomba e il rospo
La colomba, Trilussa
"Incuriosita de sapé che c'era
una Colomba scese in un pantano,
s'inzaccherò le penne e bonasera.
Un Rospo disse: - Commarella mia,
vedo che, pure te, caschi ner fango...
- Però nun ce rimango... -
rispose la Colomba. E volò via."
Parafrasando s.b.* : "La presunta superiorità morale della mia controparte non c'è mai stata [...] non c'è nessuna superiorità morale, anzi, nell'ambito della mia controparte ci sono dei professionisti della politica che la moralità non sanno neppure dove sia di casa."
Un confronto al ribasso è sempre qualcosa di deprimente, non è mai occasione perchè ci si guadagni qualcosa, al contrario si perde sicuramente. E' però evidente che un gioco al rialzo non è alla portata dei tempi e di molte persone, nè potrebbe esserlo in questo momento difficile. Ma chi conosce il mercato sa trarre profitto anche di questi tempi. Le borse vanno giù, le quotazioni scendono, i prezzi diventano accessibili e se si hanno risorse in esubero le azioni si comprano più facilmente di prima, per essere messe in cassaforte aspettando che i mercati riprendano fiato!
Il rospo si rallegra della colomba inzaccherata, ed è un peccato che non sempre basti solo un battito d'ali per uscire dal fango. La colomba ha subito diverse mutazioni genetiche e non è più sicuro che si tratti ancora di una colomba e che sappia ancora volare. Ad ogni modo ci sono ancora molte colombe che volano alto, che non si inzacchereranno le penne, che guardano a quel pantano vedendone la miseria più desolante. Aspettano che la loro compagna riprenda il volo, lasciando il rospo dove è sempre stato e dove continuerà a stare.
* sine bonitas
"Incuriosita de sapé che c'era
una Colomba scese in un pantano,
s'inzaccherò le penne e bonasera.
Un Rospo disse: - Commarella mia,
vedo che, pure te, caschi ner fango...
- Però nun ce rimango... -
rispose la Colomba. E volò via."
Parafrasando s.b.* : "La presunta superiorità morale della mia controparte non c'è mai stata [...] non c'è nessuna superiorità morale, anzi, nell'ambito della mia controparte ci sono dei professionisti della politica che la moralità non sanno neppure dove sia di casa."
Un confronto al ribasso è sempre qualcosa di deprimente, non è mai occasione perchè ci si guadagni qualcosa, al contrario si perde sicuramente. E' però evidente che un gioco al rialzo non è alla portata dei tempi e di molte persone, nè potrebbe esserlo in questo momento difficile. Ma chi conosce il mercato sa trarre profitto anche di questi tempi. Le borse vanno giù, le quotazioni scendono, i prezzi diventano accessibili e se si hanno risorse in esubero le azioni si comprano più facilmente di prima, per essere messe in cassaforte aspettando che i mercati riprendano fiato!
Il rospo si rallegra della colomba inzaccherata, ed è un peccato che non sempre basti solo un battito d'ali per uscire dal fango. La colomba ha subito diverse mutazioni genetiche e non è più sicuro che si tratti ancora di una colomba e che sappia ancora volare. Ad ogni modo ci sono ancora molte colombe che volano alto, che non si inzacchereranno le penne, che guardano a quel pantano vedendone la miseria più desolante. Aspettano che la loro compagna riprenda il volo, lasciando il rospo dove è sempre stato e dove continuerà a stare.
* sine bonitas
martedì 3 febbraio 2009
Se tutti facessimo un po' di silenzio
"Eppure io credo che se ci fosse un po' di silenzio, se tutti facessimo un po' di silenzio, forse qualcosa potremmo capire". (F. Fellini, La voce della luna.)
Il dolore senza lamento diventa chiasso di piazza, dalla sua soglia il silenzio è troppo assordante per essere ascoltato, rispettato, accettato.
La volontà di Dio, da sempre avvolta nel silenzio, da sempre viene denudata e violentata da quanti non sanno ascoltare impietriti il silenzio.
