Nelle città come Roma o Napoli il tempo si accatasta. In questi posti il tempo ha un peso, una dimensione fisica che non è solo quella temporale. A Roma il tempo è grande oltre a essere antico e la sua profondità è pesante. A Napoli l'accatastamento del tempo va insieme a quello dello spazio. Ogni casa cresce sopra un'altra e non c'è tempo perché ciò che precede si “sposti”. Se a Roma il passato si sposta negli strati più profondi, a Napoli tutto è compresente, spazio e tempo si accavallano. Tutto si tiene, non c'è nulla che abbia la precedenza. Ma tra tutti i posti che ho conosciuto finora è in Sicilia che il tempo gioca scherzi insoliti. Qui il tempo pervade ogni cosa, da sembrare quasi inesistente. A Segesta i resti di un tempio medioevale sono contemporanei e il tempo che passa è infinitesimo rispetto al tempo che è passato in queste valli. La brevità del mio tempo si misura davanti ai millenni e ne resta sconvolta. Il mio tempo resta attonito, immobile, annichilisce e vuole fuggire. L'immobilità del tempo in questi siti toglie il respiro perché in questa assenza di tempo puoi vedere il tempo. A Napoli nulla è fermo. A Napoli c'è l'attività frenetica di un tempo che nega il tempo, non gli dà il tempo di mostrarsi ma, come il Vesuvio, cova ed è sempre pronto a esplodere. In Sicilia l'eruzione è lenta e continua e, come il tempo, la lava incandescente copre ogni cosa e la congela in un manto di fuoco, appiccicosa colla di pietra che tiene tutto in un tempo sempre presente. Il tempo in Sicilia è appiccicoso, infuocato, come la lava dell'Etna, rosso e sanguigno, come pietra fusa. “Precipito in un abisso fatto di tempo...” scriveva Pessoa. Mi chiedo quali sensazioni mi tempesterebbero se dovessi visitare paesi come l'Egitto.
Il tempio di Segesta è incompiuto dal 400 a.C. I soliti lavori a rilento della Sicilia. Lo facessero sapere a Renzi che sblocca i lavori!
Poteva mancare tra le stradine di Erice l'impotente alla guida di un SUV che resta bloccato perché non è in grado di capire anzitempo che il suo inutile surrogato di un... ego intimamente piccolo non riesce a passare per questi vicoli medioevali? No, non poteva mancare!
10.8.15
La scogliera di Agrigento è una gigantesca meringa, albume d'uovo rappreso al sole. A nuotare in questo mare dirimpettaio d'Africa si ha il timore di scontrarsi con il corpo di qualche disperato che cerca fortuna. Nuvole nere arrivano da Sud.
A Agrigento convive storia e scempio. Paradossalmente l'abusivismo edilizio sembra prendere a modello proprio i siti dove sorgevano templi e insediamenti urbani greci. Una sorta di verso irrisorio che i mostri edilizi odierni fanno alla storia. “Che differenza c'è? Duemilacinquecento anni fa facevano lo stesso, costruivano davanti al mare, sui rilievi, sulle scogliere.”... Già, duemilacinquecento anni fa facevano uguale!
Mi chiedo se a Agrigento sono consapevoli della benedizione che hanno ricevuto dalla storia ma la domanda vale per l'Italia intera. Qui su via Atenea combattono edifici del centro storico e palazzacci della periferia.
Acqua siamo, che obbedisce alla luna.
Marea montante, inabissati alle ricorrenze.
11.8.15
E' il solito discorso, devi scartare di lato dalle vie scelte come vetrine di una città per scoprirne i gioielli. Da via Atenea bisogna addentrarsi per le salite laterali che vanno al duomo per scoprire palazzi la cui facciata è come il volto di certe vecchie signore che lasciano intuire quanto fossero belle da giovani e arrossiscono meravigliate e lusingate che qualcuno ancora le fotografi ma in cuor loro pensano che quanti passano indifferenti non siano in grado di vedere e capire la loro bellezza. Di quelle signore nobili che un tempo vivevano nel lusso e nel grandeur e oggi sono cariche d'anni e sventure che la ricchezza è andata via con la giovinezza.
12.8.15
Orografia aspra, terra corrugata, corrucciata dal sole che la fa rugosa e secca. La Sicilia porta nel nome la siccità, la poca acqua che la benedice, come la mia Puglia, Apulia, Apluvia, senza acqua.
