l'inizio del tremendo, che sopportiamo appena,
e il bello lo ammiriamo così perchè incurante
disdegna di distruggerci. [...]"
R.M. Rilke, Elegie Duinesi, Prima elegia, 1922.
Il senso di sopraffazione che alcuni provano di fronte alle opere d'arte è noto come sindrome di Stendhal. Questa "affezione psicosomatica" ha un'ampia letteratura. Della sindrome di Stendhal si è detto di tutto ma mi sono sempre chiesto: esiste qualcosa di analogo di fronte alla bellezza della natura? C'è nella letteratura psichiatrica quello che potremmo chiamare una sindrome di Thoreau, il filosofo americano che portò al centro della sua riflessione il ruolo della natura selvaggia? O, per rimanere in ambito letterario, una sindrome di London? O una sindrome di Tolstoj?
Ad essere rigorosi nessuno di questi nomi, e tanto meno le loro opere, può evocare una sindrome analoga a quella di Stendhal che abbia la sua origine nella bellezza della natura, sebbene tutti, in diversi modi, abbiano messo al centro del loro pensiero la natura e la sua bellezza. Dei tre autori nominati forse solo Thoreau rappresenta lo smarrimento estatico, quasi un trascendimento, di fronte alle bellezze naturali ma non ne sono sicuro e mi rendo conto che è una forzatura.
Insomma, per quanto ne so, non c'è una sindrome simile a quella di Stendhal per le bellezze naturali. L'unica cosa che si avvicina a quello che intendo è la Nature Deficit Disorder (in italiano sindrome da deficit di natura), ma si avvicina soltanto, esattamente dalla parte opposta a quello che intendo io perché la sindrome da deficit di natura è un disagio dovuto alla mancanza di contatto con la natura e non uno stato emotivo di forte commozione e di vertiginoso trascendimento di fronte alle bellezze della natura. Eppure, come di qualcosa di cui sentiamo la mancanza solo quando ci viene sottratto, la sindrome da deficit di natura ci fa capire quanta bellezza sia stata confinata sotto la soglia della percezione e segregata negli anfratti dell'assuefazione. Ma non voglio farmi prendere la mano da queste riflessioni. Rimaniamo al fatto che non c'è una descrizione o una casistica analoga alla sindrome di Stendhal per le bellezze naturali (se qualcuno vorrà smentirmi ne sarò felice). Riprendendo la lezione di Foucault sul potere psichiatrico, sembra quasi che il dispositivo patologico della sindrome da bellezza naturale non sia di alcuna utilità alla microfisica del potere, perché? Domanda oziosa, forse, e del resto che esista o meno quella che potremmo chiamare una sindrome di Thoreau è poco importante, perché ciò che a mio avviso è rilevante è la differenza con cui le bellezze artistiche e quelle naturali vengono vissute.
Io una spiegazione di questa differenza ho tentato di darmela e in qualche maniera questa spiegazione risponde anche alla domanda del perché non esista una sindrome di Thoreau. Non so quanto sia corretta la mia risposta ma ai fini di queste riflessioni, più utili a stimolarne altre che a raggiungere una certezza, la correttezza è un criterio di cui mi curo poco.
Val di Saent (TN) - Trentino Alto Adige |
Se la bellezza naturale lascia senza parole perché ci mette di fronte alla "divina indifferenza", l'opera d'arte è il tentativo di una povera umanità di opporsi all'abisso, a volte è il disperato sforzo di colmarlo. L'opera d'arte, a differenza della bellezza della natura che è fondamentalmente silenzio, è l'urlo degli uomini bambini di fronte al buio. L'opera d'arte, l'artificio, è il desolante lavorio per fornire un senso a quel buio, il tentativo di farne uno spettacolo, di giocare con i dadi del tempo per trovare un perfetto incastro di vite. E' lo stupore che distrae per un momento la morte dal suo antico mestiere, è l'inconsapevole corte che si fa alla morte nel tentativo di farla innamorare, come scrive Saramago nel suo "Le intermittenze della morte".
