"Concludiamone dunque che il mondo sarebbe assai migliore se ciascuno si accontentasse di quello che dice, senza aspettarsi che gli rispondano, e soprattutto senza chiederlo né desiderarlo." José Saramago
domenica 27 gennaio 2013
La crociata dei ragazzi
La crociata dei ragazzi
In Polonia, nel Trentanove,
una battaglia grande ci fu
che fece rovina e deserto
di tanti paesi e città.
La sorella ci perse il fratello,
la moglie il marito soldato,
tra fuoco e macerie i figliuoli
i genitori non trovano più.
Di Polonia non venne più nulla,
né notizie ai giornali né lettere.
Ma nei paesi dell’Est
una storia strana raccontano.
Nevicava, quando in quei posti
si sentì che la gente parlava
d’una crociata di ragazzi
che in Polonia era cominciata.
Trottavano sugli stradali
ragazzi affamati attruppati,
e dai villaggi bombardati
altri portavano con sé.
Dalle battaglie volevano
fuggire, da tutti quegli incubi
e finalmente un giorno,
venire a una terra di pace.
Avevano un piccolo capo
che li aveva guidati fin là.
Ma una gran pena aveva in cuore:
la strada non la sapeva.
Una d’undici anni menava
un bambino di quattro anni
Come una mamma farebbe; ma non
fino a una paese di pace.
Marciava nel gruppo un piccolo ebreo
col suo bavero di velluto;
lui, avvezzo al pane più bianco,
da coraggioso s’era battuto.
E due fratelli venivano avanti,
che erano grandi strateghi
per assalire fattorie
deserte, lasciate alla pioggia.
E c’era uno, grigio, sottile,
che andava da solo pei campi
con una colpa tremenda: veniva
da un’ambasciata dei nazi.
E un musicista tra loro
che in un negozio distrutto aveva trovato un tamburo
ma, per non farli scoprire,
non lo poteva suonare.
E anche c’era un cane:
per ammazzarlo l’avevano preso
ma gli era mancato il coraggio
e ora mangiava con loro.
E c’era una scuola ed un piccolo
maestro che si sgolava.
Sulla corazza di un carro, uno scolaro
sillabava, di «pace», «p» e «a».
E al fragore di un freddo torrente
anche un concerto ci fu:
nessuno li avrebbe sentiti
e il tamburo allora suonò.
E anche c’era un amore,
lei dodici, lui quindici anni.
In un cortile di macerie, lei
i capelli gli pettinava.
L’amore non poté resistere,
il freddo che venne fu troppo.
Come le piante possono fiorire
se cade tanta neve?
E anche una guerra ci fu,
perché un’altra banda comparve,
ma la guerra fu presto finita,
ché non c’era ragione di farla.
Ma mentre ancora infuriava
intorno a un casello distrutto,
si dice che uno dei gruppi
a un tratto fu a corto di viveri.
E quando gli altri lo seppero
mandarono uno dei loro
con un sacco di patate; perché
chi non mangia la guerra non fa.
E ci fu anche un processo,
e ardevano due candele.
E fu un’inchiesta penosa.
Il giudice venne condannato.
E il funerale ci fu di un ragazzo
che portava il colletto di velluto.
Lo calarono due tedeschi
e due polacchi nella fossa.
C’erano protestanti, cattolici e nazi
per consegnarlo alla terra.
E alla fine un piccolo socialista
parlò del futuro dei vivi.
Così c’erano fede e speranza,
ma non c’era né carne né pane.
Chi non gli dette un tetto
non mi venga ora a dire che rubavano.
E nessuno dia colpa a quei poveri
che non li invitarono a tavola.
Per cinquanta ragazzi, farina
ci voleva, non solo bontà.
Pareva che andassero a sud.
Il sud è dove il sole
all’ora di mezzogiorno
proprio ti sta davanti.
Trovarono anche un soldato
tra gli aghi dei pini, ferito.
Lo curarono per sette giorni
perché gli indicasse la via.
Lui disse: «A Bilgoray!».
Tremava tutto di febbre,
l’ottavo giorno morì
e così anche lui seppellirono.
Sebbene coperti di neve
c’erano frecce e cartelli.
Non mostravano più la via giusta,
qualcuno li aveva scambiati.
Non era uno scherzo malvagio,
era per ragioni di guerra:
cercando così Bilgoray
nessuno mai ci arrivò.
Erano in cerchio intorno al loro capo.
