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domenica 18 settembre 2016

Note sui riccioli di burro

Nel corso del XVIII si ebbe in Europa quella stagione del pensiero nota come Illuminismo e quel lasso di tempo è spesso chiamato Secolo dei Lumi, del quale ci diciamo fieramente figli, anche se Voltaire, Diderot, Rousseau[1], Hume, Kant ecc. non sono più tra i best-seller delle librerie. I valori promossi dall’Illuminismo, sintetizzati dal motto della rivoluzione francese Liberté, Ègalité, Fraternité, sono il riconosciuto, non da tutti, fondamento dell’Europa così come oggi la conosciamo, anzi come la vorremmo conoscere. Alcuni a questo fondamento preferiscono anteporre le radici cristiane ma dopo le guerre di religione sono stati i Lumi, per quanto posteriori e non privi di errori, a porre l’attenzione ai principi di tolleranza e a consentire la coesistenza dei fondamenti, non la cristianità.
Nell’epoca dei Lumi, secondo l’affermazione di Kant, la ragione diventa maggiorenne proprio perché riconosce i suoi limiti. La stagione in cui ragione, critica e tolleranza costituivano i valori guida non fu esente dalle derive totalitarie in cui scivolò lo “spettacolo” (così la chiamava Kant) della rivoluzione francese. Le principali critiche alla cultura illuministica sono indirizzate alla dea Ragione, confondendo Robespierre con i philosophes e il mercato con l’Illuminismo. D’altra parte la dea Ragione con la R maiuscola e il titolo di dea non dovrebbe faticare troppo a farsi riconoscere la matrice sospettosamente religiosa più che illuminista, ma come si sa, la storia è anche interpretazione e se l’interpretazione non è troppo complicata è meglio!
 Agli inizi del secolo scorso Musil aveva individuato un intimo rapporto tra ragione e atteggiamento eroico, nel senso caro ai greci. Nel saggio L’uomo matematico Musil affermava: “Proprio così, i matematici guardarono giù al fondo e videro che tutto l’edificio è sospeso in aria. Eppure le macchine funzionano! Insomma, siamo costretti ad ammettere che la nostra esistenza è un fantasma. Noi la viviamo, ma soltanto sulla base di un errore; senza di esso non esisterebbe. Solo il matematico, oggigiorno, può provare sensazioni così fantastiche.
"A questo scandalo intellettuale il matematico reagisce in modo esemplare: lo sopporta con orgogliosa fiducia nella diabolica pericolosità dell’intelletto. ….Noialtri dopo l’Illuminismo ci siamo persi di coraggio. E’ bastato un piccolo fallimento per farci voltare le spalle all’intelletto, e permettiamo a ogni esaltato zuccone di tacciare di vano razionalismo le aspirazioni di d’Alembert e di Diderot. Andiamo in visibilio per il sentimento e diamo addosso all’intelletto, dimenticando che il sentimento senza l’intelletto – fatte le debite eccezioni – è grasso come un ricciolo di burro.”[2] Per Musil, nel 1913, “i matematici sono un’analogia dell’uomo spirituale dell’avvenire” ma tristemente i sedicenti uomini spirituali di oggi, non sapendo distinguere tra ragione, scienza e tecnica, fanno di tutto per tenere il ‘ricciolo di burro’ a basse temperature invocando, più per efficacia dello slogan che per pura convinzione, la perdita di valori della società contemporanea. E' tristemente evidente, come affermava sempre Musil, che “l’intelletto non potrebbe dissolverli [i valori] se essi non fossero già incrinati nei loro presupposti emotivi. L’aspetto emotivo non dipende dalla natura dell’intelletto, ma da quella dei valori! L’intelletto, per sua natura, può essere tanto coesivo quanto disgregatore. Esso, anzi, è la più potente forza coesiva nei rapporti umani, e questo, stranamente, i ‘begli spiriti’ che accusano l’intelletto spesso se lo dimenticano. Il problema, insomma, può essere soltanto questo: un cattivo rapporto tra intelletto e ‘anima’, che vivono l’uno accanto all’altro senza incontrarsi. Non possediamo troppo intelletto e troppo poca anima, ma usiamo troppo poco l’intelletto nelle faccende dell’anima.”[3]
Si dibatte ancora sull’attualità dell’Illuminismo[4] e si rievocano spesso le degenerazioni e i limiti della “sola” ragione. Cosa faccia più paura, se le degenerazioni o i limiti non si osa sapere!