Caravaggio, Hecce Homo, 1605/6 o 1609. Palazzo Rosso, Genova. |
Siamo ospiti della natura, nei suoi confronti conserviamo un elemento di estraneità mentre di fronte all'opera d'arte siamo trascinati nel vortice della somiglianza con l'artista, per quanto differenti condividiamo con l'artista la stessa umanità. La natura, a differenza dell'opera d'arte, non è fatta per farsi guardare.
La natura è continuo movimento, la si immagina ferma ma non lo è mai, non può esserlo. Il movimento della natura sussurra vita e morte, inevitabilmente. Quel movimento sussurra che la "certezza della morte si accompagna alla indeterminatezza del suo «quando»" (Heidegger, Essere e Tempo, §52, 1927), questo l'uomo teme, questo tenta di fuggire con l'artificio. L'arte fissa quel movimento e, in un rovesciamento dei fini, la staticità della morte diventa con l'arte l'eternità della vita. Poteva essere concepito inganno maggiore di questo?
J. Mirò, Paesaggio catalano, 1923/24. The Museum of Modern Arts, New York. |
Il bello è un concetto umano, pertanto di fronte al manufatto umano si può parlare di un concetto di bello diverso da quello usato per la natura. L'uso indiscriminato del termine nei due casi è del tutto fuorviante e non lascia pensare alla profonda differenza tra i due tipi di bello. La presunzione dell'arte di cui ho parlato paga il suo pegno attraverso il sottile senso di disagio che spesso accompagna il godimento del bello artistico, quel disagio che nelle sue forme più accentuate può essere una vera e propria sindrome.
A questo punto bisogna riconoscere che queste riflessioni poggiano su un terreno fragile, come tutte le nostre certezze del resto! L'arte è un concetto culturale e spesso si contrappone il concetto di natura a quello di cultura. Ebbene, quello di natura è il concetto più squisitamente culturale che la nostra natura ci ha permesso di produrre! (Detto tra parentesi, potreste trovare molto interessante questo video del filosofo Denis Dutton a proposito delle origini della bellezza, naturale o artistica che sia. Il video è sottotitolato in diverse lingue.)
"[...] solo a momenti l'uomo sopporta pienezza divina.
Sogno di loro dopo è la vita. [...]"
F. Hölderlin, Pane e vino, Elegia, 1801-2.
"Soltanto grazie all'arte possiamo uscire da noi stessi, sapere che un altro vede di questo universo, che non coincide con il nostro, e i cui paesaggi sarebbero rimasti per noi sconosciuti, quanto quelli che potrebbero esserci sulla luna. Grazie all'arte, anziché vedere un solo mondo, il nostro, lo vediamo moltiplicarsi, e quanti più sono gli artisti originali, tanti più mondi abbiamo a disposizione, diversi gli uni dagli altri, più di quelli che girano nell'infinito, e che, molti secoli dopo che si è estinto il focolare da cui emanavano, si chiamassero Rembrandt o Vermeer, ci inviano ancora il loro caratteristico raggio di luce." M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Il tempo ritrovato, 1927.
***
"BELLO, BELLEZZA
Chiedete a un rospo cos'è la bellezza, il bello assoluto, to kalòn. Vi risponderà che è la sua femmina, con i suoi due grossi occhi rotondi sporgenti dalla piccola testa, la gola larga e piatta, il ventre giallo, il dorso bruno. Interrogate un negro della Guinea: il bello è per lui una pelle nera, oleosa, gli occhi infossati, il naso schiacciato. Interrogate il diavolo: vi dirà che la bellezza è un paio di corna, quattro artigli e una coda. Consultate infine i filosofi: vi risponderanno con argomenti senza capo né coda; han bisogno di qualcosa conforme all'archetipo del bello in sé, al kalòn.
