Se l’uomo sia da considerare animale definitivamente post-istintuale è materia aperta, nonostante gran parte delle spiegazioni dell’antropologia filosofica propendano per una certezza troppo frettolosa. Anche in un quadro interpretativo di post-istintualità è difficile non scorgere le analogie tra comportamenti istintivi animali e comportamenti rituali umani. Considerando la prevalenza culturale della prassi rituale rispetto al comportamento istintivo, si tratta solo di analogie, ma pur evitando di azzardare possibili omologie filogenetiche dei moduli comportamentali ciò è sufficiente per stimolare un simpatico dibattito tra filosofi intorno alle letture ritenute troppo naturalistiche dei comportamenti umani.
Il condivisibile approccio della ricerca filosofica verso “un genere di naturalismo non riduttivo” nello studio di fenomeni della dimensione antropologica, solitamente dilaniata tra “natura” e “spirito”, prende le mosse dalla considerazione che le spiegazioni del naturalismo riduttivo siano insufficienti per motivi che tuttavia non sono altrettanto condivisibili.
In un saggio illuminante Massimo De Carolis ritiene che la possibile analogia tra ritualizzazione e istintualizzazione “non può realmente spiegare la ritualità umana in modo esaustivo e sufficiente”[1], soprattutto in ragione della presunta univocità del linguaggio umano, per cui verrebbe meno la funzione del rito di stabilire un modello comportamentale che riduca al minimo i possibili equivoci comunicativi, come Lorenz ha mostrato[2].
Arnold Gehlen, sottolineando la prevalenza culturale del comportamento umano, ha mostrato che la funzione rituale isola una porzione di mondo mettendo l’uomo al riparo dalla variabilità degli stimoli da cui è sommerso, in sostanza rendendo il comportamento rituale molto simile a un comportamento istintivo.
Se si condivide che tale quadro esplicativo non possa essere sufficiente a spiegare la complessità e varietà della prassi rituale umana, tuttavia viene da esprimere una riserva sulle ragioni della sua mancata forza esplicativa, ovvero l’assodato “accordo linguistico, tra esseri umani” che garantirebbe “l’univocità dei messaggi, per cui sarebbe logico aspettarsi che la funzione genericamente animale della ritualizzazione, nel nostro caso tenda ad essere irrilevante o nulla”[3].
Per quanto riguarda “l’univocità dei messaggi”, che caratterizzerebbe la “specificità della condizione umana”, già Wittgenstain del Tractatus, riconosce le ambiguità dei linguaggi naturali che possono essere superate solo con un linguaggio segnico univoco e mette in guardia a non confondere il significato di un enunciato con il suo riferimento: “comprendere una proposizione vuole dire saper che accada se essa è vera. (La si può dunque comprendere senza sapere se essa è vera)” (4.024)[4]. Successivamente, nelle Ricerche filosofiche, il filosofo pone, in maniera ancora più evidente, la sua attenzione proprio sul linguaggio “di tutti i giorni” come strumento comunicativo e sulla formazione del significato delle proposizioni in relazione, non solo al rapporto aprioristico delle espressioni con gli oggetti designati, come lasciava intendere il Tractatus, ma ai “giochi linguistici” che si sviluppano nel contesto della comunicazione intersoggettiva. In questa sede Wittgenstain riconosce chiaramente che “l’ordine perfetto deve dunque essere presente anche nella proposizione più vaga”[5]. Pertanto “i risultati della filosofia sono la scoperta di un qualche schietto non-senso e di bernoccoli che l’intelletto si è fatto cozzando contro i limiti del linguaggio.”[6]
Considerando che il sogno di Leibniz riguardo al “calculemos” non sembra ampiamente praticato, ovvero che solitamente non comunichiamo con un linguaggio segnico univoco e nelle comunicazioni quotidiane non adottiamo il rigore invocato dalla logica e dalla filosofia del linguaggio, direi che a occhio e croce siamo pieni di bernoccoli senza peraltro avvertirne il dolore. Se la logica pertiene al regno del vero e del falso, che già pare materia complicata, nella comunicazione entrano altri divertenti regni come quello del bello e del brutto, del giusto e ingiusto e via dicendo. Per questi motivi mi pare quanto meno rischioso liquidare il ruolo di pregnanza e univocità del messaggio che Lorenz assegnò alla comunicazione ritualizzata.