Chiedo a voi, signori esperti di umanità, conoscitori della volontà di Dio, se Eluana o suo padre fanno torto alla volontà di Dio, allora lasciate che ne rendano conto a chi quella volontà conosce meglio di voi. Se fanno torto alla volontà degli uomini allora taciamo, perchè non abbiamo alcun diritto di sostituirci a Eluana e a chi più di chiunque altro l'ha amata, l'ha conosciuta, l'ha vista vivere, piangere e sorridere, l'ha ascoltata quando diceva di non voler esserci senza viversi e per tutto questo sarà disposto a rispondere davanti agli uomini e davanti a Dio del suo amore.
Il dolore senza lamento diventa chiasso di piazza, dalla sua soglia il silenzio è troppo assordante per essere ascoltato, rispettato, accettato.
La volontà di Dio, da sempre avvolta nel silenzio, da sempre viene denudata e violentata da quanti non sanno ascoltare impietriti il silenzio.
Chiedo a voi, signori esperti di umanità, conoscitori della volontà di Dio, se Eluana o suo padre fanno torto alla volontà di Dio, allora lasciate che ne rendano conto a chi quella volontà conosce meglio di voi. Se fanno torto alla volontà degli uomini allora taciamo, perchè non abbiamo alcun diritto di sostituirci a Eluana e a chi più di chiunque altro l'ha amata, l'ha conosciuta, l'ha vista vivere, piangere e sorridere, l'ha ascoltata quando diceva di non voler esserci senza viversi e per tutto questo sarà disposto a rispondere davanti agli uomini e davanti a Dio del suo amore.
lunedì 2 febbraio 2009
Basta bontà
Non avevo ancora finito di scrivere questa lettera quando ho letto su Repubblica.it la ricetta di Maroni per i clandestini.
Che dire? Secondo me non la legge!
Egr. Avv. Maroni,
Le scrivo in merito all’orribile episodio accaduto a Nettuno, dove un immigrato indiano è stato dato alle fiamme da tre ragazzi in cerca di “una forte emozione”, come hanno dichiarato ai carabinieri. A tal proposito Lei ha dichiarato "E' più grave del razzismo, perchè denota la mancanza di principi fondamentali del vivere civile non è una questione di ordine pubblico, è un qualcosa che chiama in causa la società intera". Non si può non essere d’accordo con Lei sulla necessità di riconoscersi in un tessuto comune e sul richiamo alle responsabilità della società intera, sebbene mi resti qualche perplessità sull’esistenza di un ordine di gravità delle possibili cause di un tale gesto. Il razzismo non è certamente un valore, se invece è un disvalore non è certamente preferibile all’assenza di valori. Ad ogni modo a me questo discorso sui valori sembra piuttosto scivoloso, oltre che dispensatorio se non lo si circoscrive. Non è mia intenzione farlo in una lettera che probabilmente non verrà letta, tuttavia mi preme dare un’altra chiave di lettura a questa vicenda, opposta alla Sua, ma che tuttavia può dare maggiore efficacia e sincerità alle Sue parole ed al richiamo alla responsabilità di tutti.
La lettura che propongo è in verità banale, eppure così impegnativa da essere puntualmente elusa, così autenticamente vincolante alle responsabilità che ciascuno di noi ha nella società in cui vive da essere sempre messa in sordina. La mia lettura è che i vecchi valori, quelli della solidarietà, della gentilezza, della cortesia, dell’accoglienza (per nominarne solo alcuni) sono semplicemente sostituiti da valori altrettanto vecchi, e forse ancor più dei primi, che sono quelli della forza, della sopraffazione e della violenza, anche verbale, e in ambito politico soprattutto verbale. Questa lettura è già stata magistralmente esposta da Miriam Mafai nel suo articolo “La cultura della violenza” sul sito internet de la Repubblica, ma io voglio aggiungere qualcos’altro, anche alla luce delle dichiarazioni del Presidente Napolitano su questa vicenda. Il Presidente parla di “episodi raccapriccianti che vanno ormai considerati non come fatti isolati ma come sintomi allarmanti di tendenze diffuse che sono purtroppo venute crescendo. Rivolgo perciò un forte appello a quanti hanno responsabilità istituzionali, culturali, educative perché si impegnino fino in fondo per fermare qualsiasi manifestazione e rischio di xenofobia, di razzismo, di violenza".