Valle dei Templi, tempio della Concordia. Perfettamente conservato perché nel VI secolo il Vescovo Gregorio lo trasformò in basilica, non prima di aver scacciato gli dèi che precedentemente abitavano il tempio. Piazza Armerina, i mosaici perfettamente conservati perché una alluvione li ha coperti di fango. Contingenza della storia: quando una catastrofe anziché distruggere conserva.
Ancora su Agrigento/Napoli. A Agrigento centro e periferia si sovrappongono e confliggono, a Napoli coincidono e convivono, nel senso che a Napoli il centro storico non è mai stato appannaggio dei ricchi ma del popolo. A Napoli, più che altrove, il centro storico è la periferia della città.
Le civiltà scomparse ci insegnano la profondità e la precarietà del tempo. Ogni contemporaneità ha l'inevitabile difetto di considerarsi definitiva.
C'è chi accumula ricchezze e chi accumula tempo. Il tempo è l'unica vera ricchezza, l'unica risorsa davvero non rinnovabile. Ricchi sono i posti e le genti che accumulano tempo.
Caltagirone è curiosamente la città più sabauda che io abbia visto al sud. Un gusto austero e neoclassico si mescola al barocco siciliano. Non so se espressione del senso di colpa che rinnega le origini o ansia di futuro. Forse è questo il passaggio gattopardesco da un'epoca all'altra senza essere né nell'una né nell'altra.
Buona parte dei palazzi sono di impianto sei-settecentesco ma ricostruiti nel 19° secolo. Questo almeno lungo la centrale via Don Luigi Sturzo e poche vie laterali.
13.8.15
Duomo di S. Giorgio a Modica, un fulmine che da terra saetta in cielo. Una bestemmia, come tutto il barocco della Sicilia sud-orientale e il barocco leccese. Questo barocco urla al cielo le sue responsabilità.
La generosità della cucina siciliana, l'abbondanza delle porzioni e soprattutto il tripudio di sapori, una teoria di sapori, tutti in fila come musici di banda, fanfara scoppiettante di festa, paramenti patronali e gonfalone in testa, dolce, amaro, salato, all'unisono sinfonico.
Anche qui a Noto la pietra è “polpa di banana”, come a Lecce per Bodini. Morbida appena scavata dalla cava, s'indurisce all'aria. La luce urla sulla pietra, pane ancora caldo.
Deve esserci qualcosa nella luce di questi posti che insieme alla pietra li fa unici. Una voce più che un colore.
E' un barocco tardivo quello di Noto, come quello leccese. Quando a Roma il barocco finiva da noi cominciava e poi è improprio usare lo stesso termine per Bernini o Borromini e per Gagliardi o Zimbalo. Non sono mai riuscito a capire per quale motivo si usi lo stesso nome per due stili così differenti. Se non nelle linee architettoniche è nella metrica che ci sono differenze notevoli, nella poetica direi. Se l'opera è la Commedia di Dante, a Roma si recita il paradiso, sublime e stucchevole, al sud è il purgatorio e più spesso l'inferno, tremendo e burrascoso dove le figure apotropaiche parlano ancora di un culto pagano.
A Noto ogni giorno si celebra il matrimonio tra sole e pietra e chiama la sua cugina Lecce per il ballo di nozze. Caltagirone esibisce la sua strada vetrina sabauda, Noto sfoggia il suo sfacciato barocco.
Su nove manifesti funebri sette sono commemorativi della scomparsa. Alcuni ricordano il 14° anno dalla morte.
14.8.15
A Siracusa la mappa serve al visitatore solo per comunicare ai locali che sta cercando qualcosa, poiché non si avrà il tempo di consultarla che qualcuno chiederà se stai cercando qualcosa. C'è un bisogno di dare indicazioni, spesso in lingua straniera che ha priorità rispetto all'italiano! “Cerca qualcosa?”, “Sì, il parco archeologico”, “E' facile”. Le indicazioni non scoraggiano mai il visitatore, ovunque egli si trovi l'indicazione comincia sempre con “è facile”, poi segue un elenco di dedali che tra svolte a destra e manca finiscono con un “poi chiede” ma nei casi più fortunati finiscono con “e poi siete arrivati, ve lo dicevo che era facile”!
Enna, gente di montagna nel cuore di un'isola. C'è un senso di fuori posto. Sembra un paese lontano dalla Sicilia ma è quello che ne custodisce il conflitto tra terra e mare. Qui si gode il meglio della montagna e del mare ma non si è né qui né là. Di notte si sente ancora l'urlo di Euno.
