I miei amati muretti a secco entrano nella lista degli elementi immateriali dichiarati Patrimonio dell'umanità in quanto rappresentano... Un attimo, un attimo, aspetta un attimo. Immateriali? Che significa immateriali? Non conosco niente di più materiale. Sono carne e sangue quei muretti, sono sudore, se non hai occhi attenti, mani sensibili, non li senti. Quando cammini per i campi li ascolti, ne senti l'odore, il sapore. Li devi toccare per capire. Patrimonio, patrimonio... dal pater... non bastava dirli immateriali, dovevano essere patrimonio immateriale. Dovevano essere spogliati della materia, privati della loro sostanza, messi in formalina, sotto spirito. Ecco, dovevano essere conservati sotto spirito. Lo spirito conserva la materia... Continua la guerra mossa da logos a mater. Esultiamo gente, i muretti a secco, mater(ia) che partorisce logos, diventano patrimonio immateriale. Logos si sostituisce a mater che lo genera... Logos dimentica di essere figlio di mater... "Vergine madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d'etterno consiglio, / tu se' colei che l'umana natura / nobilitasti sì, che 'l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura." Fattura? Macché fattura che poi tocca pagare le tasse, facciamo tutto in nero così paghi meno e siamo contenti entrambi...
Comunque sia, c'è da essere felici di questo riconoscimento, perché grazie a questo riconoscimento la mater(ia) dei muretti a secco può continuare a generare logos. Che almeno il figlio non dimentichi la madre.
"Concludiamone dunque che il mondo sarebbe assai migliore se ciascuno si accontentasse di quello che dice, senza aspettarsi che gli rispondano, e soprattutto senza chiederlo né desiderarlo." José Saramago
giovedì 29 novembre 2018
mercoledì 21 novembre 2018
Discorsi
- Simone de Beauvoir scriveva che donna non si nasce, si diventa.
- Già, lei pensava che era la società a forgiare quell'eunuco chiamato donna.
- Dici che è tutta qui la forza di quella affermazione?
- de Beauvoir è tra gli autori caleidoscopici, non si smette mai di leggerli. Tu cosa dici?
- Dico che quell'affermazione va letta insieme a quella dove dice che non sarebbe mai capitato a un uomo di scrivere un libro sulla situazione particolare di essere maschio.
- Quindi?
- Per un uomo è ovvio essere uomo, per una donna no. Una donna diventa donna perché assimila i ruoli che la società le ha cucito addosso.
- Non vedo dove sia la novità.
- Aspetta. Per la donna non si tratta di una banale assimilazione passiva. La donna vive nella carne una condizione di minorità che la costringe a porsi domande sulla propria condizione, sull'essere donna. Durante questo percorso va maturando la coscienza della propria identità. Non c'è niente di glorioso in questo, troppo spesso queste identità sono rimaste sepolte sotto la coltre delle identità preparate di volta in volta per la donna dalla società dei maschi. Questo determina frustrazione, disagio. Tuttavia quella condizione di minorità, la necessità di uscire da quella condizione di minorità ha fatto sì che la donna si interrogasse sul proprio divenire donna facendo esplodere quella tensione che si è andata accumulando tra le identità che ha costruito e la gabbia che le era stata preparata. Se leggiamo attentamente le sue parole de Beauvoir contrappone il nascere al divenire come si contrappone una condizione data a una condizione da costruire e, tra le righe, contrappone l'uomo alla donna. L'uomo non diventa nulla, l'uomo nasce uomo. La conseguenza di questo è che l'uomo non ha coscienza della propria identità, la vive come qualcosa di dato una volta per sempre.
- Mi sembra una lettura forzata.
- Forse lo è, ma lo dice lei stessa, un uomo non ha bisogno di scrivere un libro sul suo essere uomo. Essere un uomo è ovvio. E' la necessità di divenire donna che è al centro del discorso. Quello che sta al centro del discorso è la fatica di divenire qualcosa anziché di essere soltanto qualcosa.
- L'uomo non ci fa una bella figura.
- Potremmo andare oltre il tema e dire che il sesso non è rilevante. Quello che conta è essere o meno in una condizione di minorità, qualunque essa sia. Chi è in una condizione di dominanza si vive la sua bella condizione senza troppe domande, acquisisce un modello bello e pronto e, tornando al nostro tema, per sommo paradosso è proprio l'uomo che indossa un vestito che gli è stato cucito addosso, solo che è un vestito comodo che non lo fa interrogare su come sia stato cucito, quali stoffe siano state usate, invece la donna ha sempre indossato un vestito stretto, è ovvio che abbia voluto toglierselo di dosso e indossarne altri. Riconoscersi in una qualsiasi minorità è un fatto morale, è un fatto che ha rilevanza morale perché scatena interrogativi sulla propria condizione e comporta la responsabilità di realizzare un modello di identità che non è scontato, non è precostituito. E' una responsabilità di fronte a sé stessi e di fronte alla storia. Chi indossa un abito preconfezionato non si pone questi problemi.
- E' faticoso essere donna.
- Lo è. E' faticoso diventare qualcosa. E' questo dover continuamente diventare che dobbiamo salvare. Uscire dalla condizione di minorità è necessario ma ha qualcosa di insidioso.
- Cosa?
