"Concludiamone dunque che il mondo sarebbe assai migliore se ciascuno si accontentasse di quello che dice, senza aspettarsi che gli rispondano, e soprattutto senza chiederlo né desiderarlo." José Saramago
sabato 27 ottobre 2012
Memoria spietata
O memoria spietata, che hai tu fatto
del mio paese?
Un paese di spettri
dove nulla è mutato fuor che i vivi
che usurpano il posto dei morti.
Qui tutto è fermo, incantato,
nel mio ricordo.
Anche il vento.
Quante volte, o paese mio nativo,
in te venni a cercare
ciò che più m'appartiene e ciò che ho perso.
Quel vento antico, quelle antiche voci,
e gli odori e le stagioni
d'un tempo, ahimè, vissuto.
Vincenzo Cardarelli, 1887-1959.
martedì 23 ottobre 2012
Scienza e Politica
La sentenza del Tribunale dell'Aquila che ha condannato a sei anni sette componenti della Commissione Grandi Rischi sta facendo discutere la comunità scientifica. Non entrerò nel merito della sentenza, non ne conosco i termini e attendo di leggere le motivazioni, tuttavia posso dire che la sentenza, giusta o sbagliata che sia, debba far riflettere in direzioni diverse da quelle che la discussione sta prendendo, possibilmente volando un po' più alto delle solidarietà di rito o delle manifestazioni di soddisfazione perché adesso si avrebbero i "colpevoli".
C'è chi parla di processo alla Scienza, c'è chi esulta per la condanna. Ripeto, non sta a me giudicare la sentenza che peraltro potrebbe essere rovesciata dai successivi gradi di giudizio. Conosco i fatti come qualunque cittadino che legge i giornali e a quei fatti e alle impressioni che mi hanno suscitato mi atterrò, nel tentativo di suggerire qualche spunto di riflessione che non mi pare di aver ravvisato negli articoli che ho letto.
Luciano Maiani, l'attuale presidente della Commissione grandi rischi, si è dimesso perché non ritiene ci siano le condizioni per lavorare serenamente. Giuseppe Zamberletti, afferma che ''Il rischio è che gli scienziati non se la sentano più di esprimere liberamente il risultato delle proprie conoscenze. Che garanzie hanno che gli studi fatti non possano diventare oggetto di una responsabilità penale? Questo non avviene in nessuna parte del mondo...Il problema - ha rimarcato Zamberletti - è riuscire a dare una normativa che, salvo i casi di dolo o di grave negligenza o colpa, tuteli la ricerca. Adesso si è creato il terrore: se gli esperti esprimono un parere e c'è la minaccia di un procedimento penale, si perde serenità nel giudizio. Ci sono restrizioni che possono frenare la libera ricerca''.
Le affermazioni di Zamberletti non possono essere contestate, le dimissioni di Maiani sono condivisibili. In molti ambiti la scienza non può esprimersi in termini di certezza ma solo in termini di probabilità, gli scienziati lo sanno benissimo. Ha ragione Piergiorgio Odifreddi a dire che c'è un atteggiamento schizofrenico di fronte alla scienza quando da un lato si pretende che sia onnisciente e dall'altro la si ritiene ignorante di fronte al pensiero religioso. La contrapposizione tra pensiero scientifico e religioso, si sa, piace molto a Odifreddi ma facevo notare anche nel suo blog che la contrapposizione tra scienza e religione non è un paradigma universale per spiegare tutto quello che accade nell’ambito scientifico di questo paese. Non nego che quello che scrive Odifreddi sia vero ma lo trovo poco adeguato al caso in questione perché seguendo il consiglio di Occam avrei un’ipotesi più semplice sulla quale riflettere, un'ipotesi che tira in ballo un terzo soggetto tra scienza e religione, ovvero la politica. E’ purtroppo vero che quando serve si confonde la scienza con l’onniscienza ma in questo caso abbiamo il dovere di porci una domanda: le conclusioni della famigerata riunione della Commissione grandi rischi sono state formulate in assoluta autonomia e senza subire pressioni di alcun tipo?
