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sabato 18 aprile 2009

Individuo a venire e società possibile

Una carta geografica del mondo che non comprenda Utopia non merita neanche uno sguardo, giacché lascia fuori l’unico paese al quale l’umanità approda di continuo. E quando l’umanità vi arriva guarda altrove, e scorgendo un paese migliore, alza le vele e riparte. Il progresso è la realizzazione delle Utopie.” Oscar Wilde.

Una lettura, forse superficiale, del comportamento egoistico dell’individuo nella società contemporanea potrebbe partire dalla premessa se l’individuo sia buono o cattivo per natura. Ma, evitando di ricorrere a simili “robinsonate”, è utile considerare che l’individuo è l’indivisibile che instaura relazioni con i propri simili e si relaziona con l’ambiente che lo circonda. L’individuo è entità aperta agli scambi e non può essere concepito se non nel quadro di questi scambi. L’individuo riconosce sé stesso e l’altro da sé in relazione all’educazione ricevuta, alle esperienze vissute e sicuramente ad aspetti concernenti la sua natura biologica. Se sugli aspetti che potremmo definire naturali dell’individuo non si può e non si intende agire, sugli aspetti culturali appare doveroso aprire una riflessione ai fini di un possibile intervento. Pertanto il dualismo da sciogliere riguardo all’individuo non è buono-cattivo ma se questo è atomo nebulizzato o composto complesso che sorge nella relazione con l’altro. In queste relazioni, che hanno l’impronta della contingenza storica, l’individuo prende forma. Si potrebbe dire che l’individuo è nelle sue relazioni.

La dimensione soggettiva è un ibrido di risonanza, per continuare ad usare la metafora presa in prestito dalla chimica, tra quella individuale e quella sociale. La storia del secolo scorso ha mostrato gli esiti tragici dell’estremizzazione di ciascuna delle due polarità ma ha mostrato anche quanto il soggetto sia il risultato di un contesto formativo, in termini squisitamente pedagogici. Contrariamente ai vaniloqui della baronessa Thatcher, che affermava che la società non esiste e che esistono solo gli individui, l’individuo si costituisce nel contesto sociale che a sua volta contribuisce a creare, in un intreccio di relazioni che comportano scambi di valori affettivi, materiali, simbolici. Valori che coinvolgono aspetti privati e pubblici, se vogliamo connotare con questi termini due sfere che interessano membri più o meno legati da vincoli di parentela. Senza voler assegnare alcun primato all’economia, che da alcuni decenni potrebbe paradossalmente esser tacciato d’eresia marxiana più da sinistra che da destra, mi pare abbastanza evidente che il modello economico all’interno del quale si esplicano le relazioni tra soggetti ricopra un ruolo determinante nella formazione dell’entità individuale. Il modello economico, come qualunque modello che abbia valenza sociale, definisce metafore, significati e valori di cui si intridono le nostre esistenze. Per una critica sociale trovo più interessanti questi aspetti che non le prestazioni dei diversi modelli economici. Per quanto sia consapevole della difficoltà di operare una separazione delle due istanze, sono tuttavia convinto che la difficoltà si fa insanabile solo se le prestazioni di un modello economico diventano l’unico metro di valutazione indipendentemente dalle sue premesse costitutive

Attualmente i paesi cosiddetti sviluppati condividono un comune modello economico di matrice capitalistica. La liberazione dai bisogni materiali, con cui il capitalismo è identificato in occidente (ho qualche sospetto che dobbiamo aspettare solo pochi anni per tralasciare la connotazione geografica), ha permesso di trasformare un modello economico storicamente contingente in un paradigma sociale con tratti di ineluttabilità. L’esplosione economica successiva alla II guerra mondiale ha liberato grandi masse dalla povertà, ma non ha considerato alcun progetto politico di grande respiro per la realizzazione di un sostrato di adesione sociale che affiancasse la sfera dei bisogni materiali. Se ciò che era rimasto della tradizione liberale ha lasciato questo spazio alla ‘libera’ iniziativa dell’individuo-atomo, ciò che era rimasto della tradizione socialista, confluita nella socialdemocrazia, ha fondato la sua azione “sul presupposto della crescente armonia interna di una società che era ormai soddisfatta nei suoi bisogni fondamentali, benché fosse migliorabile; essi [i testi del riformismo socialdemocratico, nota mia] si fondavano cioè sulla fiducia in una economia di consenso sociale organizzato. Quel consenso non sopravvisse alla fine degli anni ’60.”[1]

La dimensione sociale e squisitamente umana è stata data per scontata dalla tradizione liberale come da quella socialdemocratica, perché entrambe hanno creduto che questa sarebbe conseguita alla soddisfazione dei bisogni materiali, ma è stato qui l’errore. Già nel 1921 Robert Musil ci metteva in guardia: “l’organizzazione spirituale non tiene il passo con la crescita numerica […] Ci vuole una politica di organizzazione spirituale: è questione di vita o di morte”[2]. La ‘progressiva’ semplificazione del soggetto umano nella moderna società capitalistica fu esaminata a partire dagli anni ’40 dai pensatori della Scuola di Francoforte che riconobbero nella deriva fascista e nazista gli esiti finali di una logica del dominio. Horkheimer e Adorno ritennero “che è lo stesso illuminismo, nato per liberare gli uomini dai miti, per avviarli a un ordine razionale e renderli padroni della natura e di sé stessi, a produrre nuovi miti: la scienza, la tecnologia, il progresso, l’efficienza”.[3] In piena età di espansione economica Günther Anders poneva la sua attenzione sull’inadeguatezza del nostro apparato emotivo, ovvero sulla “vergogna prometeica” di fronte alla potenza tecnica per cui “ciò che si può fare si deve fare”[4].

Il rapporto con la tecnica non è una novità dei nostri tempi, è stato oggetto di riflessione fin dal mito di Prometeo[5]. Si è sempre trattato di un rapporto conflittuale che ha oscillato tra la necessità dell’“animale incompiuto” di ricorrere alla tecnica e il terrore di esserne dominato. Se un tempo tale rapporto si configurava lungo un asse i cui poli potevano ancora distinguersi (per quanto artificiosa potesse essere la distinzione), oggi tale distinzione appare assurda, poiché la tecnica si pone come “orizzonte totale” al cui interno l’uomo si muove. In questo orizzonte appaiono inconcepibili soluzioni ai problemi umani che esulino dal confine tecnico, le uniche soluzioni plausibili sono esse stesse tecniche[6]. In controtendenza a tale assunto Paolo degli Espinosa[7] ha recentemente messo in luce come l'espansione razionale, tecnologica e produttiva abbia prevalso sulla realizzazione di un modello sociale che ponesse al centro i “beni relazionali” e le “esigenze di significati” dell’uomo e traccia gli elementi di un intervento finalizzato ad accrescere il capitale sociale facendo leva sui “bisogni culturalizzati” della specie umana.

La condivisibile critica ad una ragione puramente strumentale, non deve far cadere il sospetto che i problemi del nostro tempo (crisi sociale ed ambientale) siano dovuti ad un difetto di razionalità più che ad un eccesso, a patto di restituire al concetto di razionalità quel respiro ampio che richiede. Un respiro che le esigenze della produzione e del consumo senza limiti hanno reso corto muovendosi in un contesto di mera riproducibilità tecnica ormai estranea alla natura fisica ed agli stessi bisogni umani. Habermas, riferendosi al testo di Horkheimer e Adorno ed alla riduzione della razionalità alla sua forma tecnica e strumentale, fa notare che “La Dialettica dell’Illuminismo non rende giustizia a quel contenuto razionale della modernità culturale che è stato custodito negli ideali borghesi (e con essi anche strumentalizzato): intendo la dinamica teoretica propria che sempre torna a spingere le scienze, e perfino l’autoriflessione delle scienze, oltre la produzione di sapere tecnicamente utilizzabile; intendo ancora le basi universalistiche del diritto e della morale, che hanno trovato anche un’incarnazione (sia pure incompleta e distorta) nelle istituzioni degli Stati costituzionali, in forme di educazione democratica della volontà, in modelli individualistici di formazione dell’identità; intendo infine la produttività e la forza dirompente di profonde esperienze estetiche, che strappano dal suo proprio decentramento una soggettività liberata da imperativi dell’attività utilitaria e da convenzioni della percezione quotidiana.”[8]

