Sollecitato da un commento al precedente post aggiungo alcune considerazioni che spero contribuiscano a dare un quadro della situazione nazionale un po' più articolato di quello che va in scena nella miserabile arena del dibattito politico.
Come per il precedente post tutti i dati sono di fonte Eurostat. Oltre ai 28 Stati membri dell’UE28 ci sono anche Norvegia, Islanda e Svizzera quando sono disponibili i dati. Cliccate sui grafici per ingrandirli.
Premetto che non considero il PIL come l’espressione perfetta del benessere di una nazione e dei suoi cittadini. In sintesi il PIL può essere definito come il valore di tutti i beni e servizi prodotti meno il valore dei beni e servizi utilizzati per produrli. Il PIL non fornisce alcuna indicazione riguardo la distribuzione della ricchezza, la giustizia sociale, l’assetto normativo. Non fornisce alcuna indicazione su un universo di valori qualitativi che riguardano il benessere sociale, nessun riferimento ai beni relazionali, il godimento di beni cosiddetti immateriali (...anche quando sono materialissimi, come l'arte, il paesaggio, ecc.). Insomma un elenco lungo di critiche di cui è zeppa la letteratura ma a prescindere dalle critiche il PIL resta un indicatore quantitativo della ricchezza prodotta e, di riflesso, delle risorse che è possibile allocare ai diversi servizi. È realizzato rispettando standard metodologici che lo rendono utile ai confronti con altri Paesi, confronti che a mio avviso devono essere fatti con prudenza proprio per quelle critiche appena accennate ma non complichiamoci la vita, dopotutto questo è un post, non un saggio sulla ricchezza delle Nazioni.
Il grafico seguente riporta il PIL procapite del 2017 a parità di potere d'acquisto per gli Stati europei. L'Italia ha un PIL di 28.533 € a persona e si colloca al 16° posto tra i vari Paesi. Prima dell’Italia troviamo nazioni importanti come Francia, Regno Unito, Germania, Svezia, ecc. Nazioni che spesso sono giustamente considerate pietre di paragone in termini di servizi sociali e welfare.
Le ragioni delle differenze di ricchezza tra i vari Paesi sono molteplici. Tempo fa Adam Smith ci scrisse un saggetto per dipanarne tutti i fattori ma nonostante la copiosità di argomenti pare che il mistero resti avvolto nella nebbia più fitta! La disoccupazione deve pur avere qualche ruolo, probabilmente anche l’economia sommersa, la struttura economica di ciascun Paese, la disponibilità di risorse interne ma nel dibattito quotidiano sono argomenti che hanno meno fascino delle tanto invocate riforme istituzionali e del totem della produttività, ovvero la quantità prodotta di un bene in una data unità di tempo e i mezzi impiegati per produrla o il rapporto tra il prodotto e l'insieme dei fattori di produzione che hanno concorso a produrlo.
Ok, diciamo che sul fronte della produttività abbiamo da migliorare ma come siamo messi? Quando viene tirato fuori dal cilindro il mantra della produttività sarebbe anche utile dare dei riferimenti quantitativi ma è noto che la propaganda non si nutre di argomenti, divora slogan e spesso ne divora talmente tanti che li vomita. Ebbene anche per la produttività c'è un indicatore e Eurostat lo elabora sulla base dei dati comunicati dalle autorità nazionali di ciascun Paese, con una metodologia condivisa a livello europeo e a partire da cifre a parità di potere di acquisto. Nel grafico seguente è illustrata la produttività del lavoro per persona e ora lavorata nel 2017 per tutti i Paesi europei. Fatta 100 la media dei 28 Stati membri di UE28 l’Italia ha un valore 107,2. Danimarca, Francia, Svezia hanno valori più elevati, da 115,8 a 112,4 ma tra i Paesi con produttività inferiore c’è anche la blasonata Germania che con 105,1 si colloca subito dopo l'Italia. Chi l'avrebbe mai detto, vero?