La domanda è doverosa considerando il contenuto dell'intercettazioni telefoniche di Bertolaso pubblicate da la Repubblica.it il 18 gennaio 2012, la telefonata avviene il giorno prima della riunione:
"Sono Guido Bertolaso...". La Stati: "Che onore...". Bertolaso: "Ti chiamerà De Bernardinis il mio vice, perché gli ho detto di fare una riunione lì all'Aquila domani, su questa vicenda di questo sciame sismico che continua, in modo da zittire subito qualsiasi imbecille, placare illazioni, preoccupazioni... Eccetera...". Ancora Bertolaso: "La cosa importante è che domani... Adesso De Bernardinis ti chiama per dirti dove volete fare la riunione. Io non vengo... ma vengono Zamberletti (l'unico che poi non parteciperà, ndr), Barberi, Boschi, quindi i luminari del terremoto in Italia. Li faccio venire all'Aquila o da te o in prefettura... Decidete voi, a me non me ne frega niente... In modo che è più un'operazione mediatica, hai capito? Così loro, che sono i massimi esperti di terremoti, diranno: è una situazione normale... sono fenomeni che si verificano... meglio che ci siano cento scosse di quattro scala Richter piuttosto che il silenzio, perché cento scosse servono a liberare energia e non ci sarà mai la scossa quella che fa male... Hai capito? (...) Tu parla con De Bernardinis e decidete dove fare questa riunione domani, poi fatelo sapere (alla stampa, ndr) che ci sarà questa riunione. E che non è perché siamo spaventati e preoccupati, ma è perché vogliamo tranquillizzare la gente. E invece di parlare io e te... facciamo parlare i massimi scienziati nel campo della sismologia". La Stati: "Va benissimo...".
Allora il dilemma da sciogliere è questo: il parere della Commissione è stato formulato in assoluta indipendenza dalla volontà di "tranquillizzare la gente" espressa da Bertolaso, magari su suggerimento di qualche suo illustre conoscente poco ferrato in tema di sismologia ma molto ottimista per natura? Se ci sono state pressioni per tranquillizzare la gente è legittimo pensare che il parere sarebbe potuto essere maggiormente improntato al principio di precauzione in assenza di tali pressioni?
Se il parere è stato formulato in assoluta autonomia e indipendenza allora ha ragione chi parla di sentenza aberrante, hanno ragione Maiani, Zamberletti e quanti vedono minacciata la possibilità da parte degli scienziati di esprimersi perché si chiedono loro certezze che non possono dare. Se invece il parere è stato dato, sia pure in buona fede, ma sotto una qualche pressione allora siamo di fronte ad una commistione tra scienza e politica che va sanata facendo nascere da questa sentenza un gigantesco dibattito per chiedere assoluta autonomia e terzietà della scienza rispetto alla politica. Un indizio riguardo alla mancanza di autonomia viene da Enzo Boschi che oggi ammette: "Lo scopo della riunione era quello di dire che non si potevano prevedere i terremoti, l’ho capito dopo" e alla domanda se pensa di essere stato strumentalizzato Boschi risponde: "Non lo so, devo rifletterci."
Da parte mia resta inspiegabile il vizio logico di scienziati che sostengono l'imprevedibilità di un terremoto per prevedere che non accadrà e siccome sono convinto che questo vizio non sia sfuggito a nessuno dei componenti della Commissione grandi rischi allora sono più propenso a pensare che il parere non sia stato indipendente da volontà di "ordine superiore", esigenze politiche, come si dice in questi casi. Quelle stesse esigenze che fanno riempire la bocca di principio di precauzione ad ogni riunione ma che evitano accuratamente di metterlo in pratica perché altrimenti si crea allarme. Meglio un allarme inutile di un'ecatombe e questo atteggiamento dovrebbero chiederlo a gran voce anche i cittadini anziché starnazzare a vuoto quando si annuncia un cataclisma che poi non avviene. La scienza non è certezza, questo bisogna che lo capiamo bene noi cittadini e che lo capiscano i politici e se questi ultimi non lo capiscono allora è dovere degli scienziati sottrarsi a pareri che non rispettano la natura della loro conoscenza, con obiezione di coscienza, con esposti preventivi alla magistratura, con ogni mezzo disponibile.
Bene, detto questo io credo che se la comunità scientifica non sarà in grado di trarre le necessarie conseguenze da questa sentenza in termini di autonomia dalla politica allora va bene che la scienza si estingua in questo paese perché non vedrei alcuna differenza con la più becera religione, per ritornare alla contrapposizione di cui parla Odifreddi.
C'è chi parla di processo alla Scienza, c'è chi esulta per la condanna. Ripeto, non sta a me giudicare la sentenza che peraltro potrebbe essere rovesciata dai successivi gradi di giudizio. Conosco i fatti come qualunque cittadino che legge i giornali e a quei fatti e alle impressioni che mi hanno suscitato mi atterrò, nel tentativo di suggerire qualche spunto di riflessione che non mi pare di aver ravvisato negli articoli che ho letto.
Luciano Maiani, l'attuale presidente della Commissione grandi rischi, si è dimesso perché non ritiene ci siano le condizioni per lavorare serenamente. Giuseppe Zamberletti, afferma che ''Il rischio è che gli scienziati non se la sentano più di esprimere liberamente il risultato delle proprie conoscenze. Che garanzie hanno che gli studi fatti non possano diventare oggetto di una responsabilità penale? Questo non avviene in nessuna parte del mondo...Il problema - ha rimarcato Zamberletti - è riuscire a dare una normativa che, salvo i casi di dolo o di grave negligenza o colpa, tuteli la ricerca. Adesso si è creato il terrore: se gli esperti esprimono un parere e c'è la minaccia di un procedimento penale, si perde serenità nel giudizio. Ci sono restrizioni che possono frenare la libera ricerca''.