[1] Per molti aspetti Rousseau può essere considerato il precursore del Romanticismo, B. Russell, Storia della filosofia occidentale, Mondadori, 1984. p. 652-666.
[2] R. Musil, L’uomo matematico, 1913. In Sulla stupidità e altri scritti, Mondadori, 1986. p. 47-48.
[3] R. Musil, L’Europa abbandonata a se stessa ovvero Viaggio di palo in frasca, 1922. In Sulla stupidità e altri scritti, Mondadori, 1986. p. 126-127.
[4] E. Scalfari, Attualità dell’Illuminismo, Laterza, 2001.

9 commenti:

  1. Mi sono chiesto spesso in questi ultimi anni se quella tra “ragione” e “sentimento” non sia una polarità artificiale, che non coglie in realtà qualcosa di esistente e funzionante, quanto un’alterazione disfunzionale della modalità che ha l’uomo di prendere contatto col mondo.
    Quando, ad esempio, noi pensiamo al sentimento, ci raffiguriamo qualcosa di oscuro, ancestrale, inesplicabile, ingovernabile, che non sappiamo da dove provenga (c’è chi dice dall’inconscio, c’è chi dice dall’istinto animale, c’è chi unisce le due cose), e non sappiamo dove ci porterà, perché dove c’è sentimento non esiste una soggettività, l’io ne viene travolto dalle forze irrazionali e si cancella.
    Non pensiamo minimamente che in realtà il sentimento è il più acuto strumento di conoscenza che possediamo, che ci mette in contatto direttamente col mondo affettivo altrui, senza la mediazione di schemi cognitivi, di parole o di simboli.
    Volgendoci indietro alla matrice dalla nostra cultura occidentale, la cultura greca, è pur vero che i greci antichi ribadivano la necessità di controllare i nostri sentimenti, di temperarli, di padroneggiarli, ma questo non vuol dire che li volessero eliminare o che li temessero, ne temevano piuttosto gli eccessi, le degenerazioni, oltre al famoso “conosci te stesso” l’altro motto che li contraddistingue (ma che non ha avuto altrettanta fortuna del primo presso noi moderni) è “ottima è la misura, inciso sul frontone principale dell’oracolo di Apollo delfico, per molti secoli l’ombelico culturale del Mediterraneo, il centro stesso della sapienza.
    Se parlavano spesso di temperanza è perché sentivano l’esigenza dell’intemperanza, conoscevano in se stessi e nell’uomo in generale, la tendenza a superare i propri limiti e la rappresentavano nei loro miti e nelle loro rappresentazioni artistiche; se avvertivano l’esigenza di un freno è perché amavano la velocità.
    D’altro canto, anche la ragione quando diventa “dea” si fa irrazionale e diventa credenza, superstizione, dogma, religione, invece di stimolare la curiosità e la conoscenza; la razionalità non si è infranta soltanto perché i matematici hanno visto che tutto l’edificio della conoscenza era sospeso nel vuoto, o perché la ragione ci ha condotti dalla techné greca, alla tecnica e alla tecnologia moderne, cioè alla produzione di strumenti che prolungano i nostri organi e le nostre funzioni, che però non possiedono più alcun senso né alcuna anima.
    La razionalità dell’Occidente si è suicidata con i nazionalismi, con le ideologie, con la costruzione di grandi blocchi che elevavano la parte al tutto e tentavano di controllare o di distruggere tutto ciò che non ricadeva in questo tutto immaginato e immaginario, in centri di potere così totalizzanti da dover escludere o convertire tutto ciò che era diverso.
    La ragione si è frantumata nelle due grandi guerre mondiali del secolo scorso, in questa strisciante terza guerra mondiale e totale che stiamo vivendo, seppure non è mai stata dichiarata, si è infranta ad Auschwitz, ma l’inizio del suo declino non è recente, è antico, antichissimo, dobbiamo risalire alla falange macedone, alla follia di Alessandro di conquistare tutto il mondo conosciuto, al successo che ebbe, successo che tentarono di replicare i romani e molti dopo di loro.
    (segue)