Lui guardava nell’aria di neve.
Accennò con la piccola mano
e disse: «Dev'essere laggiù».
Una notte videro un fuoco
ma non gli andarono incontro.
Tre carri armati, una volta,
passarono e dentro c’erano uomini.
E una volta giunsero presso
a una città, e le girarono attorno,
camminando soltanto di notte
finché la città non passò.
Dove una volta c’era la Polonia
del sud, furono visti nella neve
della tormenta, quei cinquantacinque,
per un’ultima volta.
Quando io chiudo gli occhi
li vedo come vagano
dalle rovine di una fattoria
alle rovine di un’altra.
Su di loro, lassù nelle nuvole,
vedo altri cortei, nuovi, grandi!
Vanno a fatica contro i venti freddi,
i senza patria, i senza meta,
cercando una terra di pace,
senza il tuono, senza l’incendio,
non come quella che lasciano.
E immenso diventa il corteo.
E dentro il buio del crepuscolo
non mi pare già più quel che era.
Altri piccoli visi vi scorgo,
spagnuoli, francesi, orientali.
In Polonia, in quel mese di gennaio,
un cane per caso fu preso.
C’era un cartello appeso
al suo collo smagrito,
e c’era scritto: «Aiutateci,
abbiamo perduta la strada.
Siamo cinquantacinque.
Il cane vi guiderà.
Se non potete venire,
lasciatelo andar via.
Non gli sparate. Dove
siamo, lui solo lo sa».
Era una scrittura infantile.
La lessero quei contadini.
Un anno e mezzo da allora è passato.
Il cane moriva di fame.
Bertolt Brecht (Augsburg 1898 - Berlino 1956)
In: POESIE 1933-1956, Einaudi, 1977.
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Questi versi di Brecht fanno venire la pelle d'oca. Oggi è il Giorno della memoria e hai fatto bene a far conoscere La crociata dei ragazzi.
RispondiEliminaQuesta notte ho letto e visto un post della blogger Sandra "sandramaccaferri.blogspot.it" dove si parlava di questa giornata anche con un video-monologo di e con Marco Paolini "Ausmerzen vite indegne di essere vissute". Nel pomeriggio invece avevo visto sul mio pc saricato in download,il film "Vento di primavera". Sono entrambi qualcosa da non perdere.
Un salutone,
aldo.
molto bello, poi in questa giornata é speciale
RispondiEliminaQuali atmosfere è riuscito con la sua poesia a rievocare Brecht. Ricordi in questo giorno della memoria che dovrebbero servire per il presente e il futuro.
RispondiEliminaMolto bella. Speriamo che non si dimentichi. Ho paura di cosa accadrà quando non ci sarà più nessuno a testimoniare la verità.
RispondiEliminaGrazie per aver postato questa bella e importante poesia. Non dobbiamo dimenticare, lo dobbiamo dire ai giovani.
RispondiEliminaUn abbraccio
Nou
Grazie Antonio per questa bellissima poesia!!:))
RispondiEliminaRingrazio Aldo per le sue segnalazioni, soprattutto per il film "Vento di primavera" che non conoscevo e che ho visto ieri sera.
RispondiEliminaSono fermamente convinto che il giorno della memoria debba rimanere il più lontano possibile da ciò che lo svuoterebbe di significato, la retorica. Non si tratta solo di ricordare ma di progettare il futuro. Non basta indignarsi per i "cattivi" di ieri per chiudere gli occhi davanti ai delinquenti di oggi. Mi riferisco ai delinquenti che rinnegano la storia, quelli che discriminano le minoranze, di qualsiasi tipo. Se impariamo a riconoscere questi delinquenti, fin dai primi segnali, senza aspettare azioni eclatanti, allora forse il giorno della memoria avrà insegnato qualcosa.
«E se il mondo non imparerà la lezione che queste immagini insegnano, la notte tornerà a cadere.» di Orsola Puecher
«Ogni tempo ha il suo fascismo: se ne notano i segni premonitori dovunque la concentrazione di potere nega al cittadino la possibilità di esprimere ed attuare la sua volontà. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente con l'intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l'informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l'ordine, ed in cui la sicurezza dei pochi privilegiati riposava sul lavoro forzato e sul silenzio forzato dei molti.» Primo Levi
"Non si tratta solo di ricordare ma di progettare il futuro." "Ogni tempo ha il suo fascismo." sono le più convincenti ed esaustive parole per me, dopo un paio di giorni passati ad indignarmi e a litigare on line con un sacco di sofistici - ma anche con degne persone sconfortate dalla sensazione di "ricorrenza di plastica" della memoria che a loro sembra ormai consunta e routinaria di una tragedia epocale che travalica ogni contingenza per divenire emblema del male assoluto - quello che ciascun uomo, se non fa i conti con la storia (che è la "sua" storia), potrebbe rischiare di scoprire in nuce, in scintilla, in briciole minime, dentro se stesso.