Le affermazioni di Zamberletti non possono essere contestate, le dimissioni di Maiani sono condivisibili. In molti ambiti la scienza non può esprimersi in termini di certezza ma solo in termini di probabilità, gli scienziati lo sanno benissimo. Ha ragione Piergiorgio Odifreddi a dire che c'è un atteggiamento schizofrenico di fronte alla scienza quando da un lato si pretende che sia onnisciente e dall'altro la si ritiene ignorante di fronte al pensiero religioso. La contrapposizione tra pensiero scientifico e religioso, si sa, piace molto a Odifreddi ma facevo notare anche nel suo blog che la contrapposizione tra scienza e religione non è un paradigma universale per spiegare tutto quello che accade nell’ambito scientifico di questo paese. Non nego che quello che scrive Odifreddi sia vero ma lo trovo poco adeguato al caso in questione perché seguendo il consiglio di Occam avrei un’ipotesi più semplice sulla quale riflettere, un'ipotesi che tira in ballo un terzo soggetto tra scienza e religione, ovvero la politica. E’ purtroppo vero che quando serve si confonde la scienza con l’onniscienza ma in questo caso abbiamo il dovere di porci una domanda: le conclusioni della famigerata riunione della Commissione grandi rischi sono state formulate in assoluta autonomia e senza subire pressioni di alcun tipo?
La domanda è doverosa considerando il contenuto dell'intercettazioni telefoniche di Bertolaso pubblicate da la Repubblica.it il 18 gennaio 2012, la telefonata avviene il giorno prima della riunione:
"Sono Guido Bertolaso...". La Stati: "Che onore...". Bertolaso: "Ti chiamerà De Bernardinis il mio vice, perché gli ho detto di fare una riunione lì all'Aquila domani, su questa vicenda di questo sciame sismico che continua, in modo da zittire subito qualsiasi imbecille, placare illazioni, preoccupazioni... Eccetera...". Ancora Bertolaso: "La cosa importante è che domani... Adesso De Bernardinis ti chiama per dirti dove volete fare la riunione. Io non vengo... ma vengono Zamberletti (l'unico che poi non parteciperà, ndr), Barberi, Boschi, quindi i luminari del terremoto in Italia. Li faccio venire all'Aquila o da te o in prefettura... Decidete voi, a me non me ne frega niente... In modo che è più un'operazione mediatica, hai capito? Così loro, che sono i massimi esperti di terremoti, diranno: è una situazione normale... sono fenomeni che si verificano... meglio che ci siano cento scosse di quattro scala Richter piuttosto che il silenzio, perché cento scosse servono a liberare energia e non ci sarà mai la scossa quella che fa male... Hai capito? (...) Tu parla con De Bernardinis e decidete dove fare questa riunione domani, poi fatelo sapere (alla stampa, ndr) che ci sarà questa riunione. E che non è perché siamo spaventati e preoccupati, ma è perché vogliamo tranquillizzare la gente. E invece di parlare io e te... facciamo parlare i massimi scienziati nel campo della sismologia". La Stati: "Va benissimo...".
Allora il dilemma da sciogliere è questo: il parere della Commissione è stato formulato in assoluta indipendenza dalla volontà di "tranquillizzare la gente" espressa da Bertolaso, magari su suggerimento di qualche suo illustre conoscente poco ferrato in tema di sismologia ma molto ottimista per natura? Se ci sono state pressioni per tranquillizzare la gente è legittimo pensare che il parere sarebbe potuto essere maggiormente improntato al principio di precauzione in assenza di tali pressioni?
Se il parere è stato formulato in assoluta autonomia e indipendenza allora ha ragione chi parla di sentenza aberrante, hanno ragione Maiani, Zamberletti e quanti vedono minacciata la possibilità da parte degli scienziati di esprimersi perché si chiedono loro certezze che non possono dare. Se invece il parere è stato dato, sia pure in buona fede, ma sotto una qualche pressione allora siamo di fronte ad una commistione tra scienza e politica che va sanata facendo nascere da questa sentenza un gigantesco dibattito per chiedere assoluta autonomia e terzietà della scienza rispetto alla politica. Un indizio riguardo alla mancanza di autonomia viene da Enzo Boschi che oggi ammette: "Lo scopo della riunione era quello di dire che non si potevano prevedere i terremoti, l’ho capito dopo" e alla domanda se pensa di essere stato strumentalizzato Boschi risponde: "Non lo so, devo rifletterci."