- Il rischio di non dover più diventare. Cosa saremo quando non dovremo più diventare donne? Se un giorno, spero non lontano, dovessimo scoprire che donna si nasce allora saremmo come l'uomo di cui parla de Beauvoir o forse peggio per quell'insana tendenza a superare il proprio tiranno per piacergli. Noi non dobbiamo smettere di diventare quello che siamo. Quando si esce da una condizione di minorità il rischio è dimenticare le domande che ci fanno essere quello che siamo, il rischio è dare per scontate identità che non abbiamo costruito con la nostra fatica.
- Insomma stai dicendo che dobbiamo rimanere in condizioni di minorità.
- No, non fraintendermi. Sto dicendo che uscire dalle minorità è necessario ma non rappresenta la fine di un percorso di emancipazione. Questo vale per qualsiasi minorità. Il nostro lavoro non sarà mai finito, non potrà mai finire. Non dobbiamo mai smettere di diventare quello che siamo e dobbiamo insegnare agli uomini come smettere i loro abiti, come smettere di nascere uomini per diventarlo, finalmente.
- Già, lei pensava che era la società a forgiare quell'eunuco chiamato donna.
- Dici che è tutta qui la forza di quella affermazione?
- de Beauvoir è tra gli autori caleidoscopici, non si smette mai di leggerli. Tu cosa dici?
- Dico che quell'affermazione va letta insieme a quella dove dice che non sarebbe mai capitato a un uomo di scrivere un libro sulla situazione particolare di essere maschio.
- Quindi?
- Per un uomo è ovvio essere uomo, per una donna no. Una donna diventa donna perché assimila i ruoli che la società le ha cucito addosso.
- Non vedo dove sia la novità.
- Aspetta. Per la donna non si tratta di una banale assimilazione passiva. La donna vive nella carne una condizione di minorità che la costringe a porsi domande sulla propria condizione, sull'essere donna. Durante questo percorso va maturando la coscienza della propria identità. Non c'è niente di glorioso in questo, troppo spesso queste identità sono rimaste sepolte sotto la coltre delle identità preparate di volta in volta per la donna dalla società dei maschi. Questo determina frustrazione, disagio. Tuttavia quella condizione di minorità, la necessità di uscire da quella condizione di minorità ha fatto sì che la donna si interrogasse sul proprio divenire donna facendo esplodere quella tensione che si è andata accumulando tra le identità che ha costruito e la gabbia che le era stata preparata. Se leggiamo attentamente le sue parole de Beauvoir contrappone il nascere al divenire come si contrappone una condizione data a una condizione da costruire e, tra le righe, contrappone l'uomo alla donna. L'uomo non diventa nulla, l'uomo nasce uomo. La conseguenza di questo è che l'uomo non ha coscienza della propria identità, la vive come qualcosa di dato una volta per sempre.
- Mi sembra una lettura forzata.
- Forse lo è, ma lo dice lei stessa, un uomo non ha bisogno di scrivere un libro sul suo essere uomo. Essere un uomo è ovvio. E' la necessità di divenire donna che è al centro del discorso. Quello che sta al centro del discorso è la fatica di divenire qualcosa anziché di essere soltanto qualcosa.
- L'uomo non ci fa una bella figura.
- Potremmo andare oltre il tema e dire che il sesso non è rilevante. Quello che conta è essere o meno in una condizione di minorità, qualunque essa sia. Chi è in una condizione di dominanza si vive la sua bella condizione senza troppe domande, acquisisce un modello bello e pronto e, tornando al nostro tema, per sommo paradosso è proprio l'uomo che indossa un vestito che gli è stato cucito addosso, solo che è un vestito comodo che non lo fa interrogare su come sia stato cucito, quali stoffe siano state usate, invece la donna ha sempre indossato un vestito stretto, è ovvio che abbia voluto toglierselo di dosso e indossarne altri. Riconoscersi in una qualsiasi minorità è un fatto morale, è un fatto che ha rilevanza morale perché scatena interrogativi sulla propria condizione e comporta la responsabilità di realizzare un modello di identità che non è scontato, non è precostituito. E' una responsabilità di fronte a sé stessi e di fronte alla storia. Chi indossa un abito preconfezionato non si pone questi problemi.
- E' faticoso essere donna.
- Lo è. E' faticoso diventare qualcosa. E' questo dover continuamente diventare che dobbiamo salvare. Uscire dalla condizione di minorità è necessario ma ha qualcosa di insidioso.
- Cosa?
- Il rischio di non dover più diventare. Cosa saremo quando non dovremo più diventare donne? Se un giorno, spero non lontano, dovessimo scoprire che donna si nasce allora saremmo come l'uomo di cui parla de Beauvoir o forse peggio per quell'insana tendenza a superare il proprio tiranno per piacergli. Noi non dobbiamo smettere di diventare quello che siamo. Quando si esce da una condizione di minorità il rischio è dimenticare le domande che ci fanno essere quello che siamo, il rischio è dare per scontate identità che non abbiamo costruito con la nostra fatica.
- Insomma stai dicendo che dobbiamo rimanere in condizioni di minorità.
- No, non fraintendermi. Sto dicendo che uscire dalle minorità è necessario ma non rappresenta la fine di un percorso di emancipazione. Questo vale per qualsiasi minorità. Il nostro lavoro non sarà mai finito, non potrà mai finire. Non dobbiamo mai smettere di diventare quello che siamo e dobbiamo insegnare agli uomini come smettere i loro abiti, come smettere di nascere uomini per diventarlo, finalmente.
mercoledì 14 novembre 2018
Sacra bestemmia
Luciano - «Tenebrosi pensieri, mani pronte, succhi efficaci, ora propizia, stagione seconda, e nessuno per vederlo. Tu, negra mistura, spremuta a mezzanotte o da erbe selvatiche, tre volte maledette da Ecate, tre volte infette; tu, magica pozione, somministrata dalla natura, che tanta terribile forza possiedi, spegni immediatamente questa florida vita.» (Versa il veleno in un orecchio dell’addormentato)
Amleto - Ei lo avvelena nel giardino per carpirgli il dominio. Ha nome Gonzago; la storia esiste ancora scritta in buon italiano. Vedrete fra poco come l’uccisore si acquista l’amore della moglie di Gonzago.