Aggiungo che nel 2017 la distanza tra Italia e Germania è molto piccola, poco più di 2 punti, mentre nel 2005 era maggiore di 7 punti. Negli ultimi anni l’Italia ha perso molte posizioni e la distanza tra Italia e Germania si è accorciata sempre di più per via della crisi economica che ci ha investiti molto più di altri Paesi e certamente molto più della Germania. Quindi la produttività non è una maledizione che condanna l’Italia agli ultimi banchi di scuola ma dipende probabilmente da fattori contingenti che ci stiamo portando dietro da qualche anno e che ci hanno fatto perdere molti punti in termini di produttività. Giusto per dare un’idea della faccenda in termini temporali riporto lo stesso grafico di prima con i dati del 2005. Dopo l’Italia troviamo Paesi che nel 2017 ci precedono, come la Svezia e la Danimarca. La distanza dalla Francia, che ci ha sempre preceduto, era molto inferiore a quella del 2017: 3,2 punti nel 2005 contro 7,7 nel 2017.
Ma lasciamo perdere la produttività e diamo un’occhiata alla quota di risorse che ogni paese destina ai benefici sociali. Nel 2107 l'Italia ha destinato il 28,2% del proprio PIL alle spese per benefici sociali di ogni tipo (pensioni, cure sanitarie, sostegno alla disoccupazione, alla famiglia, ecc.). Secondo questo indicatore l’Italia si colloca al 7° posto con una percentuale simile a quella di Paesi con un PIL pro capite maggiore del nostro come Germania, Svezia, Austria. La quota nazionale è maggiore di quella di altri Paesi con un PIL pro capite maggiore del nostro, come Norvegia, Regno Unito, Svizzera.
In termini di spesa per i benefici sociali a parità di potere d'acquisto l'Italia nel 2017 ha speso 7.915 € per abitante. A fronte di un PIL pro capite di 28.533 € abbiamo 7.915 € pro capite destinati a benefici sociali. La Germania, con una percentuale di spesa sul suo PIL per benefici sociali uguale alla nostra (28,2%), ne destina 10.791 € ma la Germania ha un PIL pro capite di 36.141 €.
Come si può vedere già da questi pochi dati le cose sono più complesse di come vengono presentate nei comizi elettorali e nei talk show. I paragoni con altri Paesi non possono essere fatti in termini di spesa assoluta ma in termini comparativi. È giusto e auspicabile prendere esempio da Paesi che fanno meglio di noi, è giustissimo intervenire per correggere le distorsioni della spesa pubblica e gli investimenti poco efficienti ma non basta dire che altri Paesi investono più di noi. È necessario considerare le caratteristiche specifiche del paese, in termini di ricchezza totale prodotta e in termini di ricchezza distribuita.
Se a proposito della ricchezza prodotta è tutto un fiorire di analisi riguardanti la produttività, l'assetto istituzionale e altri fattori che sicuramente meritano l'attenzione di riformatori più o meno improvvisati è a proposito della distribuzione della ricchezza che sorgono domande interessanti. Distribuzione in cui, per intenderci, oltre ai benefici sociali vanno considerate anche le politiche fiscali che mirano alla redistribuzione della ricchezza con cui in ultima analisi vengono finanziati gli stessi benefici sociali. Dovremmo insomma ritornare a guardare a quella galassia che è stata appena sfiorata nel precedente post, con il colossale problema dell’evasione e dell'elusione fiscale, con la fuga di capitali nei paradisi fiscali e le rendite non soggette a tassazione. Dovremmo toccare totem come la distribuzione della ricchezza e dei redditi.