Da parte mia resta inspiegabile il vizio logico di scienziati che sostengono l'imprevedibilità di un terremoto per prevedere che non accadrà e siccome sono convinto che questo vizio non sia sfuggito a nessuno dei componenti della Commissione grandi rischi allora sono più propenso a pensare che il parere non sia stato indipendente da volontà di "ordine superiore", esigenze politiche, come si dice in questi casi. Quelle stesse esigenze che fanno riempire la bocca di principio di precauzione ad ogni riunione ma che evitano accuratamente di metterlo in pratica perché altrimenti si crea allarme. Meglio un allarme inutile di un'ecatombe e questo atteggiamento dovrebbero chiederlo a gran voce anche i cittadini anziché starnazzare a vuoto quando si annuncia un cataclisma che poi non avviene. La scienza non è certezza, questo bisogna che lo capiamo bene noi cittadini e che lo capiscano i politici e se questi ultimi non lo capiscono allora è dovere degli scienziati sottrarsi a pareri che non rispettano la natura della loro conoscenza, con obiezione di coscienza, con esposti preventivi alla magistratura, con ogni mezzo disponibile.
Bene, detto questo io credo che se la comunità scientifica non sarà in grado di trarre le necessarie conseguenze da questa sentenza in termini di autonomia dalla politica allora va bene che la scienza si estingua in questo paese perché non vedrei alcuna differenza con la più becera religione, per ritornare alla contrapposizione di cui parla Odifreddi.
lunedì 22 ottobre 2012
Il fantasma di Tom Joad
Spesso mi sono chiesto a cosa serve un blog. Mi sono dato tante risposte, nessuna che mi abbia soddisfatto davvero, in definitiva un blog è una versione aggiornata di quel bisogno antico di far sentire la propria voce. Lo stesso vecchio furore che preme da sempre e continuerà a premere, maledizione.
Un uomo ad Arezzo vive nella sua auto perché ha perso il lavoro, la casa. Si chiama Gianluca, la crisi gli ha portato via tutto. La sua voce è il blog con il quale ha deciso di raccontare la propria vita. Il fantasma di Tom Joad è il suo blog, leggetelo, leggetelo attentamente. In questo articolo trovate la sua storia. Se pensate di aver bisogno di quello che fa scrivetegli, se conoscete qualcuno che possa aiutarlo in questo senso fate girare la voce, allora forse potremo dire che i nostri blog saranno serviti a qualcosa.
Un uomo ad Arezzo vive nella sua auto perché ha perso il lavoro, la casa. Si chiama Gianluca, la crisi gli ha portato via tutto. La sua voce è il blog con il quale ha deciso di raccontare la propria vita. Il fantasma di Tom Joad è il suo blog, leggetelo, leggetelo attentamente. In questo articolo trovate la sua storia. Se pensate di aver bisogno di quello che fa scrivetegli, se conoscete qualcuno che possa aiutarlo in questo senso fate girare la voce, allora forse potremo dire che i nostri blog saranno serviti a qualcosa.
sabato 20 ottobre 2012
Lei non sa chi sono io!
...e neanche mi interessa.
Mi piacerebbe che tutti i titoli venissero aboliti, proprio tutti. Potrebbe essere l'unico modo perché un imbecille resti un imbecille. Non che i titoli nascondano l'imbecille, anzi a volte lo esaltano. L'imbecille porta a garanzia della propria imbecillità i titoli di cui si fregia, perché quasi sempre l'imbecille ha uno smisurato bisogno di fregiarsi dei propri titoli, come per celare la propria imbecillità. Qui l'imbecille sbaglia perché l'imbecillità è una condizione che precede il titolo, l'imbecillità è sostanza il titolo è accidente, anche se spesso si viene sfiorati dall'idea che alcuni accidenti siano indissolubilmente legati alla sostanza. Mah, va a capire come funzionano certe cose!
Neanche ricordo più perché ho scritto queste considerazioni.
In realtà volevo solo riportare questa notizia che non ha alcuna relazione con quanto ho scritto: "Durante un incontro sull'allarme rifiuti tossici, il sacerdote anticamorra (e antidiscarica) don Maurizio Patriciello si rivolge a Carmela Pagano, prefetto di Caserta, chiamandola "signora". Scatenando l'ira del prefetto di Napoli Andrea De Martino" (Repubblica.it)
Per vedere come il parroco abbia "mancato di rispetto alle istituzioni" guardate il video contenuto in questo articolo.
A mio avviso il rispetto delle istituzioni comincia dal rispetto dei cittadini, se poi i soggetti che ricoprono incarichi istituzionali evitassero di fare figure penose le istituzioni ne guadagnerebbero in rispetto oltre modo.