Ofelia - Il re si alza.
Amleto - Che! atterrito da un fuoco falso!
Regina - Che avete, signore?
Polonio - Sospendete la rappresentazione.
Re - Fate lume... andiamo!
Tutti - Lumi! lumi! lumi! (Tutti escono, fuori di Amleto e di Orazio.)
William Shakespeare - Amleto - Atto III - Scena II - Traduzione di Carlo Rusconi (1901)
Infiorata a Spello, i gigli a Nola, Madonna della Bruna a Matera. Questi tre eventi hanno una cosa in comune, al termine della festa le grandiose opere realizzate con ossessiva cura vengono distrutte, a volte selvaggiamente depredate dalla furia della gente che si scaglia sull'opera. Ho assistito all'infiorata di Spello e ne scrissi tempo fa ma c'era qualcosa che mi sfuggiva. Nelle manifestazioni sacre e devozionali in cui si distrugge l'opera che si edifica con certosina dedizione c'è qualcosa della rabbia popolare che mette in scena quanto accade all'opera-vita di ciascuno. Per anni si costruisce con cura e fatica una vita perché venga oltraggiata da sofferenza e morte. Nel momento della distruzione dell'opera, in quell'esatto momento, si mostra a Dio cosa accade alle nostre vite al termine di quello che a occhi disattenti può sembrare una festa. In quel momento si mostra a Dio di cosa è capace la sua onnipotenza.
Secondo altri filoni interpretativi queste manifestazioni evocano la distruzione che propizia la rinascita, oppure catalizzano la violenza della collettività sull'oggetto feticcio. Reminiscenze di riti sacrificali antichi, quando si offriva al Dio una vita per saziare la sua fame e risparmiare altre vite. Un agnello sgozzato, un montone bruciato. Una vita per risparmiare vite. Riti crudeli? Sì, certo. Riti che rispecchiano la crudeltà del Dio che si vuole placare. Poi in offerta si dà l'opera, l'impegno per realizzare un simulacro di vita ma queste letture non bastano, non sono sufficienti. Ci sono altre letture possibili, sottese, coesistenti.
La mia lettura pone Dio nel ruolo del Re di Shakespeare nell'Amleto. Come può Dio reggere la rappresentazione di quello scempio? E' una messa in scena, come quella che Amleto concepisce per rivelare il crimine dello zio. Il re non regge la rappresentazione, fugge via. E' questa la forza drammatica della tragedia barocca, mette in scena una bestemmia con i paramenti della preghiera.
Amleto - Ei lo avvelena nel giardino per carpirgli il dominio. Ha nome Gonzago; la storia esiste ancora scritta in buon italiano. Vedrete fra poco come l’uccisore si acquista l’amore della moglie di Gonzago.
Ofelia - Il re si alza.
Amleto - Che! atterrito da un fuoco falso!
Regina - Che avete, signore?
Polonio - Sospendete la rappresentazione.
Re - Fate lume... andiamo!
Tutti - Lumi! lumi! lumi! (Tutti escono, fuori di Amleto e di Orazio.)
William Shakespeare - Amleto - Atto III - Scena II - Traduzione di Carlo Rusconi (1901)
Infiorata a Spello, i gigli a Nola, Madonna della Bruna a Matera. Questi tre eventi hanno una cosa in comune, al termine della festa le grandiose opere realizzate con ossessiva cura vengono distrutte, a volte selvaggiamente depredate dalla furia della gente che si scaglia sull'opera. Ho assistito all'infiorata di Spello e ne scrissi tempo fa ma c'era qualcosa che mi sfuggiva. Nelle manifestazioni sacre e devozionali in cui si distrugge l'opera che si edifica con certosina dedizione c'è qualcosa della rabbia popolare che mette in scena quanto accade all'opera-vita di ciascuno. Per anni si costruisce con cura e fatica una vita perché venga oltraggiata da sofferenza e morte. Nel momento della distruzione dell'opera, in quell'esatto momento, si mostra a Dio cosa accade alle nostre vite al termine di quello che a occhi disattenti può sembrare una festa. In quel momento si mostra a Dio di cosa è capace la sua onnipotenza.
Secondo altri filoni interpretativi queste manifestazioni evocano la distruzione che propizia la rinascita, oppure catalizzano la violenza della collettività sull'oggetto feticcio. Reminiscenze di riti sacrificali antichi, quando si offriva al Dio una vita per saziare la sua fame e risparmiare altre vite. Un agnello sgozzato, un montone bruciato. Una vita per risparmiare vite. Riti crudeli? Sì, certo. Riti che rispecchiano la crudeltà del Dio che si vuole placare. Poi in offerta si dà l'opera, l'impegno per realizzare un simulacro di vita ma queste letture non bastano, non sono sufficienti. Ci sono altre letture possibili, sottese, coesistenti.