Sebbene non si possano escludere le manifestazioni di follia, sono assolutamente convinto che certi atteggiamenti debbano essere spiegati in un contesto sociale, piuttosto che richiamarsi ad un vago innatismo. Ad ogni modo la politica può e deve occuparsi solo del contesto sociale, e qui non intendo riferirmi alla “disperazione, la miseria, il degrado (banale e consueta spiegazione sociologica)” ma, come dice Mafai, all’atmosfera culturale che ciascuno di noi respira e che ciascuno di noi contribuisce a creare quotidianamente. Allora diventa vincolante per ciascuno di noi chiedersi se le nostre azioni, le nostre parole abbiano contribuito, e se sì in che modo, alla creazione di questo mutamento di valori. E’ assolutamente necessario chiedersi se ci sono state occasioni in cui abbiamo appoggiato atteggiamenti in cui la forza diventa arbitro delle ragioni, o se in alcuni casi abbiamo semplicemente omesso di stigmatizzare dichiarazioni che inneggiano alla prepotenza. E’ facile esonerarsi da queste domande invocando la libertà di pensiero e di parola. E’ facile richiamare, con un sorriso innocente, la vivacità dello scontro politico, ma questo non elude che la libertà, tanto più invocata quanto meno conosciuta, ha come esigente immagine speculare la responsabilità del suo esercizio. E francamente pare argomento debole invocare la pure enorme distanza tra i gesti criminali di tre balordi ed il comportamento quotidiano di milioni “persone perbene”, sarebbe come non riconoscere la derivazione di un albero dal suo seme.
Non mancheranno neanche in questa occasione interviste a persone sbigottite che candidamente dichiareranno “sembrava un ragazzo normale”, ma allora chiediamocelo una volta per tutte anche a rischio di dover scoprire che non è la domanda giusta: che normalità stiamo costruendo? Signor Ministro, l’odore acre della carne bruciata di quel signore indiano sale nelle nostre narici e le nostre orecchie sono piene delle sue urla e delle risa di quei tre balordi così normali. Non basta un generico richiamo alla responsabilità della società intera per far cessare quelle urla come quelle di tante altre vittime dei valori che oggi hanno corso, è necessario che ciascuno di noi, nel suo piccolo, dia un contributo cominciando dal non considerare gli immigrati come presunti delinquenti, dicendo chiaro e forte che l’essere cittadini italiani non è un titolo preferenziale per vivere in Italia ma lo è la partecipazione alla realizzazione di quei “principi fondamentali del vivere civile” che Lei richiama e che non si devono mai dare per scontati.
Lei Signor Ministro può dare un contributo che raggiunge molte persone, ne ha gli strumenti, sta a Lei usarli.
Cordiali saluti.
Antonio Caputo, Roma
Articolo di Miriam Mafai su Repubblica.it
Che dire? Secondo me non la legge!
Egr. Avv. Maroni,
Le scrivo in merito all’orribile episodio accaduto a Nettuno, dove un immigrato indiano è stato dato alle fiamme da tre ragazzi in cerca di “una forte emozione”, come hanno dichiarato ai carabinieri. A tal proposito Lei ha dichiarato "E' più grave del razzismo, perchè denota la mancanza di principi fondamentali del vivere civile non è una questione di ordine pubblico, è un qualcosa che chiama in causa la società intera". Non si può non essere d’accordo con Lei sulla necessità di riconoscersi in un tessuto comune e sul richiamo alle responsabilità della società intera, sebbene mi resti qualche perplessità sull’esistenza di un ordine di gravità delle possibili cause di un tale gesto. Il razzismo non è certamente un valore, se invece è un disvalore non è certamente preferibile all’assenza di valori. Ad ogni modo a me questo discorso sui valori sembra piuttosto scivoloso, oltre che dispensatorio se non lo si circoscrive. Non è mia intenzione farlo in una lettera che probabilmente non verrà letta, tuttavia mi preme dare un’altra chiave di lettura a questa vicenda, opposta alla Sua, ma che tuttavia può dare maggiore efficacia e sincerità alle Sue parole ed al richiamo alla responsabilità di tutti.