Mi piacerebbe che tutti i titoli venissero aboliti, proprio tutti. Potrebbe essere l'unico modo perché un imbecille resti un imbecille. Non che i titoli nascondano l'imbecille, anzi a volte lo esaltano. L'imbecille porta a garanzia della propria imbecillità i titoli di cui si fregia, perché quasi sempre l'imbecille ha uno smisurato bisogno di fregiarsi dei propri titoli, come per celare la propria imbecillità. Qui l'imbecille sbaglia perché l'imbecillità è una condizione che precede il titolo, l'imbecillità è sostanza il titolo è accidente, anche se spesso si viene sfiorati dall'idea che alcuni accidenti siano indissolubilmente legati alla sostanza. Mah, va a capire come funzionano certe cose!
Neanche ricordo più perché ho scritto queste considerazioni.
In realtà volevo solo riportare questa notizia che non ha alcuna relazione con quanto ho scritto: "Durante un incontro sull'allarme rifiuti tossici, il sacerdote anticamorra (e antidiscarica) don Maurizio Patriciello si rivolge a Carmela Pagano, prefetto di Caserta, chiamandola "signora". Scatenando l'ira del prefetto di Napoli Andrea De Martino" (Repubblica.it)
Per vedere come il parroco abbia "mancato di rispetto alle istituzioni" guardate il video contenuto in questo articolo.
A mio avviso il rispetto delle istituzioni comincia dal rispetto dei cittadini, se poi i soggetti che ricoprono incarichi istituzionali evitassero di fare figure penose le istituzioni ne guadagnerebbero in rispetto oltre modo.
giovedì 18 ottobre 2012
Adorazione
Curva nera di tempo
genuflessa intorno al Dio dell'olio
nell'ora dell'adorazione.
Donne rotonde come il mondo
raccolgono olive
per la luce dei morti
e il pane dei vivi.
Non molto tempo fa, la foto è del 72 se ricordo bene, la raccolta delle olive era opera delle donne, gli uomini erano tra i rami, pettinavano con i rastrelli i ramoscelli per far cadere le olive che non erano andate giù da sole. Intorno all'albero si realizzava un'ara circolare e partendo dall'esterno le donne raccoglievano con le mani le olive, le fitte e le cijare (le fitte sono quelle più dense sotto l'albero, le cijare sono quelle più sparse). Non c'erano le reti, quelle sono venute dopo, le "reti poste intorno dai contadini a sposare se stessi a loro", immagine meravigliosa di Fabrizio, la raccolta avveniva ancora a mano e in molti posti del mio Salento continua ad essere così. Poi è venuto il tradimento, la raccolta non è più uno sposalizio con l'albero, ancor meno un'adorazione. Si stendono le reti, una macchina fa tremare gli alberi, li scuote, le olive cadono, si avvolgono le reti. Fine.
Fimmine fimmine ca sciati alle ulie
cujiti e fitte e puru le cijare
E' la strofa di una variante della canzone che ho messo in questo post.
Un uomo del Sud
come immagina Dio
se non come storto olivo
e perenne rovina?
Vittorio Bodini, Inediti 1949-1960. In Tutte le poesie a cura di Oreste Macrì. Ed. Besa, 2010.
Oggi in Salento si potrebbe consumare l'ennesimo scempio, la domanda che si poneva Bodini non ha più l'attesa risposta. Nel cuore del basso Salento, in Puglia, tra i comuni di Maglie e Otranto si vuole costruire un'autostrada. Quei comuni sono già serviti da una strada statale ampia e scorrevole a due corsie. Costruire l'autostrada significa passare sopra secoli di storia, sradicare migliaia di ulivi secolari, molti sono millenari.
Cosa io pensi della democrazia del click è cosa nota tra chi legge questo blog ma ad ogni modo gli strumenti vanno usati. In rete c'è una petizione promossa su Avaaz.org che chiede:
«Al Presidente della Repubblica al Presidente del Consiglio al Consiglio dei Ministri e a tutto il Parlamento.
Col presente appello-petizione si vuole chiedere di fermare la folle e insavia costruzione della mega autostrada a 4 corsie nel cuore del basso Salento fra i comuni pugliesi di Maglie e Otranto. Oltre 8000 ulivi ed essenze di pregio da estirpare sono la misura arborea di un'ecatombe intollerabile che prevede un simile martirio di territorio e la dissipazione e scempio di preziosissime e innumerevoli testimonianze della civiltà greco-romana e cristiana e del lavoro millenario della nostra civiltà contadina. Le nostre firme chiedono l'intervento per salvare, ora, l'entroterra otrantino e quindi con una moratoria di tutti, tanti, i previsti progetti di iper-ampliamento autostradale, di strade esistenti e fermare la costruzione di altre strade fortemente impattanti e certamente ridondanti per l'intera Puglia salentina e salvare il suo unico e meraviglioso mosaico paesaggistico storico naturale impregnato di cultura e mitologia.»
Vi prego firmate la petizione.