Dopo l’implosione del comunismo, i cui sviluppi stalinisti erano tra gli elementi alla base della teoria critica di Horkheimer e Adorno[9], il modello capitalistico è rimasto senza altri modelli economici con cui confrontarsi. La perdita di questa dialettica, che anziché accrescere la dimensione sociale dell’umanità ne ha accresciuto l’apparato tecnologico e gli armamenti, ha sancito di fatto un modello di successo che dalla scala planetaria si è diffuso a quella individuale. Il modello capitalistico, passato attraverso questi processi storici, pur continuando a richiamarsi alla tradizione liberale, ne ha dimenticato la complessità morale non mostrando più alcuna dimestichezza ad argomentare tra le libertà che hanno assillato i pensatori del liberalismo ("libertà da", "libertà di", libertà etica, libertà naturale,…). Come ci ha insegnato Norberto Bobbio, da questo filone di pensiero, insieme alla concezione individualistica della società, hanno avuto origine i diritti dell’uomo, ma dalla ‘selezione storica’ delle libertà è sopravvissuto solo il concetto di libertà naturale, o edonistica o utilitaristica. In tale deserto culturale si muove l’attuale modello capitalistico, nell’esaltazione dell’individuo dotato di quella libertà ‘sopravvissuta’ che lo rende consumatore di beni materiali, consumatore tanto più ideale quanto più standardizzato.

I beni materiali non si sono aggiunti ai beni affettivi ma hanno scalzato questi ultimi che richiedono un solenne impegno di partecipazione che i primi non chiedono, un impegno che sarebbe di ostacolo alla produzione in serie di beni materiali facili da fruire e soprattutto deperibili. Quello che ne risulta non è l’individuo che la tradizione liberale ha concepito. E’ sempre più facile notare nelle persone imbarazzo nella manifestazione della propria sfera emotiva, imbarazzo che non si prova affatto nell’esibizione di beni materiali. Naturalmente non parlo dell’apprezzabile pudore in ciò che concerne i sentimenti, sempre più avvilito dalla pornografia televisiva del dolore, ma piuttosto di un vero e proprio stravolgimento nell’ordine degli interessi umani. Il punto è proprio qui, per essere veramente individui occorre saper riconoscere cosa realmente ci caratterizza, se un’auto nuova o le relazioni sociali che instauriamo senza il ricorso a strumenti accessori. Nei Lineamenti di filosofia del diritto Hegel ci ha mostrato il significato profondo della “presa di possesso” delle cose ai fini del riconoscimento: “Per la proprietà, in quanto esistenza della personalità, non è sufficiente la mia interna rappresentazione e volontà, che una certa cosa debba esser mia; ma si richiede, a tal fine, la presa di possesso. L’esistenza, che quella volontà per tal mezzo consegue, racchiude in sé la riconoscibilità per gli altri.”[10], ma se Hegel delineava chiaramente quale fosse il mezzo e quale il fine, nella prassi attuale si opera un rovesciamento dei termini e non si manifesta alcuna preoccupazione per quanto il filosofo scriveva poche pagine dopo: “Della mia proprietà posso spogliarmi, poiché essa è mia, soltanto in quanto pongo in essa la mia volontà; – sì che io lascio andare da me (derelinquo) la mia cosa, in genere come adèspota, o la abbandono in possesso, alla volontà altrui; – ma soltanto in quanto la cosa è, per sua natura, un che di esteriore. Quindi sono inalienabili quei beni, o più tosto quelle determinazioni sostanziali, così come è imprescrittibile il diritto ad esse, le quali costituiscono la mia persona più propria e l'essenza universale della mia autocoscienza, come la mia personalità in generale, la mia universale libertà di volere, eticità, religione.”[11] Marx, dalla prospettiva dei processi produttivi e delle dinamiche sociali da questi innescate, aveva visto chiaramente i pericoli del capovolgimento dei mezzi in fini, preconizzando quel processo di reificazione dell’uomo che lo avrebbe trasformato in cosa tra le cose. Marx si muoveva in un contesto umanistico e riconosceva all’uomo la capacità di soffrire l’alienazione e di opporvisi, capacità che viene meno in un contesto di “identificazione dell’uomo con la tecnica che, assurta a Soggetto, traduce i presunti soggetti umani in suoi predicati.”[12] Tecnica della produzione materiale e dell’accumulo che, nel suo processo di autonomizzazione, non ha trovato alcun interlocutore valido nella tecnica dell’organizzazione sociale, ovvero nella Politica, la “tecnica regia” che ha il supremo compito di costruire le condizioni perché gli individui agiscano decidendo delle finalità dell’agire stesso, riconoscendosi in sé stessi e nella collettività che condividono.

L’individuo quindi non è ancora nato dall’emancipazione dai bisogni materiali, anzi la sua nascita ne è stata fortemente ostacolata. L’uomo è quell’animale capace di creare in sé simboli per rappresentarsi la realtà che vive. Il simbolo è ciò che lo lega agli enti, il ponte che gli consente di tornare a sé per costruirsi una coscienza di quanto lo circonda e lo stimola. L’attività simbolica è un’arma a doppio taglio perché se da un lato gli consente di rappresentarsi il mondo per costruirlo e in-formarlo in sé e di sé, dall’altro lato, per la sua natura astraente, può essere un potente elemento di dissociazione e se l'uomo rimane sul ponte o, peggio, all’interno degli enti che si è rappresentato non resta altro che l’alienazione e tutto il suo essere resta nelle cose. Questa è a mio avviso una peculiarità tipicamente umana, tanto che si potrebbe parlare della scimmia schizofrenica più che della scimmia nuda. Il pericolo della alienazione nelle cose è ripagato dalla stessa sostituibilità degli oggetti che compensa insidiosamente l’innato terrore nei confronti della irreversibilità della vita. Si tratta di una pia illusione, non vivere quel terrore significa semplicemente non vivere. Del resto, sempre da un punto di vista simbolico, il consumo non è legato alla vita bensì alla morte, alla continua uccisione dell’oggetto, che muore al nostro posto. A proposito della produzione industriale Günther Anders sosteneva: “la mortalità dei suoi figli è la garanzia della sua immortalità e della nostra.”[13]

Se l’individuo è colui che sa individuarsi nella massa, che si dota della capacità di riconoscere la propria irriducibilità, unicità e irreversibilità nel contesto sociale che vive, allora questo processo di individuazione, o “riconoscimento”, è attualmente ostacolato dai processi di produzione prima e consumo poi, poiché per entrambi i processi la standardizzazione è efficienza, nell’epoca della globalizzazione più che mai. L’emancipazione dai bisogni materiali ha allentato i legami di solidarietà dei gruppi sociali ma questo non ha creato l’individuo emancipato ma solo lo “sciame di consumatori”. Zygmunt Bauman afferma: “è questa fragilità, che si cela sotto l’apparente facilità di liberarsi delle identità individuali e dei legami sociali, ciò che viene rappresentato – nella cultura contemporanea – come l’essenza della libertà. L’unica scelta che questa “libertà” non potrebbe in alcun modo riconoscere, né facilitare o consentire, è la decisione (o forse l’abilità) di perseverare nell’identità che ci siamo già costruiti: il tipo d’attività, cioè, che presume – e necessariamente comporta – la protezione e la sicurezza della rete sociale su cui quell’identità si appoggia, nel momento stesso in cui la riproduce attivamente.”[14]

Buona parte della riflessione filosofica e religiosa intorno all’etica non può dirsi priva di responsabilità riguardo alle alterazioni del concetto di individuo che viviamo. L’insostenibile rifiuto di una matrice eudemonistica ed individualistica, rifiuto peraltro smentito se non dalla biologia dalla diffusa massima “ama il prossimo tuo come te stesso[15], ha fatto sì che troppo spesso l’amor proprio, che Fernando Savater pone come fondamento etico sulla scia di Spinoza, venisse presentato come egoismo. Tale impostazione, forse a causa di una “moralite” kantiana preferita al conatus spinoziano (va bene la letizia ma quella di Spinoza è troppo incerta!), non permette di risolvere quel “disastroso antagonismo posto dalle morali eteronome tra amore per sé stessi e amore per gli altri.”[16] Il filosofo spagnolo entra nel merito di tale “disastroso antagonismo” rilevando come “la modernità, che ha reso l’individualismo non solo socialmente possibile ma obbligatorio, lo carica di un senso di colpa ideologico, lo accusa di asocialità (come se non fosse nato dall’evoluzione stessa della società), egoismo, eccetera, e prevede profeticamente che sarà causa dei peggiori mali tanto per il gruppo che per il singolo membro atomizzato”[17] lasciando spazio al dispiegamento di sistemi, una volta ideologici ed oggi economici, che “confondono il desiderio individuale, del tutto ragionevole, di partecipare con altri alla lotta per ottenere qualcosa con l’ansia atavica e assolutoria di appartenere a qualcosa (di preferenza a qualcosa di incarnato in qualcuno).”[18]

