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martedì 23 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (69)]

“Come l’annuncio cristiano, il socialismo – quello che resta o merita di restare di esso – è un radicale antinaturalismo: solo in quanto antinaturalismo si può intendere la profezia-speranza marxista della rivolta dei deboli-proletari contro i padroni-forti.”[1] Gianni Vattimo presenta il socialismo come l’antinaturale opposizione ai programmi politici di destra e alla loro “volontà di riportarsi alle differenze «naturali» come motori dell’emancipazione.”[2] Il ricorso alla natura, bisogna ammetterlo, rappresenta un elemento argomentativo dall’indubbio fascino. Il tentativo di trovare sostegno in essa costituisce una sorta di prova che renderebbe inconfutabili le asserzioni di chi vi fa ricorso, chissà perché poi! Al di là dell’insegnamento di Hume sulla incongruenza logica tra verità di fatto (che ragionevolmente potremmo considerare quelle naturali) e loro validità normativa, rimane tuttavia il dubbio su quanto realmente conosciamo della natura, o quanto di essa privilegiamo e tratteniamo nella nostra visione dei fatti!
Non mi è difficile essere d’accordo con Vattimo riguardo all’antinaturalismo del cristianesimo e del socialismo, tuttavia è necessario notare come in tale argomentazione assuma un ruolo rilevante una visione semplicistica della natura, più o meno a torto attribuita a Darwin, ossia la natura come teatro di lotta dove il più forte vince sul più debole. Indubbiamente le metafore del grande naturalista inglese hanno aiutato questa visione ma chissà come mai puntualmente ci sfugge che in natura, oltre alla onnipresente competizione vi sono altrettanti esempi di mutualismo che non sfuggirono a Darwin.
Non sarà che della natura vediamo solo ciò che ci appartiene, ci ha forgiato, ci contiene e che in definitiva siamo? Non sarà che la nostra socialità non è altro, né potrebbe essere altro, che uno strategemma evolutivo dovuto alla scarsità fisica della nostra specie di fronte alle altre specie? Non sarà che noi siamo animali sociali da poco tempo o che le condizioni della socialità sono illusoriamente finite per molti esponenti della nostra specie?
Non si esce dalla natura, la cultura può creare, trasformare e perfino distruggere la natura ma da questa non si esce, i salti ontologici sono buoni per preparare il terreno a discorsi vuoti. Sebbene sia convinzione comune che natura non facit saltus, si possono concepire salti tra differenti stati naturali, senza tuttavia uscirne. Quando l’avremo fatto non lo racconteremo a nessuno.

[1] G. Vattimo, Ecce Comu. Come si ri-diventa ciò che si era. Fazi Editore, 2007, p. 11.
[2] Ibidem

2 commenti:

  1. La mia opinione è che dovremmo parlare di “nature” non di “natura”; la concezione di natura è infatti cambiata radicalmente dai primi filosofi, detti anche “fisici” o “naturalisti”, quelli che ricercavano l’arché, il principio primo di tutte le cose, fino ai nostri giorni, passando per Nicolò Cusano, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Giordano Bruno, Galileo Galilei e René Descartes.
    Siamo noi come società, come collettività, come cultura a creare la “natura” in cui crediamo di essere immersi, e la creiamo a nostra immagine e somiglianza; se preferisci considera questo discorso un marxismo rovesciato, non è la struttura a creare la sovrastruttura a sua giustificazione, ma, viceversa, è il nostro sguardo sul mondo che crea il mondo in cui abitiamo: compresa ciò che consideriamo la nostra natura, che possiamo semplificare con tutto ciò che non è cultura, dunque con tutto ciò che non è appreso.
    Non credo esista davvero qualcosa di non appreso, semmai esiste qualcosa di cui non siamo consapevoli di aver appreso: oltre al nostro pensiero razionale, simbolico e linguistico esiste un universo a-simbolico, procedurale, che ci permette di fare molte cose e di conoscere senza pensare (noi lo chiamiamo il “conosciuto non pensato” o “esperienza non formulata”), ciò che sappiamo e non sappiamo di sapere ma che si esprime comunque nel fare (quando si dice che le mani sanno ciò che stanno facendo, ma non siamo in grado di dirlo con parole).
    Come un secchio della spazzatura, spesso abbiamo usato il concetto di natura (ma anche di inconscio, o di istinto) come tutto ciò che non sappiamo giustificare e che come fa uno schizofrenico, tendiamo ad attribuire a qualcosa di esterno oche ci sovrasta e di cui non ci sentiamo responsabili.
    Forse, se proprio vogliamo parlare di natura, dovremmo cominciare a pensarla non come qualcosa di reale che esiste al di la di noi e a cui dovremmo “adattarci” o che dovremmo adattare alle nostre esigenze (cosa che abbiamo fatto fino ad adesso), ma come qualcosa creato da noi, un edificio forse imprescindibile per rappresentare tutto ciò che non siamo noi, non è propriamente umano (seppure noi ne siamo parte), e il cui unico criterio di validità circa questa creazione collettiva del concetto di natura è la confortevolezza e l’abitabilità di questo edificio.
    Sono stati creati concetti di natura, in un passato recente, logicamente e razionalmente ineccepibili, ma eticamente disumani; nello stesso tempo sono nate ideologie molto condivisibili, ma dotate di scarsa concretezza e realizzabilità, che si sono trasformate in altrettanti incubi.
    Ciao

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  2. Non c'è concetto più culturale di quello di natura, diciamo che è indubitabile l'esistenza di una serie di vincoli strutturali che sono in relazione con la nostra abilità di percepirli e definirli attraverso un processo culturale. I due piani si intersecano inevitabilemnte, anche a livello biologico, sono relativamente recenti le acquisizioni dell'epigenetica che pochi decenni fa era una bestemmia.
    Hai ragione a parlare di nature, è di pochi anni fa un bellissimo libro di Paul Ehrlich che intitolò "Le nature umane", Ehrlich è un grande evoluzionista che ha condotto ricerche molto importanti nel camo della coevoluzione delle specie. Mi piace il riferimento al "marxismo rovesciato" perché mi porta in un gioco di specchi in cui il dritto e il rovescio si scambiano non senza vertigine. Nella tua analogia struttura-natura e sovrastruttura-cultura si specchiano nel concetto marxiano struttura-economia e sovrastruttura-ideologia che non fa riferimento ai rapporti economici. Una delle filiazioni più rilevanti del pensiero marxiano e del pensiero di sinistra in generale è proprio la rilevanza del "culturalismo" perché l'uomo possa emanciparsi. Per Marx era essenziale cambiare i rapporti economici, la struttura. Ecco, forse non dobbiamo seguire l'analogia fino in fondo, altrimenti dovremmo cambiare la natura quando basta cambiarne il concetto. E' vero che creiamo il mondo, in termini di weltanschauung, ma è altrettanto vero che il mondo crea noi, ponendo vincoli all'edificio che costruiamo. E' salutare prenderne atto, si eviterebbe la corsa verso l'estinzione che non vedo improbabile. Ciao

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