La mia lettura pone Dio nel ruolo del Re di Shakespeare nell'Amleto. Come può Dio reggere la rappresentazione di quello scempio? E' una messa in scena, come quella che Amleto concepisce per rivelare il crimine dello zio. Il re non regge la rappresentazione, fugge via. E' questa la forza drammatica della tragedia barocca, mette in scena una bestemmia con i paramenti della preghiera.
lunedì 12 novembre 2018
Cerco parole
Cerco parole, come il minatore pepite, l'archeologo segni di civiltà sepolte, parole calde e antiche, parole che hanno un volto, parole da assaporare pronunciandole quando chiedo indicazioni per la strada che ho perduto, parole mendico come un barbone all'ingresso di una chiesa dove la gente viene a fare spesa di salvezza, parole per comprare illusioni scontate, cerco parole usate, parole dimenticate nelle cantine umide, parole che si trovano solo quando dobbiamo traslocare, dopo aver sollevato pacchi pesanti colmi di niente, parole perdute da anni nelle pieghe dei vestiti, tra i solchi delle mani, tra le pagine dei libri a ingiallire vecchie foto, cerco parole che impetrano, rovesciano clessidre e accendono candele, parole da piegare nelle valigie leggere da portare nei lunghi viaggi, parole che scaldano le mani e impastano l'anima come impasto del pane, parole che danno forma al buio, a volte pesanti come piombo, a volte leggere come bolle di sapone, cerco parole colata di ferro fuso per il calco di una voce che di notte cantava canzoni napoletane per cullare il tempo. Che fai Rosalba, canti? Eh sì, sennò questo tempo non passa mai...
sabato 10 novembre 2018
Vorrei essere queste nuvole
Vorrei essere queste nuvole, guardare la città invecchiare con le sue case antiche e quelle nuove, le strade che nascono come rughe e la gente che si muove, chi nasce, chi muore, chi si giura amore per sempre facendo sorridere il sole, chi non vede la rovina che lontano si prepara. Vorrei essere nuvola che il sole dirada e non sapere che dopotutto non sono altro.
venerdì 9 novembre 2018
La casa
La casa giaceva come giace la carcassa di un animale in decomposizione, con le costole scoperte e i pochi lacerti di carne ai fianchi che attendono il lento lavoro del sole e del vento con la rassegnata pazienza che è dei morti.
giovedì 8 novembre 2018
La luce dorata del tramonto
La luce dorata del tramonto entrava nella stanza disabitata da anni, confidando nella serena stanchezza del giorno per conquistare la complicità degli scuri provati dalle intemperie che le numerose stagioni avevano inciso sul legno. I segreti un tempo custoditi dalle stanze non valevano più la resistenza delle finestre che lasciavano ormai passare i raggi del sole come una città inespugnata da secoli lascia infine passare un esercito invasore che dopo ripetuti assalti ha fiaccato le difese di abitazioni esauste di vita e di tesori da razziare.
mercoledì 7 novembre 2018
Ci fu un tempo
Ci fu un tempo che qui si coltivavano pietre, tutte le stagioni c'era un buon raccolto da donare alle nuove generazioni. Le pietre crescevano in robuste architravi e spessi muri, reggevano varchi e tetti di ripari e case contadine. Ogni pietra era posata con la dedizione del rito, perché una pietra messa male poteva guastare il tempo, incrinare l'equilibrio. Ci fu un tempo che qui si coltivava tempo.
lunedì 5 novembre 2018
Qui, tra viti stanche
Qui, tra viti stanche e ulivi morenti,
le ombre sono solidi corpi di terra e pane,
noi, scolari disattenti, impariamo a passare
dall'altra parte della notte,
il cuore alleniamo e le braccia
a reggere assenza pesante
e cielo di pietra.
Di tanta vita da non contenerla
resta il silenzio tra i rintocchi di una amata pendola
che oscilla come si va da una stanza all'altra
a cercare chi è sempre altrove.
le ombre sono solidi corpi di terra e pane,
noi, scolari disattenti, impariamo a passare
dall'altra parte della notte,
il cuore alleniamo e le braccia
a reggere assenza pesante
e cielo di pietra.
Di tanta vita da non contenerla
resta il silenzio tra i rintocchi di una amata pendola
che oscilla come si va da una stanza all'altra
a cercare chi è sempre altrove.
domenica 4 novembre 2018
Mi era rimasto niente tra le mani
Mi era rimasto niente tra le mani ed era ancora tutto. Quando il tramonto rosseggiava e l'eco dell'ultimo canto notturno non era spento la voce ci faceva compagnia nel deserto di attesa. Il vento soffiava sabbia negli occhi e giorni ruvidi di carta vetrata. Ci preparavamo per indossare la nuova pelle, tu coprivi ferite e lividi, io imparavo l'arte di saperti altrove. Il mondo continua a girare, le stelle brillano ancora a oscena distanza, fermenta il vino nelle botti, l'acqua delle cascate bagna sempre il tuo sogno segreto... non farti rapire questa notte, ricorda di venire a trovarmi.
sabato 3 novembre 2018
La cattura del gatto [Note (80)]
“Qui, in questo supremo pericolo della volontà, si avvicina, come maga che salva e risana, l’arte; soltanto essa può piegare quei pensieri nauseati per l’orrore o l’assurdità dell’esistenza in rappresentazioni con cui si possa vivere: queste sono il sublime, come addomesticamento artistico dell’orrore, e il comico come sfogo artistico del disgusto per l’assurdo. Il coro dei Satiri del ditirambo è l’azione salvatrice dell’arte greca; quelle esaltazioni poc’anzi descritte si esaurirono nel mondo intermedio di questi compagni di Dioniso.” (La nascita della tragedia, F.W. Nietzsche, §sez. 7).