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  2. E’ difficile parlare di ragione dopo il genocidio ebraico, dopo i campi di concentramento nazisti, dopo che tutta l’Europa ha contribuito in qualche modo con zelo a questo sterminio, dopo i Gulag, dopo l’atomica ad Hiroshima e Nagasaki; tutto questo è stato pensato come “scientifico”, razionale, naturale, sensato, è stato pianificato accuratamente, organizzato razionalmente, eseguito impeccabilmente, siamo diventati un po’ tutti funzionati efficienti ed efficaci della morte, dal delatore italiano o francese che denunciava i suoi vicini come ebrei, alla polizia locale che li arrestava, ai ferrovieri che li accatastavano in treno e li piombavano, fino ai soldati nazisti che li custodivano, ai capò (ebrei che controllavano altri ebrei) e perfino ai cani che badavano ad un gregge umano agli ordini di pastori spietati.
    Non siamo riusciti a superare, neanche oggi, la dicotomia sentimento-ragione, siamo ancora atterriti e schiacciati sia dall’uno che dall’altro perché sia dell’uno che dell’altro abbiamo conosciuto solo le degenerazioni e ne abbiamo perso i limiti.
    Ma, soprattutto, abbiamo perso il senso che sia ciò che chiamiamo sentimento, sia ciò che chiamiamo ragione non possono essere scissi l’uno dall’altro, entrambi appartengono ad un processo conoscitivo ed esperienziali che ci lega al mondo e agli altri, entrambi dovrebbero accompagnarci in questo processo parallelamente, perché se dovesse prevalere l’uno o l’altra questo processo ne sarebbe falsato e ci porterebbe fuori strada.
    Dovremmo riscrivere il mito platonico della biga alata, in cui un cavallo sia l’impeto della passione e l’altro il freno della ragione mentre l’auriga sia il soggetto che assume su di sé la propria esistenza e la dirige dando un senso a se e al mondo.
    Ciao
    P.S. I riccioli di burro forse appartengono al nostro tentativo di capire questo grande dilemma, ogni soluzione per quanto bella quanto un bel ricciolo, potrebbe sciogliersi fra le nostre mani ungendole del suo grasso.