15.8.15
Non si può conoscere la Sicilia senza conoscere la sua storia. La più grande delle isole greche è avamposto mediterraneo. Da qui tutto si controlla, tutti sono passati, tutti l'hanno contesa: greci, cartaginesi, romani, normanni, svevi, francesi, spagnoli, arabi. Qui tutti hanno scritto la storia, i locali hanno lasciato fare, indifferenti e fintamente malleabili. “Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi”, scriveva il Lampedusa.
Ruggero II a Cefalù come Togliatti 8 secoli dopo. La cattedrale di Cefalù fu fatta costruire perché il potere di Ruggero II non fosse scalfito da quello papale. Ruggero cercava alleanza con il papa. La cattedrale di Cefalù fu l'articolo 7 di Togliatti. Anche Ruggero pensava che il pegno gli avrebbe assicurato il governo per almeno 20 anni.
L'Italia non è un paese che si viaggia geograficamente. L'Italia si viaggia storicamente. Il nostro paesaggio è la storia, il nostro spazio è il tempo.
La Sicilia è come una bella foto che prima di scattare cerchi l'inquadratura migliore, l'esposizione ideale e tagli fuori quello che può rendere sgradevole il paesaggio, così resta solo la parte più bella, quella per i posteri.
Il centro storico di Palermo si presenta subito come calderone di civiltà. Le indicazioni stradali sono in triplice lingua: italiano, ebraico, arabo. Tanti gli africani. A Ballarò non siamo nel cuore di Palermo, siamo nelle sue viscere. Qui pernotteremo, dove si sentono tutti i borborigmi della città. Qui c'è la storia delle genti, quella che i libri ignorano.
A Palermo, crocevia mediterraneo, Napoli incontra Marrakech e Istanbul in una comunità ecotonale.
L'autobus sta per partire ma a una richiesta di informazioni l'autista ferma l'autobus e scende, ti accompagna per farti vedere la tabella degli orari che cerchi.
In alcuni quartieri ci si muove animali da preda, chi vive qui fiuta la paura. La pelle emana odori che segnalano quando attaccare.
16.8.15
L'Italia è un lungo molo nel mediterraneo e la Sicilia è lo scoglio faro per avvistare i naviganti e avvisarli del rischio che corrono le chiglie delle imbarcazioni.
Ti fermi a bordo strada e le auto, anche se procedono veloci, si fermano per farti passare.
Il signore indiano vive a Ballarò da 26 anni. Qui ha famiglia, qui è cresciuta sua figlia. Ha una bancarella di mercanzie e dice di non avere mai avuto problemi, che i palermitani gli sono tutti amici, che la mafia non esiste.
"La Vucciria, il mercato non esiste più, è ridotto a poche bancarelle. I palazzi sono crollati, il comune se ne è disinteressato e il quartiere è rimasto in mano alla malavita." Dobbiamo cambiare prospettiva. La gente della Vucciria non ha "conquistato" il quartiere. Quella gente è stata abbandonata. Non sono conquistatori ma conquistati, per abbandono. Sono stati vinti dall'assedio dell'indifferenza.
La guida turistica sconsiglia manifestazioni pubbliche di affetto tra omosessuali. Parla di omofobia diffusa ma credo che in Sicilia valga più un discorso di riserbo che riguarda tutte le manifestazioni di affetto per le quali il luogo deputato è sempre privato alla vista. Ad ogni modo, omofobia o no, a giudicare da quanti gay si vedono in giro, Palermo dovrebbe essere consapevole che senza gli omosessuali la sua economia turistica avrebbe un collasso. Mai viste tante coppie gay!
Le dita a calice si aprono e chiudono velocemente per dire "pieno pieno"! |
A volte mi sembra di essere a Napoli. Se avessi conosciuto prima Palermo allora a Napoli avrei detto che sembra di essere a Palermo, eppure c'è una differenza fondamentale. La multietnicità delle due città è differente. Quella di Palermo si alimenta dei quattro canti del mondo, quella di Napoli è tutta napoletana.
I templi più sacri di Palermo sono a Piazza Marina. Sono i maestosi ficus magnoloides secolari. Sui loro tronchi c'è tempo rappreso.