Il sublime e il comico come rappresentazioni speculari eppure distinte dello stesso orrore, l’uomo greco non può farne a meno per fare fronte all’assenza di senso che pure non può restare tale a lungo, così il coro traccia uno spazio virtuale e temporaneo dove delimita i confini del senso. Il senso è l’ancoraggio, temporaneo e irrinunciabile, per non essere travolti dall’assurdo. Ma il senso ha sempre almeno due facce che si specchiano l’una nell’altra, destino contro volontà, leggi della tradizione contro leggi del divenire. Fuori dal coro lo stupore atterrito della maschera si specchia nello stupore meravigliato del filosofo. La tragedia greca, come la politica di Platone nasce dall’abbandono degli dèi e dalla necessità di riempire il vuoto che hanno lasciato. Se mai si è avuta questa consapevolezza era ovvio immaginare questo momento come la nascita dello spirito tragico, uno spirito inorridito di fronte all’insoluto e all’insolubile che tuttavia sfida quell’insolubile facendolo specchiare nell’immagine della sua rappresentazione, contando nella pietrificazione che assicurò a Perseo la salvezza dalla Gorgone.
Oggi siamo di fronte ad una colossale sfida per l’estetica. La sfida potrebbe per certi versi presentarsi come un torpore dei sensi, una sorta di anestesia ma in realtà si stanno riscrivendo i parametri dell’estetica, si sta fondando una nuova estetica. Il sublime e il comico hanno smesso di specchiarsi l’uno nell’altro riconoscendosi quali rappresentazioni distinte della stessa insensatezza. Questo discorso eternamente inconcludente è stato soppiantato dal progressivo incontro della realtà con il patetico e il ridicolo che non si pongono più come rappresentazioni distinte bensì come identificazioni della stessa realtà. Allora non si pone più confine tra la realtà e le sue rappresentazioni, né alcuna linea immaginaria permette di distinguere il patetico dal ridicolo.
Il sublime e il comico come rappresentazioni speculari eppure distinte dello stesso orrore, l’uomo greco non può farne a meno per fare fronte all’assenza di senso che pure non può restare tale a lungo, così il coro traccia uno spazio virtuale e temporaneo dove delimita i confini del senso. Il senso è l’ancoraggio, temporaneo e irrinunciabile, per non essere travolti dall’assurdo. Ma il senso ha sempre almeno due facce che si specchiano l’una nell’altra, destino contro volontà, leggi della tradizione contro leggi del divenire. Fuori dal coro lo stupore atterrito della maschera si specchia nello stupore meravigliato del filosofo. La tragedia greca, come la politica di Platone nasce dall’abbandono degli dèi e dalla necessità di riempire il vuoto che hanno lasciato. Se mai si è avuta questa consapevolezza era ovvio immaginare questo momento come la nascita dello spirito tragico, uno spirito inorridito di fronte all’insoluto e all’insolubile che tuttavia sfida quell’insolubile facendolo specchiare nell’immagine della sua rappresentazione, contando nella pietrificazione che assicurò a Perseo la salvezza dalla Gorgone.
Oggi siamo di fronte ad una colossale sfida per l’estetica. La sfida potrebbe per certi versi presentarsi come un torpore dei sensi, una sorta di anestesia ma in realtà si stanno riscrivendo i parametri dell’estetica, si sta fondando una nuova estetica. Il sublime e il comico hanno smesso di specchiarsi l’uno nell’altro riconoscendosi quali rappresentazioni distinte della stessa insensatezza. Questo discorso eternamente inconcludente è stato soppiantato dal progressivo incontro della realtà con il patetico e il ridicolo che non si pongono più come rappresentazioni distinte bensì come identificazioni della stessa realtà. Allora non si pone più confine tra la realtà e le sue rappresentazioni, né alcuna linea immaginaria permette di distinguere il patetico dal ridicolo.
venerdì 2 novembre 2018
La cattura del gatto [Note (79)]
“Il Dio, cui i visnuiti e i sivaiti si rivolgono con amante dedizione, non è neppure un giudice. Questa è forse la differenza più macroscopica rispetto al giudaismo, al cristianesimo e all’islamismo. […] Nell’ottica della teologia monistica un giudizio sarebbe assurdo; se infatti l’uomo è parte dell’assoluto, quindi parte di Dio, e se, in secondo luogo, il mondo è un gioco di Dio e, inoltre, Dio è onnipotente, allora un tale giudizio non potrebbe che risolversi in un’autocondanna di Dio, sarebbe come se egli cercasse di scaricare i propri errori su un capro espiatorio.”[1]
Nello spazio tra Dio e mondo si è insinuata, fin dalle origini del pensiero occidentale, l’aporia che non poteva essere risolta e che ha dato inizio alla secolarizzazione. Già Platone nel Politico non poteva che prendere atto della scissione operata e riconoscere che la politica è necessaria agli uomini perché abbandonati dagli dèi. E tuttavia credo che nella necessaria assunzione di responsabilità dell’uomo, che ritroviamo nella successiva tradizione religiosa di matrice paolina, si celi un principio di libertà che non poteva esprimersi se non separando Dio e mondo, dando origine così a quell’aporia creativa che conteneva in sé il seme della modernità.
La tradizione religiosa occidentale di matrice giudaico-cristiana, ha affrontato l’aporia che il monismo induista non conosce, l’ha affrontata e, come è ovvio, non l’ha risolta, ma da questa lotta è nata la società secolarizzata. Nella tradizione islamica la lotta non è stata così radicale perché il contesto giuridico non è mai stato autonomo da quello religioso.