La lettura che propongo è in verità banale, eppure così impegnativa da essere puntualmente elusa, così autenticamente vincolante alle responsabilità che ciascuno di noi ha nella società in cui vive da essere sempre messa in sordina. La mia lettura è che i vecchi valori, quelli della solidarietà, della gentilezza, della cortesia, dell’accoglienza (per nominarne solo alcuni) sono semplicemente sostituiti da valori altrettanto vecchi, e forse ancor più dei primi, che sono quelli della forza, della sopraffazione e della violenza, anche verbale, e in ambito politico soprattutto verbale. Questa lettura è già stata magistralmente esposta da Miriam Mafai nel suo articolo “La cultura della violenza” sul sito internet de la Repubblica, ma io voglio aggiungere qualcos’altro, anche alla luce delle dichiarazioni del Presidente Napolitano su questa vicenda. Il Presidente parla di “episodi raccapriccianti che vanno ormai considerati non come fatti isolati ma come sintomi allarmanti di tendenze diffuse che sono purtroppo venute crescendo. Rivolgo perciò un forte appello a quanti hanno responsabilità istituzionali, culturali, educative perché si impegnino fino in fondo per fermare qualsiasi manifestazione e rischio di xenofobia, di razzismo, di violenza".
Sebbene non si possano escludere le manifestazioni di follia, sono assolutamente convinto che certi atteggiamenti debbano essere spiegati in un contesto sociale, piuttosto che richiamarsi ad un vago innatismo. Ad ogni modo la politica può e deve occuparsi solo del contesto sociale, e qui non intendo riferirmi alla “disperazione, la miseria, il degrado (banale e consueta spiegazione sociologica)” ma, come dice Mafai, all’atmosfera culturale che ciascuno di noi respira e che ciascuno di noi contribuisce a creare quotidianamente. Allora diventa vincolante per ciascuno di noi chiedersi se le nostre azioni, le nostre parole abbiano contribuito, e se sì in che modo, alla creazione di questo mutamento di valori. E’ assolutamente necessario chiedersi se ci sono state occasioni in cui abbiamo appoggiato atteggiamenti in cui la forza diventa arbitro delle ragioni, o se in alcuni casi abbiamo semplicemente omesso di stigmatizzare dichiarazioni che inneggiano alla prepotenza. E’ facile esonerarsi da queste domande invocando la libertà di pensiero e di parola. E’ facile richiamare, con un sorriso innocente, la vivacità dello scontro politico, ma questo non elude che la libertà, tanto più invocata quanto meno conosciuta, ha come esigente immagine speculare la responsabilità del suo esercizio. E francamente pare argomento debole invocare la pure enorme distanza tra i gesti criminali di tre balordi ed il comportamento quotidiano di milioni “persone perbene”, sarebbe come non riconoscere la derivazione di un albero dal suo seme.
Non mancheranno neanche in questa occasione interviste a persone sbigottite che candidamente dichiareranno “sembrava un ragazzo normale”, ma allora chiediamocelo una volta per tutte anche a rischio di dover scoprire che non è la domanda giusta: che normalità stiamo costruendo? Signor Ministro, l’odore acre della carne bruciata di quel signore indiano sale nelle nostre narici e le nostre orecchie sono piene delle sue urla e delle risa di quei tre balordi così normali. Non basta un generico richiamo alla responsabilità della società intera per far cessare quelle urla come quelle di tante altre vittime dei valori che oggi hanno corso, è necessario che ciascuno di noi, nel suo piccolo, dia un contributo cominciando dal non considerare gli immigrati come presunti delinquenti, dicendo chiaro e forte che l’essere cittadini italiani non è un titolo preferenziale per vivere in Italia ma lo è la partecipazione alla realizzazione di quei “principi fondamentali del vivere civile” che Lei richiama e che non si devono mai dare per scontati.