Assistevo un giorno a una tragedia, seduto accanto a un filosofo. «Quant'è bella!», diceva. «Cosa ci trovate di bello?» domandai. «Il fatto,» rispose, «che l'autore ha raggiunto il suo scopo.» L'indomani egli prese una medicina che gli fece bene. «Essa ha raggiunto il suo scopo,» gli dissi, «ecco una bella medicina!» Capì che non si può dire che una medicina è bella e che per attribuire a qualcosa il carattere della bellezza bisogna che susciti in noi ammirazione e piacere. Convenne che quella tragedia gli aveva ispirato questi due sentimenti e che in ciò stava il kalòn, il bello.
Facemmo un viaggio in Inghilterra: vi si rappresentava la stessa tragedia, perfettamente tradotta, ma qua faceva sbadigliare gli spettatori. «Oh, oh,» disse, «il kalòn non è lo stesso per gli inglesi e per i francesi.» Concluse, dopo molte riflessioni, che il bello è assai relativo, così come quel che è decente in Giappone è indecente a Roma e quel che è di moda a Parigi non lo è a Pechino; e così si risparmiò la pena di comporre un lungo trattato sul bello." Voltaire, Dizionario filosofico, 1764.
Intenso quello che scrivi, obblighi a pensare.
RispondiEliminaAntonio, da te leggo sempre cose interessanti e scritte molto bene, ma a volte trovo dei posts eccezionali, come questo.
RispondiEliminaHai ragione, non conosco alcun manuale di psichiatria o trattato di psicopatologia che riporti un disturbo che si manifesta attraverso un insieme di sensazioni psicofisiche che si possono provare di fronte ad uno spettacolo naturale, analoga a quella di Stendhal per i manufatti artistici.
Viene descritto un sintomo, la derealizzazione, che descrive uno stato soggettivo in cui il mondo viene vissuto come cambiato, non familiare, inquietante e irreale, una sensazione molto penosa che si accompagna spesso alla depersonalizzazione, cioè alla sensazione di non essere più se stessi, di dissolversi nel nulla.
Questi sono in genere i sintomi che corredano i diffusi attacchi di panico, ma li si trova soltanto quando l’attacco di panico si innesta in una struttura di personalità border-line o francamente psicotica.
Altro sintomo noto negli individui schizofrenici è quella sensazione che Freud descrisse con la frase: “come se finisse il mondo”, la realtà non più vivificata dagli investimenti libidici, che si ritirano narcisisticamente nella rocca dell’Io come in un assedio teso a proteggere il fragilissimo senso di identità, è come se si sgretolasse di fronte ai nostri occhi ... il presidente Schreber scrive nelle sue Memorie di un malato di nervi di uomini “fatti fugacemente”, di uomini cioè che Schreber vede come vagamente irreali, mere parvenze, fantasmi.
(segue)
Eugenio Borgna, grande esponente della psichiatria fenomenologica, riprende il “come se finisse il mondo” freudiano e ci ha scritto sopra un bellissimo libro edito da Feltrinelli nel 1995.
RispondiEliminaSe non esiste propriamente una sindrome rubricata e codificata nei testi dell’arte, aleggia però nella letteratura scientifica (Freud, Jung, Lacan), in quella filosofica (Nietzsche, Heidegger, Derrida) e in quella letteraria (e qui l’elenco sarebbe sconfinato) quel senso di vertigine che colpisce l’essere umano di fronte ad uno spettacolo naturale, di cui ci si fa carico a vari livelli e si cerca di darne testimonianza.
Freud ci scrive un libercolo, Das Unheimliche nel 1919 (impropriamente tradotto da Silvano Daniele, che pure lo ammette, nell’edizione Boringhieri delle opere freudiane con “Il perturbante”, mentre Pietro Chiodi traduce lo stesso termine in Sein und Zeit di Heidegger con il più appropriato, anche se non completamente soddisfacente perché non coglie tutte le sfumature che la lingua tedesca da al termine, “spaesamento”).