Prendo in prestito i pensieri di un costituzionalista cattolico come Ernst-Wolfgang Böckenförde, “lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso non può garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà”[2]. In nome della libertà si è rinunciato alla fondabilità esterna al contesto in cui si applica. Una libertà autentica non poteva né doveva accettare fondamenti che non fossero interni al discorso della fondabilità, e quindi sempre suscettibile di rivisitazione. Forse il motivo per cui la scienza nasce in occidente è da cercare anche nel coraggio di non evitare le aporie. L’aporia originaria dell’occidente si insinuava tra la volontà di mantenere la libertà dell’uomo e l’onnipotenza divina, questa possibilità diventava sempre meno sostenibile in un tempo che non era più ciclico, in una vita che non dava più possibilità di reincarnazione.
In quello spazio nasce il nichilismo che Nietzsche ha svelato e Heidegger ha riconosciuto fin dalle origini del pensiero occidentale, quando dalla visione monistica parmenidea ebbe luogo la grande scissione tra Dio e mondo[3]. Un nichilismo che è solo banale negazione dei valori per i pensatori della domenica mattina e vincolo di responsabilità per i pensatori[4].
[1] H. von Stietencron, Mondo e divinità: concezioni degli indù. In: Hans Küng, Josef van Ess, Heinrich von Stietencron, Heinz Bechert, Cristianesimo e religioni universali. Introduzione al dialogo con islamismo, induismo e buddhismo. Mondadori, 1986, p. 235.
[2] Cit. in G. Zagrebelsky, Contro l’etica della verità. Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 10-11.
[3] U. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente….
[4] G. Vattimo, Oltre l’interpretazione….
Nello spazio tra Dio e mondo si è insinuata, fin dalle origini del pensiero occidentale, l’aporia che non poteva essere risolta e che ha dato inizio alla secolarizzazione. Già Platone nel Politico non poteva che prendere atto della scissione operata e riconoscere che la politica è necessaria agli uomini perché abbandonati dagli dèi. E tuttavia credo che nella necessaria assunzione di responsabilità dell’uomo, che ritroviamo nella successiva tradizione religiosa di matrice paolina, si celi un principio di libertà che non poteva esprimersi se non separando Dio e mondo, dando origine così a quell’aporia creativa che conteneva in sé il seme della modernità.
La tradizione religiosa occidentale di matrice giudaico-cristiana, ha affrontato l’aporia che il monismo induista non conosce, l’ha affrontata e, come è ovvio, non l’ha risolta, ma da questa lotta è nata la società secolarizzata. Nella tradizione islamica la lotta non è stata così radicale perché il contesto giuridico non è mai stato autonomo da quello religioso.
Prendo in prestito i pensieri di un costituzionalista cattolico come Ernst-Wolfgang Böckenförde, “lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso non può garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà”[2]. In nome della libertà si è rinunciato alla fondabilità esterna al contesto in cui si applica. Una libertà autentica non poteva né doveva accettare fondamenti che non fossero interni al discorso della fondabilità, e quindi sempre suscettibile di rivisitazione. Forse il motivo per cui la scienza nasce in occidente è da cercare anche nel coraggio di non evitare le aporie. L’aporia originaria dell’occidente si insinuava tra la volontà di mantenere la libertà dell’uomo e l’onnipotenza divina, questa possibilità diventava sempre meno sostenibile in un tempo che non era più ciclico, in una vita che non dava più possibilità di reincarnazione.
In quello spazio nasce il nichilismo che Nietzsche ha svelato e Heidegger ha riconosciuto fin dalle origini del pensiero occidentale, quando dalla visione monistica parmenidea ebbe luogo la grande scissione tra Dio e mondo[3]. Un nichilismo che è solo banale negazione dei valori per i pensatori della domenica mattina e vincolo di responsabilità per i pensatori[4].
[1] H. von Stietencron, Mondo e divinità: concezioni degli indù. In: Hans Küng, Josef van Ess, Heinrich von Stietencron, Heinz Bechert, Cristianesimo e religioni universali. Introduzione al dialogo con islamismo, induismo e buddhismo. Mondadori, 1986, p. 235.
[2] Cit. in G. Zagrebelsky, Contro l’etica della verità. Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 10-11.
[3] U. Galimberti, Il tramonto dell’Occidente….
[4] G. Vattimo, Oltre l’interpretazione….
giovedì 1 novembre 2018
La cattura del gatto [Note (78)]
Vladimir Luxuria vince l’isola dei famosi, qualcuno grida allo scandalo, qualcuno proclama il trionfo sui pregiudizi. Dell’una e dell’altra posizione la cosa imbarazzante e vera è che i mutamenti della nostra ‘modernità’, siano essi conquiste o degenerazioni, passano anche attraverso un reality show. La mia pessimistica perplessità è se ormai passino solo attraverso un reality show.
Il problema di tutte le ipostasi di Dio, la Natura, la Ragione, la Storia, il Destino, lo stesso Dio, ce lo ha insegnato Karl Popper a proposito del metodo scientifico. Non è la loro dimostrabilità o la loro verificabilità, giacché ognuna di esse può essere dimostrata vera in una qualunque circostanza dato un lasso temporale sufficiente, ma è proprio la loro sottrazione alla falsificazione. Questo non è qualcosa di speculare alla verificabilità, come potrebbe sembrare a una lettura superficiale ma è qualcosa di completamente differente poiché la verificabilità, la non verificabilità e la falsificabilità di una qualunque visione della realtà sono comunque categorie che si sottopongono al confronto, al dialogo, mentre la non falsificabilità vi si sottrae. Data la nostra capacità di percepire e conoscere rilevando i contrasti spaziali e temporali di ciò che osserviamo, il problema, anche di ordine epistemologico, delle spiegazioni non falsificabili è gettare un manto di omogeneità sull’epistéme che impedisce ogni forma di autentico movimento della conoscenza, che di fatto non si muove dalle stesse premesse che hanno dato origine a una spiegazione non falsificabile.