Chi non è salentino può chiedere con questa petizione di salvare quegli alberi, chi è salentino, se ancora ricorda qualcuno inginocchiato sotto quegli alberi, allora dovrà fare di tutto per impedire la costruzione di una autostrada inutile e dannosa.
Raccoglitrici di olive, Agro di Melendugno, 1973. Photo Sacchetto Luigi - AFIAP Didascalia aggiunta il 31-12-2012. |
Curva nera di tempo
genuflessa intorno al Dio dell'olio
nell'ora dell'adorazione.
Donne rotonde come il mondo
raccolgono olive
per la luce dei morti
e il pane dei vivi.
Non molto tempo fa, la foto è del 72 se ricordo bene, la raccolta delle olive era opera delle donne, gli uomini erano tra i rami, pettinavano con i rastrelli i ramoscelli per far cadere le olive che non erano andate giù da sole. Intorno all'albero si realizzava un'ara circolare e partendo dall'esterno le donne raccoglievano con le mani le olive, le fitte e le cijare (le fitte sono quelle più dense sotto l'albero, le cijare sono quelle più sparse). Non c'erano le reti, quelle sono venute dopo, le "reti poste intorno dai contadini a sposare se stessi a loro", immagine meravigliosa di Fabrizio, la raccolta avveniva ancora a mano e in molti posti del mio Salento continua ad essere così. Poi è venuto il tradimento, la raccolta non è più uno sposalizio con l'albero, ancor meno un'adorazione. Si stendono le reti, una macchina fa tremare gli alberi, li scuote, le olive cadono, si avvolgono le reti. Fine.
Fimmine fimmine ca sciati alle ulie
cujiti e fitte e puru le cijare
E' la strofa di una variante della canzone che ho messo in questo post.
Un uomo del Sud
come immagina Dio
se non come storto olivo
e perenne rovina?
Vittorio Bodini, Inediti 1949-1960. In Tutte le poesie a cura di Oreste Macrì. Ed. Besa, 2010.
Oggi in Salento si potrebbe consumare l'ennesimo scempio, la domanda che si poneva Bodini non ha più l'attesa risposta. Nel cuore del basso Salento, in Puglia, tra i comuni di Maglie e Otranto si vuole costruire un'autostrada. Quei comuni sono già serviti da una strada statale ampia e scorrevole a due corsie. Costruire l'autostrada significa passare sopra secoli di storia, sradicare migliaia di ulivi secolari, molti sono millenari.
Cosa io pensi della democrazia del click è cosa nota tra chi legge questo blog ma ad ogni modo gli strumenti vanno usati. In rete c'è una petizione promossa su Avaaz.org che chiede:
«Al Presidente della Repubblica al Presidente del Consiglio al Consiglio dei Ministri e a tutto il Parlamento.
Col presente appello-petizione si vuole chiedere di fermare la folle e insavia costruzione della mega autostrada a 4 corsie nel cuore del basso Salento fra i comuni pugliesi di Maglie e Otranto. Oltre 8000 ulivi ed essenze di pregio da estirpare sono la misura arborea di un'ecatombe intollerabile che prevede un simile martirio di territorio e la dissipazione e scempio di preziosissime e innumerevoli testimonianze della civiltà greco-romana e cristiana e del lavoro millenario della nostra civiltà contadina. Le nostre firme chiedono l'intervento per salvare, ora, l'entroterra otrantino e quindi con una moratoria di tutti, tanti, i previsti progetti di iper-ampliamento autostradale, di strade esistenti e fermare la costruzione di altre strade fortemente impattanti e certamente ridondanti per l'intera Puglia salentina e salvare il suo unico e meraviglioso mosaico paesaggistico storico naturale impregnato di cultura e mitologia.»
Vi prego firmate la petizione.
Chi non è salentino può chiedere con questa petizione di salvare quegli alberi, chi è salentino, se ancora ricorda qualcuno inginocchiato sotto quegli alberi, allora dovrà fare di tutto per impedire la costruzione di una autostrada inutile e dannosa.
martedì 16 ottobre 2012
Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti
Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti
di Italo Calvino*
C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.
Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.
Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.
Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere.
Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri.
Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.
In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.
Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.
Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.
Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.
* da Repubblica, 15 marzo 1980 e in “Romanzi e racconti, volume terzo, Racconti e apologhi sparsi”, Meridiani, Mondadori
Fonte: MicroMega online
di Italo Calvino*
C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.
Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.
Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.
Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere.
Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri.
Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.
In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.
Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.
Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.
Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.
* da Repubblica, 15 marzo 1980 e in “Romanzi e racconti, volume terzo, Racconti e apologhi sparsi”, Meridiani, Mondadori
Fonte: MicroMega online
venerdì 12 ottobre 2012
Paesaggi della memoria
...i campi di tabacco sono paesaggi della memoria, i canti che arrivano da quei campi hanno la cadenza del cuore.