Nell’odierna società sviluppata i disagi dell’auto-realizzazione dell’individuo, frutto dell’abbandono del discorso sulle libertà e della confusione intorno al concetto di individuo, sono celati nelle pieghe delle democrazie, dove la prassi ne tradisce i fondamenti, e nelle discrasie intellettuali, dove per fare un esempio la banale conquista di nuovi mercati viene scambiata con l’altisonante globalizzazione. Se da un punto di vista pratico la correzione dell’attuale modello capitalistico è un compito arduo, altrettanto impegnativo è il compito teorico di muoversi nel magma culturale che lo caratterizza, un magma in cui Politica ed Economia si mescolano, non solo da un punto di vista affaristico ma su un piano squisitamente concettuale, in cui una strategia di mercato viene presentata come un grande movimento culturale e via dicendo. Il compito della critica è reso ancor più difficile se l’occidente continuerà a sospirare davanti ai suoi romantici tramonti che periodicamente la dialettica tedesca ci propone e che, attualmente nell’ansiosa ricerca di ancelle per la fede, non si preoccupa di operare alcuna distinzione tra ragione, scienza e tecnica[19]. Nella lettura dell’attuale condizione di spaesamento dell’individuo mettere nello stesso calderone ragione, scienza, “lo sviluppo tecnologico e l’industrializzazione con esso collegata”, a mio modesto parere rivela una certa superficialità interpretativa. Se “la spietata lezione dell’identità di dominio e ragione” aveva un senso e un fondamento nella critica sociale di Horkheimer e Adorno, meno sensato appare oggi, soprattutto da parte di detentori del potere (sia pure morale), non tenere conto che le due sfere della ragione e del potere “sono talmente intessute l’una nell’altra che devono essere separate proceduralmente, e cioè sempre di nuovo, dal pensiero mediatore. […] i partecipanti al discorso devono presupporre che sotto le inevitabili premesse comunicative del discorso argomentativo si riveli solo la libera costrizione dell’argomento migliore.”[20]

A complicare ancora di più le cose concorre la natura polisemica del termine potere. Il razionalista inglese Bertrand Russell faceva notare che “la scienza come forza intellettuale è scettica e in qualche modo distrugge la coesione sociale, mentre come forza tecnica ha proprio le qualità opposte”[21]. Il riduzionismo ed il determinismo di cui si accusa la scienza, con esemplare anacronismo, non è della stessa natura del riduzionismo e determinismo tecnico, l’uno si inscrive nel quadro analitico e procedurale del potere come apertura al possibile, l’altro affonda le sue radici nell’antropologia del potere come realizzazione del dominio sulle coscienze e sui corpi. Indubbiamente il “possibile” senza confini che siano collettivamente considerati invalicabili può portare a conseguenze devastanti, ma è dalla vituperata tradizione illuminista che sorge la consapevolezza del limite che caratterizza proprio la ragione di cui la scienza dovrebbe alimentarsi. “Kant ritiene che l’Illuminismo debba segnare un limite della pretesa di un sapere universale, di cui invece si alimentano le religioni, le teosofie e le metafisiche”[22], sarebbe pertanto davvero sorprendente scoprire che se la radice del disagio contemporaneo è attribuibile, secondo alcuni pensatori odierni, alla tradizione illuminista, gli esiti sono invece dovuti alla commistione di questa cultura con “altre forme di conoscenza” di matrice fideistica, ma questo è un altro discorso. Per farla breve, volendo tracciare un bislacco continuum che va dalla ragione alla produzione industriale passando per la scienza e la tecnica, potremmo disegnare una linea parallela a quella che va dalla fame di conoscenza e significati alla morte per indigestione dopo un’abbuffata di cibo guasto.

Per tornare al tema di questo intervento, come afferma Urlich Beck, “nessuno, oggi, mette più in discussione il capitalismo. Chi potrebbe osarlo? L’unico vero avversario del capitalismo è lo stesso «capitalismo del puro profitto»”[23]. Se il capitalismo è l’unico modello economico sopravvissuto, allora per criticarlo e possibilmente riformarlo occorre richiamarsi a quella tradizione liberale che lo ha partorito. Oltre ad un progetto di riforma occorre un approfondito riesame di molti concetti sui quali la nostra società sviluppata è convinta di essere nata ed è convinta di continuare a prosperare. Forse solo così è possibile superare le aporie in cui il modello capitalistico o, secondo molti, la sua degenerazione ci ha condotto, in termini di disintegrazione sociale e di degrado ambientale.

L’ambiente culturale in cui si forma l’individuo è dominato da una visione economica che ignora le tematiche etiche, intese sia come ethos collettivo che come rispetto di sé. E’ ancora più grave che si ignorino le conseguenze dell’agire ad ampia scala spaziale ed a lungo termine. La miopia per tali dinamiche non è un problema di tempi recenti ma, a mio avviso, una caratteristica insita nell’evoluzione degli uomini[24] che oggi si rivela particolarmente controproducente. L’evidenza di una progressiva degenerazione dell’ambiente che ci ospita come conseguenza delle attività umane deve spingere ad una rivisitazione dei concetti di razionalità e di utilità che hanno pervaso l’economia classica. In tal senso si muove l’opera di Amartya Sen[25], che tuttavia fa notare come tali concetti siano stati sviluppati in un contesto che aveva maggiormente presenti aspetti di carattere morale di quanto non faccia pensare il ‘superstite’ concetto di razionalità legato all’interesse personale, attribuito ad Adam Smith da una certa vulgata, ed il concetto di utilità, così miseramente privato di quelle implicazioni inerenti la valutazione soggettiva.

I concetti di razionalità e di utilità non sono enti avulsi dal contesto storico in cui si sviluppano, la razionalità e l’utilità in un mondo che non doveva fare i conti con i limiti naturali ed in cui gli effetti delle azioni umane non si estendevano molto lontano nello spazio e nel tempo non possono avere lo stesso impianto che devono avere in un mondo consapevole dei rischi ambientali. Tali rischi sono dettati dai limiti fisici di disponibilità di risorse in relazione al numero di persone, alle loro esigenze ed alla attuale capacità da parte dell’uomo di ‘agire’ a scale spaziali e temporali un tempo inimmaginabili. Il concetto di razionalità si commisura con i mezzi da adottare per raggiungere determinati fini, ma quali sono i fini? È nella risposta a questa domanda che si modula la razionalità e l’utilità. Un proverbio africano dice “se vuoi correre veloce vai da solo, se vuoi andare lontano vai con gli altri”. Attualmente la formazione dell’individuo avviene in un contesto che tralascia sempre più la seconda parte di questo proverbio. Nel mondo del lavoro e da parte dei mass media vi è una costante esposizione a modelli competitivi a scapito di modelli cooperativi[26], il soggetto emerge sugli altri perché vincente, la posta in gioco è quasi sempre il denaro.

In tale contesto, l’unico “equivalente generale” o “generatore simbolico” del valore dell’individuo è il denaro; questo almeno per la gente comune, mentre nelle alte sfere della programmazione economica si chiama ‘crescita economica’. Rifacendosi a Weber il potere della produttività economica di stampo capitalistico ha una matrice religiosa che è difficile mettere in discussione e che necessita di argomenti altrettanto forti da contrapporre. Argomenti che consentano la costruzione di un’immagine di sé dell’individuo e di una immagine collettiva. In altre epoche ciò è stato determinato dalla necessità di opporre ‘resistenza’ ad un pericolo, oggi il rischio ambientale e sociale, le instabilità economiche che contrassegnano l’attuale società rispetto a quella di qualche generazione fa, chiedono la costruzione di un individuo e di una collettività necessariamente compatibili con i limiti ambientali. Le situazioni difficili fanno spesso emergere comportamenti collettivi che in condizioni ‘normali’ rimangono latenti. E’ anche vero che in tali condizioni non mancano comportamenti di individualismo estremo, ma di fronte al disastro l’ottimismo prudente è un dovere quasi morale!