Nonostante io non riesca a condividere le premesse del lavoro di De Carolis, tuttavia trovo attraente l'ipotesi che “la prassi rituale sia connessa in modo specifico a questa esigenza, centrale in ogni cultura umana, di costruire l’esemplarità su cui poggia ogni norma esplicitamente formulata. Secondo questa ipotesi, il rito andrebbe visto come una fabbrica di esempi.”[7] Il rito quindi come cristallizzazione formale di una «norma esplicitamente formulata». Ciò naturalmente implica una funzione del rituale posteriore a un atto di formulazione della norma, contrariamente a quanto avviene per il mondo animale. Questa implicazione tuttavia rende l’ipotesi di De Carolis lontana dal fornire un quadro esplicativo “esaustivo e sufficiente” del comportamento rituale nell’uomo, ma rivela un approccio antropologico che Anders denunciava come fondato su un presupposto teistico che stabilisce la “differentia specifica”[8] per l’uomo.
Un aspetto interessante dell’ipotesi di De Carolis è la sua utilità per interpretare la crisi della forma rituale nell’attuale era della tecnica poiché “la tecnicizzazione prevede il dissolvimento di ogni tratto di esemplarità virtuale, e agisce quindi in direzione esattamente opposta alla ritualizzazione”.[9] Se osserviamo il comportamento rituale nelle varie epoche noteremo mutamenti incontestabili ma possiamo veramente affermare che nell’era moderna la forma rituale sia svanita o sia ridotta rispetto al passato? Non è piuttosto evidente una sua radicale trasformazione?
La routine postmoderna è la forma più onnipervasiva della ritualizzazione. Se il rito secondo la tradizione isola un momento topico facendolo diventare incrocio di significati, che evoca l’aleph borgesiano, la routine della vita contemporanea, non riconoscendo particolari significati tuttavia non li azzera ma li disaggrega nelle banali azioni quotidiane. Il comportamento rituale oggi ha mutato i suoi canoni. Quello tradizionale aveva confini ben definiti rispetto al comportamento non rituale e celava la sua regolarità dilatando il tempo presentandosi ogni volta come evento unico. Il rito attuale ha dinamiche più veloci e diffuse rispetto alle capacità psichiche e emotive umane, ha abbattuto i confini circoscritti di una volta nei topoi dello spazio e del tempo per diffondersi ovunque assumendo una sorta di costanza apparente, dettata in realtà dalla rapidità del ripetersi delle azioni rispetto alla nostra “antiquatezza”. Questo è l’apparente scomparsa del rito di oggi, ovvero la ritualizzazione totale ancorché non percepita. In definitiva si potrebbe concepire l’età della tecnica come la ritualizzazione del nulla che fa da sfondo a ogni azione.
[1] Massimo De Carolis, Natura umana e costruzione del mondo nel rituale. MicroMega, 1/2006, p. 117-127.
[2] K. Lorenz, La formazione filogenetica e storico-culturale dei riti. In: Natura e destino, Mondadori, Milano, 1985, p. 161-186.
[3] M. De Carolis, p. 120.
[4] Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916. Einaudi, Torino, 1983, cit. da Giovanni Fornero, Salvatore Tassinari, Le filosofie del novecento. Bruno Mondadori, Milano. Vol 1, p. 787.
[5] Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche. Einaudi, Torino, 1981, cit. da Giovanni Fornero, Salvatore Tassinari, Le filosofie del novecento. Bruno Mondadori, Milano. Vol 1, p. 798.
[6] Op. cit., p. 795.
[7] M. De Carolis, p. 124.
[8] G. Anders, L’uomo è antiquato, Vol. II, Bollati Boringhieri, MI-RM, 2007, p. 116-118
[9] M. De Carolis, p. 126.
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