Di fronte al nostro tavolo sono sedute un paio di famiglie dell'alta borghesia palermitana. I due giovani rampolli si stanno studiando. Le due famiglie sperano che le casate si uniscano. Lui potrebbe essere un avvocato o un medico da almeno tre generazioni e fa di tutto per essere interessante, lei ascolta. Il matrimonio per amore lo hanno "inventato" i poveri. Alta, media e bassa borghesia concludono affari, ad imitazione delle dinastie nobiliari.
17.8.15
Terra dolceamara. Amara come i suoi agrumi e dolce come le sue mandorle, che se mangiate non ancora mature sono fatali.
La Sicilia è bella come una tragedia greca. Devi sentire il suo dolore per apprezzarla.
Il sole non è ancora sveglio che la linfa a Ballarò già scorre veloce. Princesa va a fare la spesa sui tacchi alti, equilibrio stento. Il vecchio dalla mano fasciata in una smorfia di benedizione bizantina scivola sinuoso tra sorrisi e insulti. “Assassina” dice un cocchiere rivolto a lui e il suo ancheggiamento diventa recitazione. Il vecchio è abituato a questi lazzi, a fimminedda qui è necessaria per affermare la propria virilità.
- Che fai?
- Le do l'euro per il tavolo.
- E così mi offendo. Fai una bella vita!
I muri scrostati resistono al sole e alle voci e di tanto in tanto un palazzo crollato apre una piazza che prima non c'era. Qui la vita si fa spazio tra vicoli stretti e vecchie decadenze, come un fiore che spacca l'asfalto con il suo germoglio e dopo tanta fatica non importa che sia bello.
Non esiste il gene della malavita. E' nelle disuguaglianze sociali che va cercata la radice delle degenerazioni sociali. E' tipico delle comunità ecotonali un "disordine" che sovverte la legge, indubbiamente con le specificità di ogni luogo determinate dalla storia e dalla geografia, ma è l'assetto sociale il fattore sul quale si può e si deve intervenire. Come si automodifica la società? Come interviene nell'assetto sociale per promuovere l'uguaglianza e la libertà? Libertà dai vincoli, libertà di agire. Libertà dai vincoli che annullano la libertà di agire. La società si dota di leggi uguali per tutti ma è nelle pieghe tra legge formale e legge materiale che si dispiegano le differenze territoriali, lì si annidano le degenerazioni del potere.
Il giullare di strada muto si siede al nostro tavolo e beve di un sorso il bicchiere di vino offerto. “Grande cuore” fa con le mani, ringrazia e se ne va. Non sapremo mai il suo nome. La sera prima ha fatto capire a quelli seduti di fronte a noi, le famiglie impegnate a unire le casate, che in due gli avevamo dato 10€. Mano ai portafogli, non potevano essere da meno. Gran bel colpo.
18.8.15
La bellezza del Duomo di Monreale si legge più nel registro psicologico che in quello estetico. Il tentativo di Guglielmo II di superare il nonno Ruggero II si traduce in un eccesso di grandiosità che si riversa nel profluvio di immagini. Il Duomo è un racconto senza silenzi, un continuo parlare della propria grandezza per non lasciare all'ascoltatore il tempo di soffermarsi sulle debolezze del narratore.
Ho sempre sostenuto che per conoscere la gente di un posto bisogna conoscere come mangia e come prega. Può essere utile conoscere come ama, ma anche questo è una fusione delle prime due attività. A Palermo, e in tutta la Sicilia, ogni piatto è una Santa Barbara in festa. Come l'Etna, erutta sapori, odori, storia. Quanto alla preghiera vale l'indicazione di una signora che raccomanda di visitare S. Giuseppe dei Teatini, perché "la cattedrale è bella, ma dentro spoglia è." S. Giuseppe dei Teatini è una batteria di fuochi d'artificio barocco, un gioco psichedelico di tarsie di marmi, un capogiro da dopo sbornia, una esuberanza che stordirebbe persino Dio.
L'accento siciliano mi è familiare. Entra nel mio orecchio più facilmente di ogni altro accento. Sento l'esigenza di parlare il mio dialetto. E' una specie di difesa, un modo di marcare la mia identità in questa terra che mi accoglie con il suo "eccesso di identità".
Terra dove il potere è stato retto per troppo tempo da sovrani a metà. Terra di viceré. Da centro del mediterraneo è diventata periferia d'Europa. Qui clero e aristocrazia hanno dato il meglio in termini di architettura e il peggio in termini di politica. L'inesistente corte è stata divisa in rivoli di signorotti. Prima dell'unità d'Italia bisognava pensare all'unità della Sicilia ma questa è rimasta in mano a caporali e gabellotti, radice della mafia che per sistemarsi non ha faticato a trovare qualche buon partito!