Oggi, attraverso un banale apparecchio televisivo, un computer o un telefonino, ognuno può vivere esperienze che un tempo erano inimmaginabili, può raggiungere luoghi un tempo lontanissimi. La vita perde la sua corporalità e valica i confini dimensionali della nostra psiche, ci rende virtualmente ubiquitari moltiplicando la nostra presenza. Le esperienze si moltiplicano e scorrono troppo veloci perché qualcosa lasci traccia nei nostri vecchi apparati emotivi. Le tragedie sono solo elettroni che proiettano immagini su uno schermo, nessun autentico dolore è più possibile, l’unica pena del contrappasso permesso resta qualche attacco d’ansia e passeggere sindromi di panico. Il vero dolore distrarrebbe dalla pubblicità che avvolge ogni evento!
Arnold Gehlen sosteneva che l’uomo è un animale culturale, in altre parole l’uomo non può sottrarsi al vivere il contesto naturale attraverso il filtro della sua stessa cultura. La natura dell’uomo è la sua cultura e la natura per l’uomo è un fatto culturale. Tuttavia appare evidente che ciò, più che un dato di fatto, costituisca lo sforzo dell’uomo, ossia far rimanere la natura un fatto culturale (e la cultura un fatto naturale) e non diventi invece qualcosa che sta al di là della cultura. La cultura trascende i limiti naturali, su questo possiamo essere d’accordo, ma in essi si inscrive e in essi trova i suoi vincoli. Trascendere non è travalicare ma è lanciare lo sguardo oltre i confini del dato senza perderne memoria.
E’ facile osservare come nei bambini e negli adolescenti sorga la necessità di possedere oggetti perché non soffrano complessi di inferiorità nei confronti dei loro coetanei. In effetti si tratta spesso di un desiderio che si innesca per imitazione. Hegel ci ha insegnato quale sia il valore del possesso al fine del riconoscimento sociale, ma se il bambino ricorre agli oggetti, l’adulto una volta individuatosi si presume sappia ricorrere soprattutto a beni non alienabili.
La società attuale è composta prevalentemente da bambini che non diventano adulti. La crescita economica ha visto tra i suoi “effetti collaterali” il degrado ambientale e relazionale “compensati” dalla disponibilità materiale. Sono in molti a sostenere o a sperare che le crisi economiche siano un fattore determinante per il cambiamento nei nostri stili di vita, le speranze si reggono sull’assunto che la compensazione non funziona più. Da parte mia ho il sospetto che la compensazione funziona ancora e che il massimo che possa accadere è un pianto corale che durerà poco. Il tempo di superare la crisi, come ogni altro animale non sapiens!
Consumate gente! In tempi di crisi, determinata in fin dei conti dal consumo senza bisogno e senza regole, il consumo ci salverà. Se non basta la liquidità c’è sempre il credito, lo stesso che, una volta rovesciato nella sua immagine speculare, ha determinato la crisi. Qualcuno potrebbe essere perplesso, ma si tratta di banale omeopatia economica! Come facciamo a non capirla?
Eppure c’è qualcosa di assurdamente oggettivo nell’esortazione al consumo, un’oggettività generata ad hoc proprio per non svelare la sua assurdità. Una sorta di verità sociale che abbiamo contribuito, volente o nolente a costruire. Se non consumiamo, leggi «compriamo più di quanto ci serve perché una parte sia “funzionalmente” gettata via», le aziende non producono per cui non avranno bisogno dei lavoratori, che saranno licenziati o messi in cassa integrazione. In questo modo i lavoratori diventano strumenti in mano di pochi che per continuare a guadagnare grandi somme dandone via briciole, generano un contesto di verità in cui i lavoratori non possono fare altro che desiderare il consumo che li consuma.
Questa, in sintesi, è l’oggettività del consumo che risolve i problemi del consumo!
“Che Carlo Martello fermasse a Tours e Poiters un distaccamento arabo viene registrato con soddisfazione soltanto nei testi scolastici europei; nelle fonti arabe non si dice nulla al riguardo, si era perduta da tempo la visione d’insieme. Anche le crociate furono per i musulmani avvenimenti locali in una regione che anche senza di esse era dilaniata dalle guerre dei piccoli principi; per lungo tempo non si conobbe un’atmosfera da guerra di religione ed esse diventarono un simbolo solo quando nel nostro secolo gli arabi scoprirono i paralleli con il colonialismo europeo e con la politica israeliana di espansione.”
Senza ombra di dubbio lo Spirito della Storia sceglie i posti e i tempi dove manifestarsi, basta aspettare, mettere in moto qualche pensatore occidentale e un’accozzaglia di eventi vengono cuciti dal filo della Ragione!