Non si occupa soltanto dell’inquietudine che ci coglie di fronte alla natura, di quel senso di smarrimento ad alcuni fenomeni naturali, estende la sua analisi a tutto il campo del reale, a cose, persone, situazioni che creano in noi un misto di attrazione e repulsione, talvolta anche molto forte.
Può sembrare un’escursione isolata in un ambito periferico rispetto agli interessi più prettamente psicoanalitici e agli interessi dello stesso Freud in quel periodo, in realtà egli non cessò mai di interrogarsi sulla perdita del senso di realtà e sullo stupore riguardo a come gli investimenti libidici creino un Io o un mondo saldi, mentre i disinvestimenti creino il senso di derealizzazione, depersonalizzazione e di dissolvenza.
Qualche anno dopo (siamo nel 1936), Freud scrive una lettera aperta a Romain Rolland, in cui gli racconta dello stupore, della particolare impressione e di uno strano disturbo della memoria che lo colse nel 1904 quando insieme al fratello visitò l’acropoli di Atene, a partire da questo episodio della sua vita, da questo senso di irrealtà che lo coglie sulla cima dell’acropoli, Freud si interroga su quella sensazione estatica di fronte ad avvenimenti, presenze, occasioni eccezionali, confrontandosi con analoghe esperienze che Romain aveva chiamato “sentimento oceanico” (su cui in passato ho scritto due posts: 1 e 2).
(segue)
E’ il “muori e diventa” di Goethe, il senso della gioia di Nietzsche, l’estasi delle baccanti dei riti orfici e dionisiaci nell’antica Grecia, la dialettica “servo-padrone” di Hegel, dove entrambi dovranno accettare la terribilità della morte e l’incertezza della rinascita, è l’ “essere scagliato nel mondo di Heidegger” che sfocia nel coraggio e nel progetto di vita, nell’essere-con, è il δεινὰ del secondo coro dell’Antigone, l’elenco delle cose terribili e inquietanti di cui la più terribile è l’uomo ... lo stesso termine δεινόζ viene usato da Omero nel momento in cui descrive l’apparizione ad Ettore che attende fiero alle porte Scee di Achille bardato da capo a piedi con nuova armatura ... Ettore ne è così atterrito che scappa di fronte al nemico, scappa di fronte ad un immortale che è la sua morte e il suo destino ... invano.
RispondiEliminaPer gli antichi greci le porte aurorali per la verità di un uomo erano senza alcun dubbio la bellezza e la sofferenza, tutta l’arte e la cultura greca sono un equilibrio perfetto fra queste due anime della cultura dell’occidente, la tragedia greca è uno splendido esempio di questo equilibrio, fra Dioniso e ciò che rappresenta e fra Febo e ciò che rappresenta ... come colse molto bene Nietzsche nella Nascita della tragedia.
Non si può entrare attraverso una sola di queste porte, chi ci ha provato (e sono in tanti fra i poeti e i letterati della modernità) ha creato delle opere monche e parziali, se non addirittura mostruose e aberranti [credo che gran parte della letteratura moderna sia frutto fondamentalmente della sofferenza dell’autore, dalla sofferenza hanno tratto opere sublimi eppure mostruose nello stesso tempo, opere che hanno distrutto la vita stessa dell’autore e si sono propagate come virus nocivi creando opere nocive ... basti pensare alla lunga scia di suicidi che produssero opere come I dolori del giovane Werther, o Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo o lo Daniele Cortis di Fogazzaro (quest’ultimo fra i romanzi più tristi che io abbia mai letto)].
Forse l’arte è un modo per dare un senso alla natura e a noi stessi, un modo per organizzare la relazione fra noi e il mondo ... lo stupore, il thauma, il terrore, l’estasi, la gioia, le gambe che tremano, la tachicardia, ecc. a mio parere non avvengono mai per la realtà, per la natura, per la cosa in sé ... il das ding, ma per la rappresentazione conscia e/o inconscia (si procede sempre su piani paralleli ) che ce ne facciamo.