Città ponte, interregno tra due ultramondi. Un purgatorio senza punizioni e senza ascensioni.
La Madonna di Antonello da Messina è una donna siciliana forte e determinata. Non c'è sdilinquimento nei suoi occhi. La sua dolcezza è nella certezza di trovare in lei un punto di forza.
Nel Mosè di Pietro Novelli un vecchio ha una tavola della legge in mano e guarda lo spettatore con occhio incerto. E' come se chiedesse: “sarà pronto il popolo per queste leggi?”, ma è ragionevole che si chieda anche: “basteranno per governarlo o dovrò aggiungere altro?”
Aragonesi e Borboni tornano a visitare Palermo, loro vecchia colonia. Gli spagnoli qui sono di casa, dopo quasi mezzo millennio di dominazione.
A piazza Ballarò la notte non si dorme. E' festa fino a notte inoltrata. Il volume della musica è necessariamente alto e non potrebbe essere altrimenti con l'esuberanza di vita che scorre per queste vie. C'è un bisogno di urlare la propria presenza che il mondo non può essere disattento. Tra poche ore, come ogni mattina ci sarà il mercato. E' questa la chiesa più bella di Palermo.
Atteggiamento ritroso, riservato dei siciliani. Codice diverso da quello napoletano, di irriverente goliardia.
La Sicilia è un bagno di Storia. Se c'è un sentimento, un desiderio che questo viaggio mi ha lasciato è quello di conoscere meglio la sua Storia che è Storia del mio Sud, del Mezzogiorno, che è Storia d'Italia, sospesa tra Europa e Mediterraneo, da sempre in cerca di identità per “eccesso di identità” (G. Bufalino). Noi popolo di emigranti perfetti, adattabili a ogni latitudine poiché da noi tutte le latitudini si sono intrecciate in un nodo che ancora oggi non ha trovato un Alessandro che lo recida.
Antonio, hai scritto un post meraviglioso, mi hai fatto rivivere con emozione momenti intensi e indimenticabili.
RispondiEliminaL’Italia è Bella tutta, ma la Sicilia, quando l’hai visitata, ti si appiccica al cuore e non se ne va davvero più.
Ti abbraccio
Che splendore, questo reportage! Mi hai riportato alle sensazioni della giovinezza, a quando fra i 20 e i 21 anni rimasi talmente stregato dalla Sicilia da ritornarci per ben 5 volte in due anni: per qualche tempo sognai addirittura di diventare un emigrante da nord a sud!
RispondiEliminaNair, Zio Scriba sono molto contento di aver risvegliato emozioni dei vostri viaggi in Sicilia, sono i regali più belli che mi porto dietro dai miei viaggi ed è bello condividerle. Ciao.
RispondiEliminaBellissimo racconto di viaggio. Un applauso.
RispondiEliminaL'Italia non è un paese che si viaggia geograficamente. L'Italia si viaggia storicamente. Il nostro paesaggio è la storia, il nostro spazio è il tempo.
Grazie per avermi fatto ripensare ai passati e ai recenti viaggi nell'amata penisola.
da siciliano, emigrato e lontano dalla Sicila, ti posso dire che in qualche modo è
RispondiEliminaaccussì
Berica, Francesco, mi fanno davvero molto piacere i vostri commenti, grazie.
RispondiElimina“Qua c’è il solito affollamento senza alcunché di straordinario … per il resto si sente subito d’essere in un paese e si sente pel fatto che c’è qui, o per il torpore proprio delle nostre coste, o per una innata rilassatezza in tutto, un non so che di sonnolento che paralizza tutte le attività e fin’anco l’attitudine a capire”. (Giorgio La Pira, Lettera alla zia Settimia, 1919).
RispondiEliminaRaramente ho letto appunti di viaggio così belli ed entusiastici, raramente ho sentito che qualcuno cogliesse molto bene e profondamente la mia Sicilia, nemmeno in scritti di autori siciliani.
È interessante il tuo partire dal temps vècu per cogliere lo spirito di un popolo, uno spirito solidificato e addensatosi in maniera più forte per il fatto che i confini d’acqua isolano e creano identità profonda molto più di confini di terra.