***
Il problema di tutte le ipostasi di Dio, la Natura, la Ragione, la Storia, il Destino, lo stesso Dio, ce lo ha insegnato Karl Popper a proposito del metodo scientifico. Non è la loro dimostrabilità o la loro verificabilità, giacché ognuna di esse può essere dimostrata vera in una qualunque circostanza dato un lasso temporale sufficiente, ma è proprio la loro sottrazione alla falsificazione. Questo non è qualcosa di speculare alla verificabilità, come potrebbe sembrare a una lettura superficiale ma è qualcosa di completamente differente poiché la verificabilità, la non verificabilità e la falsificabilità di una qualunque visione della realtà sono comunque categorie che si sottopongono al confronto, al dialogo, mentre la non falsificabilità vi si sottrae. Data la nostra capacità di percepire e conoscere rilevando i contrasti spaziali e temporali di ciò che osserviamo, il problema, anche di ordine epistemologico, delle spiegazioni non falsificabili è gettare un manto di omogeneità sull’epistéme che impedisce ogni forma di autentico movimento della conoscenza, che di fatto non si muove dalle stesse premesse che hanno dato origine a una spiegazione non falsificabile.
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Oggi, attraverso un banale apparecchio televisivo, un computer o un telefonino, ognuno può vivere esperienze che un tempo erano inimmaginabili, può raggiungere luoghi un tempo lontanissimi. La vita perde la sua corporalità e valica i confini dimensionali della nostra psiche, ci rende virtualmente ubiquitari moltiplicando la nostra presenza. Le esperienze si moltiplicano e scorrono troppo veloci perché qualcosa lasci traccia nei nostri vecchi apparati emotivi. Le tragedie sono solo elettroni che proiettano immagini su uno schermo, nessun autentico dolore è più possibile, l’unica pena del contrappasso permesso resta qualche attacco d’ansia e passeggere sindromi di panico. Il vero dolore distrarrebbe dalla pubblicità che avvolge ogni evento!
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Arnold Gehlen sosteneva che l’uomo è un animale culturale, in altre parole l’uomo non può sottrarsi al vivere il contesto naturale attraverso il filtro della sua stessa cultura. La natura dell’uomo è la sua cultura e la natura per l’uomo è un fatto culturale. Tuttavia appare evidente che ciò, più che un dato di fatto, costituisca lo sforzo dell’uomo, ossia far rimanere la natura un fatto culturale (e la cultura un fatto naturale) e non diventi invece qualcosa che sta al di là della cultura. La cultura trascende i limiti naturali, su questo possiamo essere d’accordo, ma in essi si inscrive e in essi trova i suoi vincoli. Trascendere non è travalicare ma è lanciare lo sguardo oltre i confini del dato senza perderne memoria.
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E’ facile osservare come nei bambini e negli adolescenti sorga la necessità di possedere oggetti perché non soffrano complessi di inferiorità nei confronti dei loro coetanei. In effetti si tratta spesso di un desiderio che si innesca per imitazione. Hegel ci ha insegnato quale sia il valore del possesso al fine del riconoscimento sociale, ma se il bambino ricorre agli oggetti, l’adulto una volta individuatosi si presume sappia ricorrere soprattutto a beni non alienabili.
La società attuale è composta prevalentemente da bambini che non diventano adulti. La crescita economica ha visto tra i suoi “effetti collaterali” il degrado ambientale e relazionale “compensati” dalla disponibilità materiale. Sono in molti a sostenere o a sperare che le crisi economiche siano un fattore determinante per il cambiamento nei nostri stili di vita, le speranze si reggono sull’assunto che la compensazione non funziona più. Da parte mia ho il sospetto che la compensazione funziona ancora e che il massimo che possa accadere è un pianto corale che durerà poco. Il tempo di superare la crisi, come ogni altro animale non sapiens!
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Consumate gente! In tempi di crisi, determinata in fin dei conti dal consumo senza bisogno e senza regole, il consumo ci salverà. Se non basta la liquidità c’è sempre il credito, lo stesso che, una volta rovesciato nella sua immagine speculare, ha determinato la crisi. Qualcuno potrebbe essere perplesso, ma si tratta di banale omeopatia economica! Come facciamo a non capirla?
Eppure c’è qualcosa di assurdamente oggettivo nell’esortazione al consumo, un’oggettività generata ad hoc proprio per non svelare la sua assurdità. Una sorta di verità sociale che abbiamo contribuito, volente o nolente a costruire. Se non consumiamo, leggi «compriamo più di quanto ci serve perché una parte sia “funzionalmente” gettata via», le aziende non producono per cui non avranno bisogno dei lavoratori, che saranno licenziati o messi in cassa integrazione. In questo modo i lavoratori diventano strumenti in mano di pochi che per continuare a guadagnare grandi somme dandone via briciole, generano un contesto di verità in cui i lavoratori non possono fare altro che desiderare il consumo che li consuma.
Questa, in sintesi, è l’oggettività del consumo che risolve i problemi del consumo!
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“Che Carlo Martello fermasse a Tours e Poiters un distaccamento arabo viene registrato con soddisfazione soltanto nei testi scolastici europei; nelle fonti arabe non si dice nulla al riguardo, si era perduta da tempo la visione d’insieme. Anche le crociate furono per i musulmani avvenimenti locali in una regione che anche senza di esse era dilaniata dalle guerre dei piccoli principi; per lungo tempo non si conobbe un’atmosfera da guerra di religione ed esse diventarono un simbolo solo quando nel nostro secolo gli arabi scoprirono i paralleli con il colonialismo europeo e con la politica israeliana di espansione.”
Senza ombra di dubbio lo Spirito della Storia sceglie i posti e i tempi dove manifestarsi, basta aspettare, mettere in moto qualche pensatore occidentale e un’accozzaglia di eventi vengono cuciti dal filo della Ragione!
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