Sono molti gli autori che tentano di delineare vie d’uscita dall’impoverimento sociale e dalla crisi ambientale che fanno da contraltare ad un modello di sviluppo economico senza reali riferimenti alle più profonde esigenze umane. Paolo degli Espinosa[27] si propone di esaminare l’attuale contesto sociale ed economico per tracciare un ambizioso progetto di riforma del capitale intorno alla figura di “individuo socializzante”, figura capace di responsabilità sistemica che ha esigenze di vita che prediligono i valori relazionali e che tuttavia non può pienamente realizzare con le sue sole forze. “L’opportunità individuata è quindi di collegare la dimensione dei problemi internazionali con quella del micro-cosmo, quindi con il cambiamento dei contenuti del benessere individuale e delle funzioni attive dell’individuo, a partire dalla realizzazione sul territorio di nuove soluzioni per la vita quotidiana, umanamente e ambientalmente sostenibili. La proposta è basata in particolare sulla valorizzazione dell’‘individuo socializzante’ e sulla convergenza dei tre elementi accennati, ambiente, stile di vita, lavoro. Per la sua attuazione richiede rilevanti cambiamenti culturali, politici e istituzionali, per cui, rispetto alla prospettiva politica, può inquadrarsi come necessità di una II riforma del capitalismo, da avviare con priorità a livello europeo, considerando come I riforma quella degli anni ‘60”[28].

La proposta di degli Espinosa presenta molti punti in comune con le considerazioni sviluppate da Beck[29] nel suo libro dedicato ai possibili sviluppi del mondo del lavoro nella “seconda modernità”, caratterizzata dalla perdita delle certezze coltivate nella prima modernità. Secondo Beck la crisi del lavoro salariato non può essere risolta con gli strumenti del passato e con la stessa logica che, bene o male, l’ha determinata. Il sociologo tedesco vede la soluzione nel “lavoro d’impegno civile” che affiancandosi al lavoro salariato getta le fondamenta per una nuova partecipazione democratica. Al reddito da lavoro subentra il “reddito di cittadinanza”, in maniera complementare e sulla base di una libera scelta da parte dei soggetti. L’analisi di Beck tuttavia, sebbene convincente sul piano sociologico, non chiarisce pienamente gli aspetti prettamente economici, direi quasi contabili, non propone un percorso di aggregazione sociale tra soggetti e mette in risalto una componente volontaristica che a mio avviso è insufficiente se non è affiancata da un progetto politico di riorganizzazione sociale ed economica. Al contrario degli Espinosa assegna un ruolo fondamentale alla politica ed all’assetto istituzionale: “Pur essendo evidente, conviene specificare che, per realizzare i nuovi obiettivi, le relative politiche pubbliche dovranno prevalere rispetto alla spontaneità del mercato. Più specificamente, osserva l’economista Claudio Cesaretti (comunicazione privata, 2006) occorre «la riaffermazione del ruolo della politica nel controllo dell’economia, in particolare sul meccanismo della crescita e della utilizzazione del surplus».”[30] Si tratta, in estrema sintesi, di realizzare un contesto politico normativo in cui sia operativa una “leva di domanda mirata” perché vi sia “disponibilità per tutti di contesti e servizi di qualità”.

Come emerge dagli incontri del Gruppo della Garbatella[31], al centro dell’analisi di degli Espinosa è evidente il bisogno di stima degli individui e la categoria hegeliana del “riconoscimento”. L’attenzione di una possibile riforma non deve quindi essere rivolta solo all’individuo lavoratore ma all’individuo che sta dietro e oltre il lavoratore e che “oggi è maltrattato”, come Paolo ama dire. Se, in linea di principio, tale assunto è condivisibile, non si può tuttavia ignorare che una buona fetta del riconoscimento sociale dei soggetti sia dovuta ancora alla loro attività lavorativa e pur condividendo parte della critica alla tradizione socialdemocratica, che “difende il lavoratore solo nell’ambito del lavoro”, ritengo che il paradigma della distribuzione, caro alla socialdemocrazia, meriti ancora qualche attenzione anche dal punto di vista teorico, soprattutto in ragione della necessità di estendere i limiti di questo paradigma tradizionalmente confinati nel ristretto ambito lavorativo. La redistribuzione non può riguardare solo i risultati di un’attività produttiva in termini di godimento di beni materiali ma, in senso più ampio, le opportunità di espressione degli esseri umani. Solo la convinzione che lo sviluppo umano sia una faccenda di ‘soldi in tasca’ possono far trascurare questi aspetti della redistribuzione.

Nancy Fraser e Axel Honneth hanno recentemente discusso intorno ai due paradigmi normativi del riconoscimento e della redistribuzione.[32] Entrambi gli autori rifiutano la concezione economicistica che riduce il riconoscimento a mero epifenomeno della distribuzione ma se Honneth persegue una sorta di monismo normativo nel nucleo del riconoscimento, Fraser propone un “dualismo di prospettiva” che fa convivere i due paradigmi nel tentativo di definire una teoria politica della giustizia. Secondo Fraser “tanto la condizione oggettiva quanto la condizione intersoggettiva sono necessarie alla parità partecipativa. Nessuna delle due da sola è sufficiente. La condizione oggettiva mette a fuoco le preoccupazioni tradizionalmente legate alla teoria della giustizia distributiva, in particolare quelle riguardanti la struttura economica della società e i differenziali di classe definiti economicamente. La condizione intersoggettiva mette a fuoco le preoccupazioni recentemente evidenziate dalla filosofia del riconoscimento, in particolare quelle riguardanti l’ordine di status della società e le gerarchie di status culturalmente definite. Così, una concezione bidimensionale della giustizia, orientata al principio della parità partecipativa, comprende la redistribuzione e il riconoscimento, senza ridurre l’una all’altro.”[33]

D’altra parte Honneth afferma che “non si è mai potuta elaborare la dimensione normativa del malcontento sociale nel marxismo a causa delle implicite assunzioni circa un’antropologia più o meno utilitarista: soggetti socializzati sono fondamentalmente considerati non come attori morali, contraddistinti da pretese normative e corrispondenti vulnerabilità, ma come attori razionali e intenzionali, i cui interessi particolari possono essere ascritti in maniera adeguata.”[34] Pertanto la sua lettura dei movimenti del lavoro individua “il nucleo di tutte le esperienze di ingiustizia nel rifiuto del riconoscimento sociale, nei fenomeni dell’umiliazione e del disprezzo”[35] e concepisce “le esperienze di ingiustizia lungo un continuum di forme di misconoscimento – o di disprezzo – le cui conseguenze sono determinate da quelle qualità o capacità che quanti coinvolti considerano essere ingiustificatamente non riconosciute e non rispettate.”[36] Honneth quindi, a differenza della Fraser, considera la redistribuzione come una “forma ‘giuridica’ di riconoscimento”.

A mio avviso il riconoscimento di Honneth, posto come unico fondamento normativo, non è privo del rischio della deriva identitaria e può essere soggetto ad una critica che per certi versi potrebbe svelare esiti paradossali per lo stesso impianto teorico di Honneth, ovvero il riconoscimento intersoggettivo rischia di passare attraverso gli oggetti, diventa allora una sorta di riconoscimento di seconda mano, in altre parole non si riconosce il soggetto in quanto tale bensì la funzione del soggetto, o uno dei suoi attributi: il consumatore di oggetti, il possessore di oggetti, ecc. Al di là della diatriba filosofica tra i due paradigmi e sul fondamento motivazionale delle lotte sociali, che può avere il suo fascino, rimane il fatto che una classe o status di soggetti percepisce misconoscimento solo in un contesto di disuguaglianza e che alcune richieste di riconoscimento sono precluse perché si fa parte di una classe economica piuttosto che di un’altra. E’ evidente “che ogni gruppo umano […] deve assicurare tramite mezzi tecnici adeguati la sussistenza e la sopravvivenza fisica degli individui che lo compongono, la comodità che è ragionevole attendersi e una certa abbondanza, insieme al riconoscimento reciproco dei suoi membri. Questo riconoscimento (di status, di diritti e doveri, di umanità insomma) non basta che sia puramente interpersonale, ma deve essere obbligatoriamente istituito nel contesto sociale, ed è imprescindibile per il gruppo come l’approvvigionamento di viveri o la difesa contro le aggressioni esterne.”[37] Per semplificare, ma non troppo, il contadino o l’operaio, in seguito dirò di altre figure ‘emergenti’, esperiscono riconoscimento morale e ricavano dal proprio lavoro quanto occorre per vivere bene fino a che non possono evitare il confronto con un sistema culturale ed economico che rende impossibile soddisfare l’una e l’altra esigenza. E’ necessaria quindi una lettura integrata tra le istanze di riconoscimento e le politiche di distribuzione. In una società che si dica organizzata le prime non possono realizzarsi in un contesto puramente intersoggettivo e le seconde non possono riguardare solo l’accesso ai beni materiali ma anche l’accesso ai servizi dai quali dipende la qualità ambientale e relazionale nonché, e direi soprattutto, l’apertura di spazi di partecipazione all’esperienza di organizzazione collettiva continuamente in divenire. Come dice Paolo degli Espinosa, “non si tratta di retribuzioni da considerare soltanto una per una, ma di partecipazione ad una impresa comune”.