Lei Signor Ministro può dare un contributo che raggiunge molte persone, ne ha gli strumenti, sta a Lei usarli.
Cordiali saluti.
Antonio Caputo, Roma
Articolo di Miriam Mafai su Repubblica.it
domenica 1 febbraio 2009
Quiz a premi dal futuro
Benvenuti radiotelespettatori a questa puntata di 'Eterni ritorni' del 10 giugno del 2040, il nostro gioco a premi dedicato ai corsi e ricorsi della storia. Come sempre cominciamo con il quiz "Di chi stiamo parlando?", come sapete io leggerò un brano e poi saranno aperte le linee per le vostre telefonate. Ovviamente alcuni frammenti del brano non saranno letti altrimenti la soluzione sarebbe presto svelata. Sono certo che alla prima telefonata verrà chiesto un aiutino allora ve lo do subito, senza indugio, prima di leggere il brano, oggi sono generoso. La data di oggi è fondamentale per la soluzione.
Vado a leggere il brano:
"Sin quasi all’ultimo momento, [...] continuò a credere che la propaganda fosse l’arma essenziale, e che il suo compito [...] fosse innanzitutto di creare e mantenere in piedi il mito della propria infallibilità, e in secondo luogo di rivestire di panni plausibilmente realistici le numerose altre illusioni che aveva giudicato opportunamente alimentare. S’era abituato a vivere in un mondo di fantasia, dove contavano non i fatti, ma le parole, [...]. Era un mondo in cui per un pubblicista di genio era facile prendere in giro i più, in cui le decisioni potevano venir rovesciate da un giorno all’altro senza che nessuno se ne desse per inteso, e anzi addirittura se ne accorgesse, e dove in ogni caso le decisioni erano prese per fare scena, e non per essere messe in atto. Era un mondo essenzialmente privo di serietà, dove soli contavano il prestigio, la propaganda e le dichiarazioni pubbliche [...]. Non essendoci ragioni per pensare che gli italiani siano più creduli di qualsiasi altro popolo, bisogna ammettere che come illusionista la prestazione [...] fu quella di un autentico virtuoso. Non per nulla egli disse una volta che l’arte scenica era la più grande di tutte le arti. Ma fu appunto questo virtuosismo, più di ogni altra cosa, a portare l’Italia alla disfatta."
Di chi stiamo parlando? Via alle telefonate!
Scopri la soluzione.
Vado a leggere il brano:
"Sin quasi all’ultimo momento, [...] continuò a credere che la propaganda fosse l’arma essenziale, e che il suo compito [...] fosse innanzitutto di creare e mantenere in piedi il mito della propria infallibilità, e in secondo luogo di rivestire di panni plausibilmente realistici le numerose altre illusioni che aveva giudicato opportunamente alimentare. S’era abituato a vivere in un mondo di fantasia, dove contavano non i fatti, ma le parole, [...]. Era un mondo in cui per un pubblicista di genio era facile prendere in giro i più, in cui le decisioni potevano venir rovesciate da un giorno all’altro senza che nessuno se ne desse per inteso, e anzi addirittura se ne accorgesse, e dove in ogni caso le decisioni erano prese per fare scena, e non per essere messe in atto. Era un mondo essenzialmente privo di serietà, dove soli contavano il prestigio, la propaganda e le dichiarazioni pubbliche [...]. Non essendoci ragioni per pensare che gli italiani siano più creduli di qualsiasi altro popolo, bisogna ammettere che come illusionista la prestazione [...] fu quella di un autentico virtuoso. Non per nulla egli disse una volta che l’arte scenica era la più grande di tutte le arti. Ma fu appunto questo virtuosismo, più di ogni altra cosa, a portare l’Italia alla disfatta."
Di chi stiamo parlando? Via alle telefonate!
Scopri la soluzione.
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