Le rappresentazioni, gli schemi, le categorizzazioni, le attribuzioni, le inferenze, le euristiche, gli integrali, i modelli, le teorie, le funzioni e gli algoritmi che costituiscono i linguaggi attraverso cui realizziamo le nostre configurazioni e spiegazioni del mondo (non sono gli unici, esistono linguaggi artistici, poetici, pittorici, musicali, che utilizzano canali più sensoriali ed emotivi); ma le rappresentazioni e le immagini di ogni tipo, come sostiene Lacan, non evocano soltanto una presenza ma simboleggiano una mancanza.
(segue)
L’essere immagine di qualcosa che non c’è è il motivo fondamentale per cui costruiamo immagini, ma l’immagine reca con sé l’assenza della cosa (della persona o della situazione) immaginata, e questo genera angoscia ... quell’immagine è al contempo familiare e d estranea, attraente e inquietante ... da qui sorgerebbe lo spaesamento.
RispondiEliminaOltre ai testi di Franco Rella (L’enigma della bellezza e Il silenzio e le parole, entrambi editi da Feltrinelli), che però trattano l’argomento più da un punto di vista estetico, c’è un bellissimo libro di Graziella Berto (Freud Heidegger e lo spaesamento, Bompiani, 1998) che confronta il pensiero di Freud e quello di Heidegger sul tema del unheimliche, con una chiusura di Derrida che dovrebbe fare da mediatore fra psicoanalisi e filosofia, visto che Freud cercava di tenersi fuori dall’ambito filosofico (non riuscendoci), mentre Heidegger si occupa di psicoanalisi solo per criticarla aspramente (i due uomini del resto non risulta abbiano mai dialogato fra loro neppure a distanza).
Ciao
P.S. I post citati erano in collegamento ipertestuale, ma non si è mantenuto, scrivo allora i rispettivi links: http://garbo.ilcannocchiale.it/post/2585800.html e http://garbo.ilcannocchiale.it/2011/01/18/muori_e_diventa.html .
Caro Garbo, ti ringrazio per il tuo ricchissimo commento e per i consigli di lettura che sicuramente seguirò. Il tuo commento rappresenta il completamento del mio post, che altrimenti sarebbe monco. Tu affronti il tema esattamente dalla parte che io avevo affidato alle domande iniziali, il tema è così grande che non può trovare risposta in poco spazio ma sicuramente fornisci sufficienti elementi per pensare. Lo spaesamento di cui parla Freud, più che mai pertinente al discorso, forse muove proprio da quella “divina indifferenza” che ho appena accennato nel post e che sottilmente e inconsciamente percepiamo di fronte alla natura, oppure dalla strisciante percezione di quella certezza della morte, così antitetica alla sua imprevedibilità, come Heidegger ha mostrato. Romain Rolland, da uomo pervaso di sentimento religioso, usò la bellissima espressione “sentimento oceanico”, io preferisco “qualche storta sillaba” di Montale ma entrambe queste espressioni hanno qualcosa in comune, aprono alla vastità che non può essere abbracciata, che ha ordini spaziali e temporali che vanno ben al di là della nostra capacità di comprensione ma non al di là del nostro desiderare. L’uomo è l’animale che desidera il desiderio, diceva Hegel da qualche parte, ma ahimè, l’individuo intravede anche il termine del proprio desiderare (e se non stiamo attenti lo vedrà anche la specie!). E allora, come ha insegnato Nietzsche, bisogna esultare di fronte a quell’inquietudine, paradossalmente ma necessariamente. Bisogna dire sì all’orrore perché vivere, lo si voglia o meno, lo si sappia o meno, è guardare in faccia “l’elenco delle cose terribili e inquietanti di cui la più terribile è l’uomo”, come dici ricordando l’Antigone. L’immagine reca con sé l’assenza, hai ragione, l’arte non è che un modo di riempire quell’assenza. E’ inquietudine che colma altra inquietudine, gioco inevitabile e irrinunciabile, pena un’occasione persa per vivere, l’unica occasione che ci è data, salvo pensare oltremondi. Da questo punto di vista la religione, è una forma sublime di arte, un modo antichissimo di rappresentare l’assenza.