Credo che tu abbia sostanzialmente ragione, in Sicilia si vive in un tempo sospeso, dilatato, inesistente, come se non fossimo esseri umani, ma stirpe divina, come se per noi il tempo non passasse mai, come se il cambiamento, la trasformazione e la morte non ci riguardasse affatto (è per questo che in genere il siciliano non cambia, perché cambiare se sei già perfetto così? È per questo che viviamo come se la morte non ci fosse e quando c’è, quando coglie vicino da non poterla negare, la vediamo come un prodigio, uno scandalo, una cosa inaudita … proprio per questo Gesualdo Bufalino scrisse: “"... Sarà perché c'è troppa luce da noi, da voi e in tutto il Mediterraneo, perché il sentimento della Morte è intenso in Sicilia come in Spagna come in Grecia [...] perché dove c'è più luce, dove c'è più sole, lì il sentimento della Morte deve essere necessariamente più intenso, più sentito, più doloroso. [...] qui nella luce, sotto la forza del sole la morte rappresenta uno scandalo, una trasgressione, un'infrazione alla legge della Vita...". (Luce e lutto, Sellerio). Per questo lo stesso Bufalino considerava la morte una fiaba (http://www.letteratura.rai.it/articoli/gesualdo-bufalino-la-morte-%C3%A8-una-fiaba/10500/default.aspx); per questo per comprendere come tutto possa cambiare in superficie affinché tutto rimanga com’è nel profondo bisognerebbe rileggere il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa o ascoltare Di passaggio di Franco Battiato (https://www.youtube.com/watch?v=2m9XId4V8Xw).
Talvolta il tempo si fa immobile, come in quelle giornate in cui imperversa la canicola estiva e non gira per strada neanche un cane, talvolta è frenetico in apparenza, ma nasconde una sostanza identica e sempre uguale a se stessa, più che eraclitei in Sicilia siamo parmenidei, o meglio empedoclei, perché solo Empedocle non si fece illudere né dai fuochi pirotecnici dell’Etna in eruzione, né dal placido scorrere della sua lava sulle sue pendici, ma si buttò dentro il cratere per scoprire la vera essenza del vulcano.
La sensazione più diffusa nell’isola è che dentro il vulcano, sotto l’Isola, dove si narra che Cola Pesce si sarebbe calato per sostenerla, perché uno dei suoi pilastri aveva ceduto, l’interno della vera anima siciliana, in realtà non esistano; ci siamo illusi per millenni che gli invasori o i visitatori passassero senza modificarci, che potevano erigere edifici superbi, bellissimi, lasciarci doni preziosi come la coltivazione del mandorlo e degli agrumi o i terrazzamenti che ci permettevano di sfruttare i declivi, potevano portarci ricchezze infinite come le melanzane e i pomodori, fare in modo che la Sicilia divenisse un mosaico di fenotipi, dove il biondo, il rosso. il castano e il nero corvino convivessero, dove il diritto romano si integrasse con l’ordalia germanica e normanna … tutto questo l’abbiamo considerato pura apparenza, qualcosa di estraneo e ininfluente, mentre la presunta vera essenza diventava sempre più profonda ed impalpabile.
(segue)
Di certo questo ha decretato il senso di estraneità che avvertiamo per qualsiasi iniziativa collettiva, sia essa politica, sociale o culturale, e il culto della famiglia e dell’individualità, anzi dell’essere profondo in contrapposizione all’essere sociale, a ciò che lasciamo apparire di noi, al pupo le cui fila crediamo di tenere saldamente in mano, la “corda civile” o quella “seria” in contrapposizione alla “corda pazza” di Pirandello nel Berretto a sonagli.
RispondiEliminaIl timore profondo di non avere alcuna identità, di non essere più nulla, o soltanto un mosaico di culture senza alcuna sostanza, ha fatto si che la nostra essenza sia diventata sempre più interna, sempre più profonda e irraggiungibile, ma con la solidità di una certezza granitica, di un dogma o di un delirio di onnipotenza.
L’altra chiave per comprendere meglio l’Isola e i suoi abitanti, ma credo ce questa sia piuttosto una chiave per comprendere meglio i popoli del mediterraneo, e non soltanto i siciliani, è quella della luce, di ciò che appare contrapposto a ciò che viene celato.
L’abbiamo scoperto fra la fine del XVIII° e tutto il corso del XIX° secolo questo nostro aspetto, quando i primi viaggiatori (non più invasori) che calavano dai ghiacci e dalle nebbie del nord ed erano dotati di una certa sensibilità artistica, ci trasmisero per contrasto il loro cogliere la luce mediterranea, e quanto la cultura mediterranea fosse un gioco fra luci ed ombre, un carpire non le cose ma i loro riflessi.