In termini di ricchezza in Italia il 5% delle famiglie più ricche possiede più del 40% del patrimonio nazionale. In termini di reddito il 10% più ricco percepisce più del 24% dei redditi. Insomma i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Anche per questo fenomeno c’è un indicatore utile per fare confronti tra i diversi Paesi, il coefficiente di Gini. L'indicatore è usato per misurare la diseguaglianza nella distribuzione del reddito o della ricchezza. È un numero compreso tra 0 ed 1 e valori bassi del coefficiente indicano una distribuzione abbastanza omogenea, mentre valori alti indicano una concentrazione di ricchezza. Il valore 0 che corrisponde alla pura equidistribuzione, ad esempio la situazione in cui tutti percepiscono esattamente lo stesso reddito. Il valore 1 corrisponde alla massima concentrazione, ovvero la situazione dove una persona percepisce tutto il reddito del paese mentre tutti gli altri hanno un reddito nullo.
Il grafico mostra la graduatoria dei Paesi europei per il coefficiente di Gini che è una misura della diseguaglianza di una distribuzione. L'Italia ha un coefficiente di Gini 0,323 ed è in una posizione non invidiabile tra i principali Paesi europei. Dopo di noi c’è solo il Regno Unito e la Spagna tra i Paesi più grandi. In tutti i Paesi con coefficiente di Gini inferiore al nostro la distribuzione della ricchezza è più omogenea e le distanze tra poveri e ricchi sono inferiori.
Le spese per i benefici sociali sono uno degli strumenti per riequilibrare le diseguaglianze economiche ma non il solo, il più potente di tutti è l'istruzione ma di quella ormai si parla poco visto che un cretino qualsiasi dalla facile favella può raccogliere il consenso di più di un terzo degli italiani. I benefici sociali, come tutti gli altri strumenti, sono sostenuti dalla politica fiscale che intervenga in maniera progressiva sui redditi e sul patrimonio. Chi parla di giustizia sociale e di progresso senza queste premesse sta dando aria alla bocca e ormai l'aria è diventata asfissiante di alitosi insopportabile!
"Concludiamone dunque che il mondo sarebbe assai migliore se ciascuno si accontentasse di quello che dice, senza aspettarsi che gli rispondano, e soprattutto senza chiederlo né desiderarlo." José Saramago
Adori solo i complimenti e i commenti a tuo favore. Da tanta pochezza non ci si può aspettare intelligenza.
RispondiEliminaTu hai molti problemi e io non posso fare nulla per risolverli. Addio
EliminaAlcune considerazione telegrafiche dopo la lettura di questi tue due post. 1) È un piacere sapere di trovarsi finalmente di fronte a dati “veri” e certificati, lo stesso piacere di camminare sulla terraferma dopo un mese di navigazione (dico questo perché ho il sospetto) che nei talk-show importi solo vincere, anche buttando giù dati inventati, tipo quelli del precedente Ministro dell’Interno che asseriva serio che nell’ultimo semestre fossero morti in mare soltanto due migranti). Ed è un piacere sapere che come ci sei riuscito tu, chiunque può accedere agli stessi dati e verificare la solidità delle affermazioni altrui, anche se questo avviene sempre purtroppo in ritardo rispetto all’affermazione del politico o dell’esperto, quando la partita, che ha di solito la stessa durata della trasmissione è già terminata e la “vittoria” assegnata, perché la smentita si perde nel mare magnum dell’informazione e sembra non interessare a nessuno.
RispondiElimina2) Non è agevole affrontare un dibattito partendo dalle cifre o dall’interpretazione delle stesse, perché si tratta di un livello molto astratto di discussione e, purtroppo, la stragrande maggioranza delle persone non ha superato il piagetiano periodo operatorio concreto; per questo in politica (e nello spettacolo, che ultimamente sono sinonimi) ha più successo che fa riferimento agli interessi e ai sentimenti (specie ai peggiori), e ancora più successo ha non chi improvvisa o chi finge, ma chi realmente funziona a questo livello, lo scemo del villaggio, il cretino del bar che di fronte a qualsiasi informazione reagisce di pancia e si esprime parlando alla pancia e alle viscere altrui, spontaneamente.