RispondiEliminaCri permettimi di dire che anche far diventare quella tragedia emblema del male assoluto è un meccanismo psicologico di rimozione, uno strumento che svuotato del suo senso resta pura retorica celebrativa. In un rovesciamento della sacralità si con-sacra quell'eccidio al male per allontanarlo dalla presenza viva. Su questo tema Hannah Arendt scrisse un libro immenso dal titolo La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme. La Arendt fece un resoconto del processo del 1961 a Eichmann, uno dei tanti aguzzini nazisti che si "occupò" della deportazione degli ebrei. Durante gli interrogatori Eichmann era stupito di essere processato perché in fondo aveva solo "fatto il suo dovere", aveva obbedito agli ordini e alla legge. La lezione che Arendt trasse da quella vicenda fu che il male era "banale", non aveva nulla di trascendentale e la sua radice era nell'inconsapevolezza delle proprie azioni. Solo guardando in faccia il male, in tutta la sua "banalità", si possono scorgere quelle briciole minime di cui parli, altrimenti il giorno della memoria sarà davvero un "ricorrenza di plastica".
RispondiEliminaCredo che il modo più sensato di ricordare sia quello di scorgere la permanenza della memoria nel presente.
RispondiEliminaMa guarda, Antonio, che io sono perfettamente d'accordo con te. E con la Arendt. Il "male del male" non sta nella sua trascendenza, sta proprio nella sua immanenza, nel suo essere incistato, connaturato all'individuo. Nel non essere "altro" da noi. In un altro post - mi pare in quello di Sandra - ho proprio scritto questo: che ricordare serve ad interrogarmi su me stessa, a pormi quesiti basici, essenziali: che avrei fatto io, se fossi stata una donna tedesca? Mi sarei opposta, oppure sarei diventata anch'io un elemento dell'ingranaggio per quella sorta di inconsapevolezza di cui tu parli, influenzata dal clima collettivo? E se fossi stata un'ebrea, che scelta avrei fatto? Quella, consapevole, coraggiosa e tremenda, di lasciare tutto e tentare di espatriare, magari negli USA, magari smembrando la mia famiglia per proteggere i miei figli, oppure avrei tentato di rimuovere il più possibile l'angoscia e stornare lo sguardo fino a che non fosse stato troppo tardi, come a tanti è successo? Comparandolo al mio modo di affrontare le situazioni nella mia quotidianità. Perché, appunto, quelli che hanno fatto queste cose non erano demoni, non erano mostri, erano esseri umani come me. Il mio considerare l'Olocausto un emblema del male assoluto è solo un modo per cercare di elevarlo al di sopra delle querelle di circostanza, delle partigianerie vuote, strumentali e sterili di chi riduce tutto all'antisemitismo o al sionismo, e dalla sua comoda postazione del pc fa proclami del genere "quest'anno per la giornata della memoria vorrei vedere un film sulle stragi palestinesi" a cuor leggero, portando legna alla catasta del revisionismo storico, che è condizione primaria perché la storia si ripeta (come di fatto si ripete, ogni giorno, ogni ora, in mille altre stragi, in mille altri conflitti, compreso quello israelo palestinese...). Perché se il male è (come è) banale, ne consegue che la banalità è male. Quest'orribile ferita collettiva, le cui conseguenze sono state iscritte nella pelle di milioni di persone e si ripercuotono ancora oggi in modo drammatico nel mondo, deve poter avere almeno il senso di essere paradigmatica, e di suscitare nel maggior numero di persone quell'attitudine al "cuore vigile" di cui parla Bruno Bettelheim traendo le sue riflessioni proprio dalla sua esperienza di internato a Dachau e a Buchenwald. (Scusa il pippone sconclusionato...)
RispondiEliminanon ci vedo niente di sconclusionato nel tuo "pippone", anzi...
RispondiEliminaCiao Anto', ti ringrazio per il tuo gentile commento.
RispondiEliminaUn caro saluto,
aldo.