In pittura i fiamminghi erano stati illuminati dalla luce delle città del mediterraneo che andavano visitando per imparare l’arte, e mandavano le loro navi dai porti di Amsterdam, Anversa, Ostenda l’Aia nelle più remote zone del mondo perché portassero loro quelle terre rare che permettevano ai pittori di creare quei colori così luminosi tipici della pittura fiamminga e che si propagarono anche in Italia con Raffaello, Tiziano, Giorgione e Paolo Veronese.
Qui la luce cristallizza tutto e lo rende immobile ed uguale a se stesso: cose, animali (che si uniformano ai padroni), piante (che necessitano di tempo e di cure infinite) e uomini, come in quei giardini di pietra del barocco netino, ragusano, modicano, siracusano, leccese, barese, romano,…, in cui motivi floreali, piante, angeli, amorini, santi, madonne, persone importanti, personaggi mitologici, personalità storiche che hanno inciso nella storia del mondo, sono pietrificati, esprimono un gesto assoluto, e anche la resa spontanea di un movimento, di un’emozione è impressa per sempre nel marmo o nel tufo.
Linee di forza, spinte al movimento, le emozioni e la vita stessa rese immobili nella pietra, questo fu il barocco, la conservazione della vita in una materia inalterabile e immodificabile, che sfidasse il tempo e i millenni, come avevano fatto i greci e i romani, ma con ancora più accanimento, perché l’arte greco-romana solidificava concetti armonici e lineari, l’arte barocca tenta di solidificare la linea curva, la spirale, l’insolito, l’irregolare e il grottesco.
(segue)
Ma in fondo gli architetti e gli scultori del siglo de oro barocco, i vari Bernini, Borromini, Gagliardi, Juvarra, Zimbalo, Guarini, Longhena, …, non hanno inventato nulla, hanno solo imitato il vulcano che col suo magma pietrificava tutta la vita e la natura che incontrava sul suo cammino, rendendole così immortali, ma nello stesso tempo privandole della vita e della loro essenza.
RispondiEliminaForse è questo ciò che è successo ai siciliani e ai popoli del sud, la loro posizione geografica al centro del Mediterraneo ha favorito continue “colate” di gente in quel territorio che ha solidificato di volta in volta la propria cultura in magnifici monumenti, privando la terra e i suoi abitanti di un’identità proprie e rendendoli dei semplici e inanimati custodi di splendidi giardini di pietra.
Ciao
P.S. Sarà difficile che tu mi creda se ti dico che quando ho scritto l’ultima e-mail che ti ho mandato non avevo ancora letto questo post :-)
Non conosco la lettera di La Pira ma non posso condividere quelle poche parole, mi sembrano scritte con inopportuna fretta in un luogo dove il tempo si ferma non per nascondersi ma per farsi vedere in tutta la sua terribile bellezza, una bellezza che può annichilire anche le menti più brillanti... mi viene in mente la stracitata frase di Goethe "all'ombra degli ulivi non crescono i fiori", citata più per ragioni politiche che letterarie ma chissà se poi l'ha scritta davvero, ne dubito, non la ricordo nel suo viaggio in Italia, dove di sicuro ha scritto che "l'Italia senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto". Pazienza per i fiori, vorrà dire che sotto gli ulivi cresce altro, basta saperlo cogliere se si lascia cogliere, altrimenti lascialo dov'è!
RispondiElimina"Il tempo è la sostanza di cui son fatto" scriveva Borges. Ogni luogo ha il suo tempo e cercare di coglierlo per me significa entrare nelle pieghe dei luoghi che visito e nelle mie pieghe. Del resto è necessario registrare l'orologio interno con il "fuso orario" del luogo in cui siamo, e non basta cambiare l'orario, spesso è necessario cambiare anche la velocità. Se non lo fai rischi di compromettere "fin'anco l'attitudine a capire".
Sì, la chiave del tempo è la luce. Non è solo un concetto fisico, einstainiano, è anche un concetto estetico che si intreccia con la morte nei paesi "dove la luce pare / di carne cruda", scrive Vittorio Bodini corrispondente, non a caso, di Leonardo Sciascia. "Cade a pezzi a quest'ora sulle terre del Sud / un tramonto da bestia macellata", quella bestia che sta appesa all'uncino del macellaio della Vucciria di Renato Guttuso. "Dove è più nero il lutto, ivi è più flagrante la luce, e fa sembrare incredibile, inaccettabile la morte", scrive Bufalino in una pagina sublime.