Se l’impresa comune per eccellenza è la forma di governo che una collettività si dà, appare utile considerare, sia pur brevemente, i possibili effetti che una valorizzazione (nel senso morale di assegnazione di valore) della “partecipazione ad una impresa comune” avrebbe sulla necessità di coniugare le due forme di democrazia, rappresentativa e partecipativa per arginare la disaffezione sempre più diffusa dalla politica e la conseguente crisi delle democrazie occidentali. Tale crisi, secondo Paul Ginzborg, ha tratti comuni con quanto qui considerato a proposito del disagio dell’individuo.[38] Già diversi anni fa Norberto Bobbio chiariva che “il flusso del potere non può avere che due direzioni: o è discendente dall’alto in basso, o è ascendente, cioè sale dal basso in alto”[39] e che “se di processo di democratizzazione oggi si può parlare, esso consiste non tanto, come spesso si dice erroneamente, nel passaggio dalla democrazia rappresentativa alla democrazia diretta, quanto nel passaggio dalla democrazia politica alla democrazia sociale, ovvero nella estensione del potere ascendente.” […] “Ci si è resi conto che altro è la democratizzazione dello stato, il che è avvenuto per lo più con l’istituzione dei parlamenti, altro è la democratizzazione della società”.[40] Come ci ricorda Paul Ginzborg, il passaggio “dalla democratizzazione dello stato alla democratizzazione della società” auspicato da Bobbio non ebbe luogo, e tra le varie responsabilità del fallimento sono sicuramente da considerare “la mancata volontà dei partiti politici di sinistra di canalizzare la grande spinta dal basso in nuove forme di governance, a ripensare la partecipazione democratica e a rompere con un modello di politica in cui la loro posizione risultava rafforzata ma la democrazia rappresentativa nel complesso era indebolita.”[41] Secondo Ginzborg, la connessione tra rappresentanza e partecipazione è la strada per svegliare il “gigante addormentato [l’Unione Europea, nota mia], la cui democrazia è costruita sulla sabbia e oggetto di crescente disaffezione popolare, un gigante melanconico e incapace di scuotersi dal suo torpore”.[42] Sebbene nella vecchia Europa sia rinvenibile un modello politico, economico e sociale molto differente dal modello americano e dove l’incontro delle due culture liberale e socialista ne fanno un “gigantesco laboratorio” di politiche sociali indirizzate alla realizzazione di un futuro sostenibile[43], mi risulta difficile non condividere la visione di Ginzborg se si considerano gli aspetti relativi alla reale messa in opera di “micro-politiche della democrazia” dell’Unione Europea ed i continui, e sorprendenti, richiami da parte dei politici europei al modello americano. Resta ad ogni modo vero quanto sostiene Jeremy Rifkin: “Per quanto la rappresentanza formale delle OSC [Organizzazioni della Società Civile, nota mia] nei network politici sia ancora debole, il semplice fatto che l’UE riconosca una partnership con il terzo settore ha grande importanza storica.”[44] In questo contesto la proposta di Paolo, sebbene non direttamene indirizzata alla realizzazione di “nuove forme di governance”, è un’opportunità per costruire quella democratizzazione della società che Bobbio si augurava.

Paolo degli Espinosa non si ferma ad una premessa teorica ma delinea gli elementi di una riforma del capitale per mezzo di provvedimenti normativi ed iniziative indirizzate alla realizzazione di un contesto socioeconomico che permetta “la dissociazione del riconoscimento sociale dalla sua commercializzazione”. L’idea del progetto era già evidente nel saggio del 2005, Contratto sociale e sdoppiamento degli stili di vita[45], dove degli Espinosa scriveva “Il ‘vecchio futuro’ è stato diviso in due parti, delle quali una, che dipende dal benessere economico, è scivolata dietro e in mezzo a noi, mentre l’altra, riguardante la qualità delle relazioni, da sempre poco indagata, è stata collocata in zone prive di progetto, attenzione e incisività. Non si può uscire da questa situazione puntando su una norma che valga per tutte le esistenze individuali, perché non è vero che tutti desiderano vivere secondo stili immateriali e relazionali. Piuttosto, volendo schematizzare, si deve valorizzare il ruolo di una minoranza consapevole, che sarebbe davvero pronta a vivere in modo diverso, consumando meno materia e fruendo di più tempo libero per le relazioni, se disponesse delle necessarie condizioni e di servizi. […] Nell’immediato, occorre partire da una minoranza, come si diceva, che già esiste e che potrebbe considerarsi pronta per un welfare eco-sociale. Bisogna però considerare anche altre due parti della società. In secondo luogo, infatti, c’è una maggioranza di individui con varia sensibilità, per certi aspetti critica verso il presente, ma con un grado parziale di consapevolezza e disponibilità personale. […] Esiste anche, in terzo luogo, una minoranza liberista-consumista che è tenacemente assertrice del modello in atto, considerandolo di ‘massima libertà’. In questa situazione, un risultato ‘universalista’ si potrà ottenere, con i tempi necessari, passando indispensabilmente attraverso uno sdoppiamento dei modelli di vita, delle scelte degli individui, dei settori produttivi e degli stessi stipendi. Tale sdoppiamento sarà una conseguenza delle opzioni dei diversi individui, attribuendo a tutti la possibilità di scegliere.”

E’ evidente che il risultato ‘universalista’ pone diversi problemi. La gran parte della popolazione con guadagni medio-bassi è caratterizzata sia da una intrinseca eterogeneità di valori ed esigenze sia dalla mutevolezza di confini tra le diverse figure, se non vogliamo parlare di classi, che la costituiscono, mutamenti che oggi sono sicuramente più rapidi rispetto al passato. Inoltre, toccherà fare i conti con la formazione delle “nuove figure” che non facevano parte del quadro sociale di un tempo, quella del ceto medio di una volta che oggi si può definire povero e della nutrita schiera di lavoratori precari. Il ceto medio salariato, che una volta si poteva dire agiato, oggi non riesce a far tornare i conti per consumi modesti; il giovane laureato, colto e mediamente consapevole di un disagio sociale e ambientale che va al di là delle mere condizioni economiche, deve investire le sue energie nella ricerca di un lavoro incerto che gli assicuri i beni essenziali almeno fino a 40 anni. Ha ragione Vittorio Sartogo quando dice: “forse la lotta di classe è finita, ma non è finito il conflitto”. Un conflitto che può deflagrare ma che può essere volto in opportunità per la realizzazione di un progetto che realizzi l’individuo e lo renda partecipe di un destino collettivo. A tal proposito occorre sì andare “oltre la socialdemocrazia” che si occupava esclusivamente del lavoratore, senza tuttavia tralasciare il discorso sui diritti del lavoro che questa tradizione ha conquistato nel corso del 900 e che a partire dagli anni ’90 del secolo scorso ha visto una continua revisione della sua sintassi anche da parte di chi si professa erede della tradizione socialdemocratica.