Quei canti per me sono state ninne nanne cantate davanti al fuoco da mia nonna, per molto tempo sono stati i canti del focolare. Con il tempo ho capito l'immensa importanza di quei canti, creazione e sublimazione di una condizione umana dove non c'era tempo neanche per la depressione, altri bisogni incombevano e allora si cantava. Si cantava nei campi sotto un sole feroce, "c'è nu sule ca spacca e petre", si cantava mentre si infilavano foglie di tabacco, si cantava durante la mietitura del grano, si cantava durante la vendemmia e la raccolta delle olive, si cantava la sera a prendere il fresco, si cantava in attesa del morso di un ragno.
Oggi non cantiamo più, oggi abbiamo tutto il tempo per la depressione.
Qui non vorrei vivere dove vivere
mi tocca, mio paese,
così sgradito da doverti amare;
lento piano dove la luce pare
di carne cruda
e il nespolo va e viene fra noi e l'inverno.
Pigro
come una mezzaluna nel sole di maggio,
la tazza di caffè, le parole perdute,
vivo ormai nelle cose che i miei occhi guardano:
divento ulivo e ruota d'un lento carro,
siepe di fichi d'India, terra amara
dove cresce il tabacco.
Ma tu, mortale e torbida, così mia,
così sola,
dici che non è vero, che non è tutto.
Triste invidia di vivere,
in tutta questa pianura
non c'è un ramo su cui tu voglia posarti.
Vittorio Bodini. Da La luna dei Borboni, 1950-1951
Quei canti per me sono state ninne nanne cantate davanti al fuoco da mia nonna, per molto tempo sono stati i canti del focolare. Con il tempo ho capito l'immensa importanza di quei canti, creazione e sublimazione di una condizione umana dove non c'era tempo neanche per la depressione, altri bisogni incombevano e allora si cantava. Si cantava nei campi sotto un sole feroce, "c'è nu sule ca spacca e petre", si cantava mentre si infilavano foglie di tabacco, si cantava durante la mietitura del grano, si cantava durante la vendemmia e la raccolta delle olive, si cantava la sera a prendere il fresco, si cantava in attesa del morso di un ragno.
Oggi non cantiamo più, oggi abbiamo tutto il tempo per la depressione.
Qui non vorrei vivere dove vivere
mi tocca, mio paese,
così sgradito da doverti amare;
lento piano dove la luce pare
di carne cruda
e il nespolo va e viene fra noi e l'inverno.
Pigro
come una mezzaluna nel sole di maggio,
la tazza di caffè, le parole perdute,
vivo ormai nelle cose che i miei occhi guardano:
divento ulivo e ruota d'un lento carro,
siepe di fichi d'India, terra amara
dove cresce il tabacco.
Ma tu, mortale e torbida, così mia,
così sola,
dici che non è vero, che non è tutto.
Triste invidia di vivere,
in tutta questa pianura
non c'è un ramo su cui tu voglia posarti.
Vittorio Bodini. Da La luna dei Borboni, 1950-1951
martedì 9 ottobre 2012
Fimmine fimmine
tiraletti di tabacco |
"s’ode un canto dai campi di tabacco". Ho fatto in tempo ad ascoltarli quei canti dai campi, ero piccolo e ancora oggi mentre vado per i campi li sento risuonare nelle mie orecchie. Oggi il tabacco non si coltiva più in Salento ma ancora vedo "antiche donne" che non ci sono più che cantano mentre infilano il tabacco e lo appendono ai "tiraletti" per farlo seccare al sole.
La mia non è rievocazione, è continuo andare e venire da me a me. I canti nei campi sono quasi sempre canti di donne, perché in fondo, contrariamente a quanto si può trovare negli studi sociologici o etnografici, le società del sud sono società matriarcali, lo sono sempre state e ai poveri uomini, bambini inconsolabili, non resta che continuare a credere di essere i capo-famiglia. "Le antiche donne", con le loro mani "aperte pietre sui grembi", hanno sempre saputo di dover celare con cura questo segreto agli uomini, troppo fragili per poterlo sopportare.
Una funesta mano con languore dai tetti
visita i forni spenti, le stalle in cui si desta
una lanterna o voce impolverata.
Come da un astro prossimo a morire
s'ode un canto dai campi di tabacco.
Sulle soglie, in ascolto, le antiche donne sedute
- o macchie che la luna ripercuote nell'aria
socchiudono pupille d'una astratta durezza
dai palmi delle mani, aperte pietre sui grembi.