3) Al di la di una lettura letterale, dove numeri e cifre rimangono numeri e cifre, e classifiche, e grafici, l’aspetto interpretativo è il tasto veramente dolente, anche perché nell’interpretare intervengono molti fattori che bisognerebbe conoscere, e delle competenze che non possono essere trascurate, per comprendere bene anche un solo rango percentile di differenza. Bisognerebbe da un lato elevare le competenze in ciascuno di noi, dall’altro dare più spazio ad esperti seri, rigorosi, onesti, non organici alla politica e che sappiano rendere questi dati quanto più fruibili è possibile.
Ciao
Ti ringrazio delle tue note. Direi che con la prima hai colto la mia intima volontà. Dire che questi dati sono disponibili a tutti. È vero che serve un minimo di competenza per scovarli, leggerli ma è proprio per questo che dovrebbe esistere l'universo dell'informazione, dei giornalisti che dovrebbero appunto farsi “media” tra i cittadini e sfaticati graziati dalla politica. I cittadini comuni non sono tenuti a passare la giornata per verificare le fandonie che circolano, i giornalisti sì. Qui passo al tuo secondo punto dicendo che attribuisco buona parte della responsabilità delle fandonie circolanti a quella fetta di giornalismo che ha la maggiore potenzialità di raggiungere le persone, quello televisivo dei talk show, quello delle interviste estemporanee dei tg. È vero che la bufala è avvantaggiata rispetto alla verità ma ci sono strumenti utili quanto meno per ridurre il vantaggio, per esempio quello di chiedere conto di ogni affermazione chiedendo perché, quando, come. Insomma quelle domande cui si risponde snocciolando dati, cifre, tempi di realizzazione, strumenti utilizzati, vantaggi e svantaggi delle proposte, punti deboli e punti di forza, domande cui rispondere tirando fuori documenti referenziati, studi a supporto e studi che confutano l’affermazione. A mio avviso ogni giornalista è tenuto a porre queste domande e ogni politico è tenuto a rispondere in ogni occasione che prevede una interlocuzione, se non intende farlo allora si dirà che il politico non ha le idee chiare, che non sa di cosa parla, che è un millantatore. Questo è il requisito minimo ormai per tentare di ristabilire un clima di serietà al dibattito politico che ha avvelenato qualunque altro dibattito e confronto.
EliminaRiguardo al terzo punto, lungi da me il pensare che questi dati esauriscano un discorso che è appena accennato. I numeri non sono assolutamente sufficienti, sono solo un punto di partenza e l’interpretazione è fattore critico come giustamente dici ma i numeri sono un punto di partenza e hanno il vizio di essere ottusi. Una volta stabilito il criterio per produrre o registrare il dato c’è il dato che sta fermo lì e ci sono quelli che lo leggono da diverse angolature ma il dato sta fermo lì fino a quando non si decide o si rende necessario un altro criterio per produrlo. Se uno dice che i morti in mare sono due e ci sono documenti seri che dicono che sono di più quello che dice che sono due o non capisce il significato del numero due o non capisce l’importanza dei documenti o è un manipolatore di coscienze che diffonde notizie false per proprio tornaconto. Se la percentuale di stranieri in Italia è minore di quella in Germania chi dice il contrario è un buffone, senza se e senza ma. Serve un bagno di serietà. La stessa serietà che si pretende dal medico quando vai a farti curare, la stessa serietà che si pretende dall’idraulico quando lo chiami per riparare la caldaia, la serietà che chiedi al barista che ti prepara il caffè, la serietà che si pretenda da chiunque faccia un qualsiasi lavoro. Allora perché non chiedere la stessa serietà al politico? È vero che non è un lavoro come gli altri ma non è neanche possibile che chi si candida, a qualunque livello, per reggere le sorti di una collettività sia esentato dal dare spiegazioni di quello che dice (e troppo spesso di quello che farnetica).
Ti saluto