Torno ancora a Bodini per il barocco del sud, un horror vacui impresso nel tufo, una necessità frenetica di riempire il nulla che "un'intera popolazione non priva di sangue arabo e aragonese, e più remotamente greco, ha giocato tutte le sue carte, gareggiando col caso nel creare un numero infinito di combinazioni d'una lucidissima incoerenza. Guardate come neanche il più piccolo spazio è lasciato libero: il vuoto o il troppo semplice si direbbe che repugnino all'artefice quasi sempre anonimo di questi prodigi [...] Ed è che nel duello fra l'angoscia del nulla e il cieco impulso a sottrarvisi, l'attività creatrice ha oltrepassato il proprio stimolo, liberando con quel «di più» una fantasia pura e invaghita della libertà casualmente acquistata. Ecco perché in presenza di questi tufi squisiti si ha fermamente il sospetto che quest'arte sia meno al servizio di Dio che del suo Avversario." (Barocco del Sud. Racconti e prose).
(segue)
Bodini parlava del barocco leccese ma dubito fortemente che il suo pensiero sarebbe stato diverso per il barocco siciliano, netino in particolare. Con il barocco del sud non c’è solo il tentativo di congelare il movimento, di renderlo immortale, aspirazione già ambiziosa ma di rendere il divenire eternamente diveniente. Qui diventa viva la lotta di cui parlava Dostoevskij per bocca del più passionale dei fratelli Karamazov: "la cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. E’ qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini." Ma la vera differenza con il barocco che si può vedere altrove è che non è scontato che nella lotta l'artista del sud sia dalla parte di Dio. Se il cuore degli uomini è un campo di battaglia, il cuore del sud è un campo truccato dove la lotta tra bene e male non ha esiti scontati.
RispondiEliminaIl tuo commento è disseminato di quella sofferenza per eccesso di identità di cui parla Bufalino, è la dissoluzione pirandelliana dell'identità continuamente lacerata tra uno, nessuno e centomila Vitangelo Moscarda. Ma io seguirò il consiglio di un altro siciliano che tu stesso mi hai suggerito di leggere "per ogni evenienza, meglio attenersi a questa prudenza: contraddire sempre i siciliani quando parlano male di se stessi." (Roberto Alajmo, L'arte di annacarsi). Seguirò il consiglio ricordando i versi di Pessoa che dell'eccesso di identità ha pervaso la sua poetica per l'urgenza di "sentir tutto / in tutte le maniere […] Se le cose sono frantumi / del sapere dell’universo, / sia io i miei frammenti, / impreciso e diverso. [...] Così Dio imito, / che quando fece quel che è / gli tolse l’infinito / e perfino l’unità." In Pessoa l’eccesso di identità non si dissolve, si dissemina. Questa risonanza tra Pirandello e Pessoa mi ha sempre stordito, sono agli antipodi e con le loro mani tengono gli estremi della stessa corda. Capirò di più quando visiterò Lisbona che non sia affaccia nel mediterraneo ma sull’oceano e forse è questa la differenza sostanziale.
Grazie per il documentario di Bufalino, sentire la lettura delle sue parole su Comiso all'apertura mi ha fatto venire la pelle d'oca.
Perché non dovrei crederti se mi dici che non avevi ancora letto il post? ;-)
Ciao.
Capita che saltando da un blog all'altro si venga misteriosamente guidati a Lisbona e poi di colpo trasportati in Sicilia. La mia terra.
RispondiEliminaNe hai scritto bene con cultura e misura, cosa difficile per un luogo smisurato, ne hai scritto a lungo e come era prevedibile l'isola suscita e stimola, accarezza e allontana. Difficile definirne il fascino,più semplice raccontarne le contraddizioni: io ne ho scritto anni fa e se cerchi nel mio blog ci trovi questo post
http://rivellistorie.blogspot.it/2015/01/questa-e-la-mia-terra.html
A me pare che si chiamino l'un l'altro. E' stato un vero piacere. Salutiamo
Enzo benvenuto, ti ringrazio per le belle parole e per avermi fatto conoscere il tuo blog. Sì, i due post si chiamano. E' la frontiera che racconta cose simili agli abitanti di frontiera. La mia frontiera è il Salento. Sarà questo essere di frontiera che ci accomuna e mi accomuna ai popoli mediterranei. Saluti a te.
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