La realizzazione di un “secondo ambito economico” in cui siano valorizzati comportamenti socializzanti e sostenibili deve evitare, fin dal suo sorgere, commistioni con quel processo di erosione dei diritti del lavoro che genera precarietà economica e morale e che solitamente è presentato con il concetto di flessibilità, o sue filiazioni mostruose, anche linguisticamente, come “flessicurezza”. Concetti che il sociologo Luciano Gallino[46] ha spogliato dei sofismi di cui sono quasi sempre vestiti, mettendone a nudo le subdole origini, le enormi dimensioni e le devastanti conseguenze sociali. Tralasciando le origini della precarietà, dove in un altro caso di semiosi impazzita si rovescia sul lavoratore quello che una volta era il rischio imprenditoriale, e le bizzarrie delle statistiche ufficiali, in questo intervento interessano i costi sociali della precarietà del lavoro. Come osserva Gallino, “dell’essere umano è costitutivo il bisogno di poter dare una risposta definita sia alla domanda interiore «chi sono?», sia alla domanda pubblica «chi sei?». Dalla risposta alla domanda interiore dipende l’idea che un soggetto ha di se stesso, l’atteggiamento che reca verso il proprio sé. Dalla risposta alla domanda pubblica dipende l’idea e l’atteggiamento che gli altri, quasi tutti coloro con cui viene in contatto, avranno verso di lei o verso di lui. Nel complicato percorso tra l’adolescenza e l’età adulta, tra la giovinezza e la maturità, per la maggior parte delle persone lo strumento più efficace per costruirsi una risposta ai due quesiti rimane il lavoro che si fa, o meglio che per lungo tempo si è fatto. Non arrivare a costruirla perché si sono fatti troppi lavori differenti, discontinui, cento volte interrotti in un luogo e ripresi altrove, è per molti una sofferenza, un costo umano in nessun modo computabile, e non di meno greve a portare.”[47] Se, nonostante i molti cantori della ‘fine del lavoro’, “per la maggior parte delle persone” il lavoro è il contesto in cui si costituisce l’entità individuale in un processo di integrazione sociale allora è evidente che la precarizzazione mette in discussione i prerequisiti necessari perché l’integrazione sociale abbia luogo, ovvero la durata delle relazioni e la presenza di una forma di ritualità[48]. Nella società flessibile “il lavoro tende a diventare un tempo senza confini e, al tempo stesso, un non-luogo. Ambedue sono proprietà contrarie all’esercizio di ogni forma di ritualità.”[49] “La dialettica reale tra lavoro flessibile e società flessibile, quale emerge dalle ricerche sul campo, non pare dunque condurre nessuno dei due elementi verso esiti particolarmente promettenti per la qualità della vita e dell’organizzazione sociale. L’uno e l’altra incorporano sicuramente elementi del progetto moderno – un progetto largamente incompiuto – ai quali non vorremmo rinunciare. Nondimeno, gli elementi che in essi appaiono predominare al presente, esaltati negli ultimi decenni tanto dall’ideologia e dall’economia neoliberali quanto dalla pratica politica delle socialdemocrazie, ci sembrano comportare un prezzo troppo alto per poter accogliere insieme questi e quelli.”[50] Naturalmente non intendo fare qui l’apoteosi di una società immobile che impedisce il dinamismo relazionale necessario al confronto con differenti ambiti culturali, ma occorre saper riconoscere la differenza tra un’organizzazione sociale in cui il futuro si configura in un orizzonte di senso e di progetto, pur mutevole nella sua realizzazione, oppure ha i connotati del vuoto minaccioso dagli esiti incerti.

La libera partecipazione a quello che degli Espinosa chiama un “impegno territoriale attrezzato” sembra per certi aspetti sovrapponibile al lavoro d’impegno civile di Beck, senza tuttavia la componente volontaristica che sembra caratterizzare quest’ultimo. La proposta di degli Espinosa infatti non prescinde dalla creazione di spazi organizzati e da attività normative che favoriscano e ‘attrezzino’ la partecipazione ad un sistema valoriale alternativo a quello competitivo. Il settore pubblico ha un ruolo centrale per la promozione di programmi che favoriscano comportamenti coerenti con la dematerializzazione e con la qualità delle relazioni, ovvero con l’accrescimento del capitale sociale locale. Pur non disponendo di dati in tal senso, si può scommettere che una buona parte di persone parteciperebbe ad un ambito economico meno competitivo o rinuncerebbe volentieri ad una fetta dello stipendio avuta a costi umani e sociali che ritiene insostenibili, qualora tutto questo si conciliasse con la rete di relazioni economiche in cui si trova letteralmente intrappolato, non parlo naturalmente di consumi smodati ma di spesa alimentare, affitto, mutuo per la prima casa, ecc. Per questi motivi occorre evitare di perdere l’adesione di quanti rinuncerebbero ad una parte dei propri guadagni ma non possono farlo o di favorire soggetti dotati di risorse economiche e quindi per questo motivo più liberi di partecipare ad iniziative caratterizzate da minori guadagni. Nel primo caso si avrebbe una grave perdita, nel secondo un imperdonabile paradosso.

La realizzazione del progetto chiede l’incontro di Politica ed Economia. Il pregio della proposta di Paolo è che non è meramente teorica ma considera una serie di iniziative per una riforma del capitale che abbia tra i suoi obiettivi l’estensione “alla qualità urbana, al modo di vivere, alle relazioni, anche al di là di quanto possa essere implicato dalle innovazioni ambientali”. degli Espinosa si inserisce in questo modo nel meccanismo della domanda e dell’offerta, richiamando la necessità di suscitare nel contesto sociale una domanda che sia in linea con i criteri della sostenibilità ambientale e sociale in modo che l’offerta del contesto capitalista sia indotta, o costretta, a seguirne l’andamento con meccanismi che possano essere anche economicamente vantaggiosi.

Non aspettandomi un’autoriforma del capitale resta da individuare un soggetto politico che possa promuovere e realizzare tale iniziativa, pur con tutte le difficoltà che pone e la lentezza che richiede. Le forze motrici che Paolo individua, e che sono assolutamente condivisibili, sono “sorgente comune e contemporaneità di problemi diversi, riconoscibilità universale del problema ambientale e suo possibile ruolo di traino rispetto al problema dell’individuo, meno riconoscibile”, tuttavia queste sono fonti motivazionali che non individuano un soggetto catalizzatore. Indubbiamente i problemi di natura globale, come i cambiamenti climatici, le sempre più frequenti crisi economiche, e quelli di natura locale, come l’impoverimento del capitale sociale, possono agire da volano per un profondo mutamento dei nostri stili di vita e per una riforma delle nostre società. Una visione disincantata dell’attuale panorama politico italiano ma ancora ottimistica nei confronti della società mi farebbe pensare che questa spinta al mutamento possa venire dalla società civile, ma forse avremmo un problema di ‘massa critica’ e sicuramente di stabilità politica e sociale. Storicamente i movimenti sociali innescati dall’inerzia del potere politico hanno spesso avuto caratteristiche telluriche con esiti imprevedibili.

Ho ancora una certa considerazione della dialettica politica che si esprime nei partiti, sebbene per mantenerla alta devo attingere dalla storia e tralasciare, fatte salve rare eccezioni, la cronaca degli ultimi decenni. Mi chiedo se i superstiti partiti di centro-sinistra e di sinistra non possano essere catalizzatori di una simile iniziativa che possa organizzare la società civile secondo un modello più attento alla qualità della vita e ne liberino quelle energie creative riposte che oggi si palesano solo nell’intimità del consumo di nuovi prodotti industriali ben reclamizzati. Mi chiedo se non possano costruire su queste basi la loro rinascita per un futuro, spero non troppo lontano, in cui siano in grado di far vedere un senso da cercare, un progetto collettivo da realizzare, così come sono stati in grado di fare i partiti da cui la loro tradizione trae origine, sia pur con tutte le critiche che possiamo muovere a quei partiti. Se la proposta di Paolo entrerà a far parte del linguaggio politico, a scapito dei leitmotif della crescita economica e della competitività, forse allora potrà realizzarsi un’economia a misura d’uomo in luogo dell’attuale trasposizione delle antiche arene per gladiatori. Simon Kuznets, inventore del PIL e per questo insignito del premio Nobel per l’economia nel 1971, in seguito al continuo abuso dello strumento da lui concepito da parte di politici ed economisti affermò: “Si deve tener presente la differenza fra la quantità e la qualità della crescita, fra costi e benefici, fra breve e lungo termine. Un obiettivo di “maggiore” crescita dovrebbe specificare la crescita di cosa e per cosa.”[51] Una riflessione sulla precisazione di Kuznets potrebbe essere sicuramente utile a quanti evocano la “crescita economica” con l’eccitazione tipica di un orgasmo o a quelli che un tempo erano i sacerdoti del liberismo nostrano (mercatisti quando il bilancio è in attivo, statalisti quando è in passivo) e oggi, con la crisi economica in atto, sono diventati profeti ex-post dell’avevo previsto tutto.