Vittorio Bodini. In Foglie di tabacco (1945-47)
Fimmine fimmine ca sciati allu tabaccu
ne sciati doi e ne turnati quattru
ne sciati doi e ne turnati quattru
Ci te lu tisse cu chianti zagovina*
passa lu duca e te manna alla ruvina
passa lu duca e te manna alla ruvina
Ci te lu tisse cu chianti lu salluccu*
passa lu duca e te lu tira tuttu
passa lu duca e te lu tira tuttu
Ho riportato il testo secondo la dizione del mio paese, Melissano, questo spiega le differenze rispetto alla registrazione di Lomax. Una cosa che mi riempie costantemente di ammirazione dei dialetti salentini è la loro straordinaria varietà, anche a pochi chilometri di distanza e senza alcuna barriera geografica.
Donne donne che andate nei campi di tabacco
andate in due e tornate in quattro
Chi ti ha detto di piantare zagovina
passa il duca e ti manda in rovina
Chi ti ha detto di piantare salluccu
passa il duca e tira giù tutto.
*"La zagovina è la Erzegovina, una qualità di tabacco la cui coltura era evidentemente proibita. Per quanto riguarda salluccu, forse il termine si riferisce ad un'altra qualità di tabacco coltivata, anche se in misura limitata, nel Salento: l'Aya Saluk. In ogni caso è da notare l'allusione al duca che ci rimanda ai servi della gleba. O più semplicemente al Duce, di più recente, triste, memoria." Tabacco e tabacchine nella memoria storica. Una ricerca di storia orale a Tricase e nel Salento, a cura di V. Santoro, S. Torsello. Ed. Manni, 2002.
giovedì 4 ottobre 2012
Sulla coerenza
Il pensiero che presenta una coerenza interna senza interrogarsi su cosa possa esserci all'esterno del sistema di valori che lo costituisce può esporre ai rischi di una tautologia nel migliore dei casi, all'auto-annientamento nel peggiore. In ogni caso si tratta di un pensiero che non potrà mai autenticamente scoprire la novità dell’altro da sé. Pirandello ci ha messo in guardia dal riparare la giara dal suo interno, sulla scia di tale consapevolezza persino la roccaforte matematica è stata espugnata dai teoremi di Gödel ed il territorio del “comportamento razionale” dell’economia è stato scosso dal terremoto di Amartya Sen.
Per capire il mondo dobbiamo uscire di casa. Una casa dalle mura strette e dal soffitto basso, una casa le cui mura non sono ormai che ruderi della nostra umanità, ma che ancora abbiamo il diritto di credere sontuosa come un castello perché è l’unica di cui possiamo disporre e l’unica che dobbiamo riedificare.
Mi rendo conto che queste brevi note possono essere intese come una sorta di liberatoria per l'incoerenza, niente di più sbagliato. In tal caso valga quanto scriveva Wittgenstein: "La tautologia non ha condizioni di verità, poiché è incondizionatamente vera; e la contraddizione è sotto nessuna condizione vera. Tautologia e contraddizione sono prive di senso." (4.461), seguito subito dopo da: "Tautologia e contraddizione non sono però insensate; esse appartengono al simbolismo, così come lo “0” al simbolismo dell’aritmetica." (4.4611) Tractatus logico-philosophicus.
martedì 2 ottobre 2012
Altre istantanee
Altre istantanee, le ultime sopravvissute prima del cambio di secolo e di millennio...un'altra epoca!
Qui ne metto solo una, le altre sono disponibili a questo indirizzo. Molte le avevo già riportate in questo post, con qualche rimaneggiamento.
Adesso la liberazione è completa!
Ho trasformato parole
per ripararle dal senso,
ho mutato pelle
come squame di serpente,
ho lavato giornate
come panni sporchi.
Ora siamo qui,
nudi, al centro del mio cuore
col terrore di farci male.
Dimmi chi sono
dimmi chi sei,
chi dei tanti me vuoi,
a volte li confondo
e in ognuno mi perdo
cercando quello che non c'è.
Muoio e rinasco
e di te ricordo qualcosa
per riempire scrigni
di storie da chiudere a chiave.
Tante le chiavi
che ho perduto
e di anni brevi come minuti felici
rimangono scatole
che non aprirò più.
Qui ne metto solo una, le altre sono disponibili a questo indirizzo. Molte le avevo già riportate in questo post, con qualche rimaneggiamento.
Adesso la liberazione è completa!
Ho trasformato parole
per ripararle dal senso,
ho mutato pelle
come squame di serpente,
ho lavato giornate
come panni sporchi.
Ora siamo qui,
nudi, al centro del mio cuore
col terrore di farci male.
Dimmi chi sono
dimmi chi sei,
chi dei tanti me vuoi,
a volte li confondo
e in ognuno mi perdo
cercando quello che non c'è.
Muoio e rinasco
e di te ricordo qualcosa
per riempire scrigni
di storie da chiudere a chiave.
Tante le chiavi
che ho perduto
e di anni brevi come minuti felici
rimangono scatole
che non aprirò più.
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