RispondiEliminaMa voglio tornare al concetto di bellezza per chiudere questa breve risposta. Sebbene io abbia scritto che la bellezza della natura e quella del manufatto siano molto differenti è evidente il loro nesso e la loro differenza risiede nel fatto che occupano differenti posizioni lungo una sola linea che va dalla vastità di quel “sentimento oceanico”, secondo Rolland, o della “divina Indifferenza”, secondo Montale, al tentativo di colmare l’uno o l’altra. Di fatto la matrice di quello che chiamiamo bellezza è una sola e più prosaicamente ho affidato la spiegazione, da una prospettiva biologica - che come sai, mi sta particolarmente a cuore - al video che ho proposto.
Grazie di nuovo.
Caro Antonio,
RispondiEliminaritorno sull'argomento non perché vorrei aggiungere altro, da un lato mi va bene così, sei un ottimo interlocutore, le riflessioni sono molte e spero che avremo spazio e tempo per riprenderle più in la, ma perché mi ritrovo ad interrogarmi sul tuo "grazie". Ritengo una fortuna che ho avuto quella di averti incontrato, seppure in un blog, mi fa molto piacere leggere ciò che scrivi, per questo mi imbarazza che mi ringrazi e sono, invece, più felice per le repliche che mi scrivi. Non sono uno che non tributa il giusto spazio al ringraziamento, ma in questo caso dovremmo ringraziarci a vicenda e in algebra due segni uguali si annullano :-)
Ciao
Garbo, alle volte ci si sente più soli proprio nei posti più affollati e, come è noto, la rete è un posto affollatissimo ma la numerosità spesso non significa che sia facile trovare una persona con cui scambiare qualche pensiero, allora quando la trovi ti sembra un bel regalo e a me viene spontaneo dire grazie, tutto qui.
RispondiElimina...in algebra due segni uguali non si annullano, per annullarsi devono essere opposti. In fisica si respingono, ma lì la cosa è più complicata, perché se stanno nel nucleo ce ne vuole per separarli. ;-)
Post interessantissimo!!!
RispondiEliminaAggiungo la concezione di Keats:« Bellezza è verità,verità è bellezza, - questo solo vi necessita di sapere sulla Terra , ed è quanto basta.”
Questa concezione ricalca le tesi del filosofo Friedrich Schiller, per il quale la bellezza si manifesta solo quando il suo soggetto mostra realmente la propria vera natura.
Grazie per la segnalazione del video!!
Ciao
Antonio, ho letto. Ho la presunzione di aver capito. Leggerò ancora tante volte perché oltre ad essere interessante è bello! e mi ha lasciata senza fiato come quando si guadagna una vetta.
RispondiEliminaSoffio, lo scambio con Garbo mi ha fatto trascurare la tua osservazione. Che posso dirti? A certi vizi non si rinuncia facilmente!
RispondiEliminaCara intherainbow, la concezione di Schiller, poi ripresa da Keats, è molto antica, risale ai greci che avevano una sola parola per indicare ciò che è bello e ciò che è buono o valido (leggi qui), il salto alla verità è un po' più difficile ma neanche tanto se consideri la banalizzazione della nostra contemporaneità, dove ciò che è valido è anche vero.
Cara Nou, mi mancavano i tuoi commenti. Certe cose si prestano più ad essere sentite che capite, quello di cui parlo è una di quelle cose e tu mi sembri una persona molto portata a sentirle.
Grazie infinite di avermi dato il link a questo post!
RispondiEliminaÈ incredibilmente interessante, ricco e pulito. So per certo che ci mediterò sopra, anche se a primo acchito mi sento di condividere, o comunque accettare, di ciò che scrivi.
Ciao
*molto di ciò che scrivi
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