Concludo con due domande solo apparentemente provocatorie. E’ ingenuo pensare che, come una campagna pubblicitaria faccia sentire uomini e donne liberi e rivoluzionari se usano dopobarba e assorbenti giusti, anche i partiti possano promuovere bisogni che siano in linea con la sostenibilità sociale ed ambientale? Ci sarà sempre chi sosterrà che un’economia sostenibile, prefigurata da Paolo degli Espinosa come da tanti altri autori, si scontrerà con la fantomatica “mano invisibile” del libero mercato, ma cos’altro manca per accorgersi che la mano invisibile ha gli stessi presupposti ed effetti di una giornata di semafori spenti a Roma?

Adesso non ci siamo ancora ripresi dall’ultima sberla della mano invisibile, non sappiamo ancora quando ci riprenderemo e una volta ripresi non sappiamo quando arriverà la prossima ma siamo certi che, se tutto continuerà così come è stato finora, le prossime sberle probabilmente non tarderanno molto ad arrivare e saranno sberle sempre più forti. Chissà se sarà davvero sufficiente per accorgersi che qualcosa negli attuali modelli di vita non va?

Bibliografia e note
[1] E.J. Hobsbawn, Il secolo breve, 1914-1991. RCS libri. 1997, p. 336.
[2] R. Musil, Spirito ed esperienza. Note per i lettori scampati al tramonto dell’Occidente, (1921). In: Sulla stupidità e altri scritti, Oscar Mondadori. 1986, p. 102.
[3] G. Fornero, S. Tassinari, Le filosofie del novecento. Bruno Mondadori. 2002, Vol 1, p. 555.
[4] G. Anders, L’uomo è antiquato, Vol. I: Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale, (1956) - Bollati Boringhieri, 2003.
[5] A. d’Atri, Vita e artificio. La filosofia di fronte a natura e tecnica. BUR, 2008.
[6] U. Galimberti, Psiche e techne – L’uomo nell’età della tecnica. Feltrinelli. 2005.
[7] P. degli Espinosa, Prometeo irrisolto, éupolis, 32: 44-105, 2003.
[8] J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità. Laterza, 2003, p. 116.
[9] J. Habermas, op. cit., “La teoria critica era stata sviluppata dapprima nella cerchia attorno ad Horkheimer, per elaborare le delusioni politiche sulla mancata rivoluzione in Occidente, sullo sviluppo stalinista nella Russia sovietica e sulla vittoria del fascismo in Germania; essa doveva spiegare il fallimento delle prognosi marxiste, senza peraltro rompere con le intenzioni marxiste. Su questo sfondo diventa comprensibile come negli anni più oscuri della seconda guerra mondiale poté consolidarsi più che mai l’impressione che l’ultima scintilla di ragione fosse scomparsa da questa realtà, lasciandosi dietro le rovine desolate di una civiltà in decadenza.”, p. 119-120.
[10] G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto. Laterza. 1979, § 51, pp. 71-72.
[11] G.W.F. Hegel, op. cit., § 65, § 66, p. 83.
[12] U. Galimberti, op. cit., p. 401.
[13] G. Anders, L’uomo è antiquato, Vol. II: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, (1980) - Bollati Boringhieri, 2007, p. 32.
[14] Z. Bauman, Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi. Erickson. 2007, p. 34.
[15] Mi concedo una digressione su questo tema che mi è particolarmente caro. E’ evidente la filiazione di questa massima dalla cosiddetta «regola aurea», considerata principio fondamentale dell’etica globale. La regola aurea presenta solitamente una forma negativa, “Non fare ad altri ciò che non vuoi facciano a te” (Confucio, Dialoghi 15, 23), ed una forma positiva: “Tutto quello che volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Matteo 7, 12). Tuttavia l’aurea di entrambe le forme andrebbe fortemente ridimensionata nel momento in cui prendiamo seriamente in considerazione le differenze valoriali tra noi e gli altri. Come ci fa notare Kwame Anthony Appiah, “il primo problema che la regola aurea pone, in ambedue le versioni, è che per applicarla non dobbiamo tenere conto soltanto del motivo che ci spinge a fare una certa cosa per gli altri – la spiegazione del nostro comportamento – ma dobbiamo anche sapere che la nostra azione potrà ferirli. […] Di conseguenza, quando pensiamo a che cosa dovremmo fare per gli altri, conta ciò che vorremmo ci fosse fatto secondo i nostri valori e il nostro credo, o secondo i loro valori e il loro credo? […] Ciò vuol dire che dobbiamo renderci conto della situazione degli altri, e poi immaginare di metterci nei loro panni.” K.A. Appiah, Cosmopolitismo. L’etica in un mondo di estranei. Laterza. 2006, pp. 64-66.
[16] F. Savater, Etica come amor proprio. (1988). Laterza. 1998, p. 75.
[17] F. Savater, op. cit., p. 141.
[18] F. Savater, op. cit., p. 145.
[19] Benedetto XVI, Lettera enciclica Spe Salvi del Sommo Pontefice Benedetto XVI ai vescovi ai presbiteri e ai diaconi alle persone consacrate e a tutti i fedeli laici sulla speranza cristiana. Libreria Editrice Vaticana, 2007.
[20] J. Habermas, op. cit., p. 133-134.
[21] B. Russell, La visione scientifica del mondo, (1934). Laterza. 1949, p. 144.
[22] U. Galimberti, L’Illuminismo come pratica di vita e compito infinito. p. 99. In: E. Scalfari, a cura di, Attualità dell’Illuminismo. Laterza. 2001.
[23] U. Beck, Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro. Tramonto delle sicurezze e nuovo impegno civile. Einaudi. 2000, p. 8.
[24] Per migliaia di generazioni (circa 250.000) l’orizzonte spaziale degli ominidi è stato quello tribale costituito da poco più di un centinaio di individui, la scala temporale è stata quella dettata da bisogni materiali soddisfatti da attività di caccia e raccolta, questo a fronte di poche centinaia di generazioni (circa 400) dai primi segni di una organizzazione sociale moderna che può essere fatta risalire alla rivoluzione agricola di 10.000 anni fa, pertanto “è sensato presumere che qualunque sia il grado in cui l’evoluzione genetica ha modellato l’umanità, è stato in larga misura per adattarla alle attività di caccia e raccolta: lo stile di vita dei nostri antenati pre-agricoli”. Cfr. P. Ehrlich, Le nature umane, Codice Edizioni, 2005. pp. 193, 205, 214-215.
[25] A. K. Sen, Etica ed economia, Laterza. 2002.
[26] Come altro esempio di rovesciamento semantico si consideri l’etimo della parola competizione. Il termine deriva da cum-petere, insieme-andare verso. In origine non aveva alcun connotato di esclusione dell’altro bensì di partecipazione ad una impresa comune che prevedeva sì un vincitore ma che non escludeva l’altro. Ciò che oggi è immediatamente percepito con il termine competizione è la vittoria di un soggetto cui segue l’esclusione dell’altro. Il significato sopravvissuto è quello di competizione posizionale (esclusiva), contrapposto alla competizione di tipo cooperativo, tipica di un contesto relazionale. I due concetti sono oggetto della riflessione di
S. Zamagni. L’economista introduce il paradigma dei beni relazionali nella struttura produttiva. Il bene relazionale, ossia il bene che si trae dalla relazione, rovescia nel suo opposto l’assunto della scarsità delle risorse che segue al loro consumo. Il bene relazionale, come opposto al bene posizionale che colloca ed esclude, non si consuma ma al contrario cresce con il suo utilizzo. (S. Zamagni, Beni relazionali e felicità pubblica: uno sguardo dall'economia civile.)
[27] P. degli Espinosa, Individuo socializzante, civilizzazione dello sviluppo. Un progetto sostenibile per la fase post-industriale. éupolis, Allegato al n. 42, 2006.
[28] P. degli Espinosa, op. cit., p 3.
[29] U. Beck, op. cit.
[30] P. degli Espinosa, op. cit., p 21.
[31] Il Gruppo della Garbatella è un circolo del tutto informale che Paolo ha creato e così battezzato perché il primo incontro è avvenuto nei locali del municipio della Garbatella (un quartiere di Roma). Il circolo ha una decina di partecipanti che sperano di diventare molti di più. L’idea portante è appunto un progetto che consenta la realizzazione di un nuovo assetto sociale, sicuramente un obiettivo ambizioso ma cosa sarebbe “una carta geografica del mondo che non comprenda Utopia”?
[32] N. Fraser, A. Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? Una controversia politico-filosofica. Meltemi. 2007.
[33] N. Fraser, A. Honneth, op. cit., p. 52.
[34] N. Fraser, A. Honneth, op. cit., pp. 155-156.
[35] N. Fraser, A. Honneth, op. cit., p. 164.
[36] N. Fraser, A. Honneth, op. cit., p. 165.
[37] F. Savater, op. cit., p. 11.
[38] P. Ginzborg, La democrazia che non c’è. Einaudi. 2006, p. 54 e seguenti.
[39] N. Bobbio, Il futuro della democrazia. Einaudi. 1984, p. 49.
[40] N. Bobbio, op. cit., p. 52.
[41] P. Ginzborg, op. cit., p. 71.
[42] P. Ginzborg, op. cit., p. 141.
[43] J. Rifkin, Il sogno europeo. Come l’Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il Sogno americano, Mondadori. 2004.
[44] J. Rifkin, op. cit., p. 242.
[45] P. degli Espinosa, Contratto sociale e sdoppiamento degli stili di vita. éupolis, 37: 17-43, 2005.
[46] L.Gallino, Contro la precarietà. Il lavoro non è una merce. Laterza. 2007.
[47] L.Gallino, op. cit., p. 79.
[48] L.Gallino, op. cit., pp. 112-113.
[49] L.Gallino, op. cit., p. 114.
[50] L.Gallino, op. cit., p. 116.
[51] Cit. in J. Rifkin, op. cit., p. 76.


Appendice
Consiglio vivamente la lettura del lavoro di Paolo degli Espinosa, Individuo socializzante, civilizzazione dello sviluppo. Un progetto sostenibile per la fase post-industriale. éupolis, Allegato al n. 42, 2006 e pubblicato a marzo 2007.
Il documento è disponibile a questo link.

A supplemento di quanto scritto finora e per dare un quadro schematico all'analisi di Paolo degli Espinosa, aggiungo quanto segue.

"Quando arrivi ad un bivio, imboccalo!", Jorge Luis Borges

Nella cosiddetta età dell'oro l'economia dei consumi ha dato luogo ad effetti negativi e positivi, i secondi compensavano ampiamente i primi. Dopo alcuni decenni gli effetti negativi di quel modello di sviluppo non sono più compensati da ulteriori incrementi di qualità della vita, è piuttosto vero il contrario. Le diseconomie cominciano a far sentire pesantemente i loro effetti e quelli che una volta erano aspetti positivi (occupazione, salario, ...) che compensavano quelli negativi oggi non costituiscono più un argine. La crisi economica oggi in corso lo mostra in tutta la sua evidenza.


Una sera di tre anni fa, quando Paolo stava scrivendo l'Individuo socializzante, ci siamo divertiti molto a fare questo schema ma poi non ne abbiamo mai fatto nulla. Forse perchè tutto sommato non ci piacciono le semplificazioni con faccine tristi o sorridenti che oggi sono tanto di moda.
Non me ne vorrà se lo pubblico nel mio blog! Spero possa suscitare l'interesse di quanti pensano che l'attuale modello di sviluppo economico non è esattamente a misura d'uomo e magari, perché no?, stimolare la formazione di altri gruppi della Garbatella.

3 commenti:

  1. Permettimi una nota marginale all'Appendice II rispetto ai ben piu complessi e stimolanti argomenti del ricco saggio di PdE&C sopra riportato, dove si dice: "Nella cosiddetta età dell'oro l'economia dei consumi ha dato luogo ad effetti negativi e positivi, i secondi compensavano ampiamente i primi. (...)". Io credo, che questa affermazione sia vera solo localmente, perche' - come in ogni sistema isolato - l'Entropia complessiva cresceva anche a fronte del "miglioramento" nel sottosistema capitalistico genericamente "occidentale" (OECD).
    Proprio allora, come ora - in cui abbiamo certamente un'accelerazione del degrado complessivo - il migliormanento avveniva a scapito delle risorse trasferite dai paesi excoloniali a quelli industrializzati. Complessivamente il sistema degradava come risorse e come stato dell'ambiente. Cio' non cambia l'impostazione generale, pero' un'indicatore credo possa far luce sull'affermazione apparentemente ottimistica sugli i positivi che compensavano i negativi: Dal Secondo dopoguerra ad oggi , nel mondo le guerre (e i morti, ormai il 90% civili) sono continuate ed aumentate doppiando (per alcuni il fattore moltiplicativo e' anche maggiore, a causa dei disastri umanitari conseguenti). Quindi, globalmente e sul lungo periodo, non credo che si possa parlare di alcun effetto positivo, se non per una frazione (10%?)della popolazione mondiale cumulata. ciao riclib

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  2. Una integrazione ad una frase rimasta in sospeso nel mio precedente post (anche se il senso rimane lo stesso:
    Dove dico; "Secondo dopoguerra ad oggi, nel mondo le guerre (...) aumentate doppiando ... ". La frase completa e':
    "Dal Secondo dopoguerra ad oggi, nel mondo le guerre (e i morti, ormai il 90% civili) sono continuate ed aumentate, raddoppiando il numero di vittime della stessa IIWW (per alcuni il fattore moltiplicativo e' anche maggiore, a causa dei disastri umanitari conseguenti). "

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  3. Hai perfettamente ragione a sottolineare che quella che ho chiamato 'compensazione' vale solo localmente ed in particolare nei paesi industrializzati. Nel titolo dello schema infatti si parla di 'effetti della società industriale'. Indubbiamente gli effetti positivi si sono accumulati in una frazione molto ridotta dell'umanità e l’altro indicatore che tu menzioni, la distribuzione della ricchezza nel mondo, dà un quadro desolante della faccenda, grosso modo l'85% delle risorse economiche mondiali è nelle mani del 10% della popolazione (World Institute for Development Economics Research delle Nazioni Unite, 2007).
    Ma c'è una cosa che voglio sottolineare e che non emerge dallo schema (l’avevo detto che sospetto fortemente delle semplificazioni e ne sono rimasto vittima), quella che può sembrare una "affermazione apparentemente ottimistica" non lo è affatto perché, al di là di alcuni innegabili progressi della società industriale, la ‘compensazione’ è una sorta di indennizzo per qualcosa che si perde, un risarcimento economico che riesce appunto a compensare i danni sociali ed ambientali. E’ evidente che si tratta di un risarcimento illusorio proprio perché tradisce quel principio entropico che giustamente sollevi. Le cosiddette società sviluppate si sono illuse di accumulare ordine al loro interno pompando il disordine all’esterno. Quella illusione mi pare sia al capolinea anche dal punto di vista economico e direi persino a scala locale. Dal punto di vista economico il risultato è prossimo a quello descritto icasticamente da Trilussa con la storia del pollo, mentre dal punto di vista sociale e ambientale non sono di ‘aiuto’ neanche le distorsioni delle statistiche di potere.
    Pasolini avrebbe parlato di società sviluppate ma non progredite, da parte mia opporrei il malsano concetto di crescita a quello di sviluppo, ben più ricco di significati se si considera il suo etimo (togliere dal viluppo).
    Ultima osservazione, se lo schema mette in risalto solo le società industrializzate è perché sono fedele ad un principio di responsabilità (rispondere di). Se c’è una parte di umanità che deve essere chiamata a rispondere del proprio stile di vita, che deve interrogarsi sulla bontà del proprio concetto di sviluppo e che si trova davanti al bivio è proprio la società industrializzata (non uso il termine occidente perché lascerebbe fuori dalla critica paesi come il Giappone e sistemi sociali, ormai caduti, che non erano privi delle stesse responsabilità ascrivibili all’occidente).

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