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  3. Caro Garbo, ho atteso questo inizio di fine settimana per rispondere al tuo commento con la serenità che chiede. La polarità tra ragione e sentimento è in qualche modo parente stretta di altre polarità che hanno lacerato la nostra interezza. Di solito le consideriamo figlie di quel dualismo platonico tra anima e corpo. Povero Platone, ha dovuto attendere molti secoli per dividere l'accusa con Cartesio! Chissà quanto altro dovrà attendere per essere rivalutato, perché il suo dualismo sia letto in chiave epistemologica, come la definizione di una mappa ideale che serve a conoscere il territorio, non a sostituirlo. E poi, sarà veramente tutta colpa di Platone? Lascio volentieri queste considerazioni e mi butto su quello che mi è più congeniale. L'animaletto bipede e implume di cui parliamo ha avuto a un certo punto della sua storia la disgrazia di dotarsi di una struttura cerebrale che gli consentiva di vedere cosa lo avrebbe atteso. Da quel momento ha cominciato tremare di paura, a capire che il suo corpo sarebbe invecchiato e poi sarebbe morto mentre i pensieri, ah i pensieri, quelli non si vedono, volano i pensieri e chissà da dove vengono. Già, chissà da dove vengono! Ancora oggi molti pensatori strepitano quando sentono che anche i pensieri sono il frutto del proprio corpo (bada bene, del corpo non del cervello, che pure lì c'è tutto un fiorire di dualismi...). Il fatto che ad oggi non si disponga di una soddisfacente teoria della mente li lascia sperare che ci sia bisogno di un quid in più rispetto all'immonda materia. Eccola la madre di tutti i dualismi, la materia decade e muore mentre il pensiero/pneuma/spirito non può decadere, è immortale. Troppo affezionato alle parole per non riconoscere in materia la comune radice con mater. E qui c'è l'altro dualismo tra maschile e femminile, l'oro e l'argento, il sole e la luna degli alchimisti. Il dualismo che oggi più che mai andrebbe indagato in profondo. L'opposizione che dalla nascita il piccolo uomo non riesce a elaborare. Lui, padrone e signore dell'universo, è svilito per nascita da chi ha avuto il potere di metterlo al mondo. Dio padre è la vendetta nei confronti del dio-dea madre. Se dà la vita, dà anche la morte e il maschile resta intrappolato in questa fittizia equivalenza del potere che non può avere. La stessa accusa contro il materialismo della nostra epoca è carica di equivoci ma di questo ne abbiamo già parlato.
    Ragione e sentimento sono l'ennesima trasfigurazione dei dualismi. La ragione/spirito e il sentimento/corpo. Non è un caso se nella storia queste qualità abbiano trovato associazione con il genere maschile/femminile! Sono d'accordo con te, il sentimento e prima ancora le emozioni sono il più acuto strumento di conoscenza che possediamo, probabilmente il più ancestrale ma nelle faccende evolutive ancestrale sta per fondamentale, che costituisce fondamento e senza quel fondamento quello che viene dopo non si regge. L'intrinseca unità tra funzioni razionali e emotive adesso è indagata e riconosciuta dalla neurobiologia. L'unità mente/corpo non è più un tabù, eccetto per gli ultimi soldati giapponesi che ancora non credono che la guerra è finita o sta per finire! Poi ci sarebbe da discutere per giorni su cosa intendiamo per razionale. La decisione presa dopo ponderazione delle possibilità note? Sappiamo che non è priva di errori e fallacie percettive. L'analisi matematica delle decisioni? Allora riguarderebbe una esigua minoranza di individui. L'una e l'altra attività coinvolgono i centri cosiddetti razionali della neocorteccia ma spesso questi centri entrano in azione per “giustificare” azioni già decise. Su base emotiva? Forse sì.
    (segue)

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  4. Insomma come disse Hume: «La ragione è, e può solo essere, schiava delle passioni e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire e obbedire a esse.» E' un discorso lungo e qui possiamo solo sfiorarlo. Ma quello che è necessario dire è che ciò che chiamiamo razionalità è spesso una razionalizzazione a posteriori e se facciamo un salto dal singolo soggetto alla razionalità di un'epoca, passami l'espressione, allora il discorso diventa più complesso. Sì, la ragione si è suicidata nel '900 e le radici prossime di quel suicidio erano nei nazionalismi e negli imperialismi dell'800 e se andiamo indietro troveremo altre radici, fino ad arrivare ad Alessandro che, come dice Vecchioni, “conquistò nazione dopo nazione, / e quando fu di fronte al mare si sentì un coglione / perché più in là / non si poteva conquistare niente”. Facciamolo pure questo lavoro genealogico, è sicuramente utile, ma ogni volta non possiamo non chiederci di quale ragione parliamo. Il '900 è stato uno spartiacque, il genocidio è stato condotto con precisione tecnica, è stato programmato e progettato con lucidità. Noi associamo la lucidità, la programmazione alle funzioni razionali ma siamo sicuri che sia proprio così? Cosa chiamiamo ragione? Non è mero nominalismo, interrogarsi su questi temi significa buttare giù il paravento della ragione quando si tratta di un paravento e mettersi alla ricerca di qualcosa di più solido. Quello che dici è tristemente vero, “siamo diventati un po’ tutti funzionari efficienti ed efficaci della morte”, ma di fronte a questo io non vedo razionalità, vedo una specie incapace di gestire il proprio progresso, incapace di contenerlo e che ne è sopraffatta a livello locale (crisi sociale) come a livello globale (crisi ambientale, cambiamenti climatici). E' razionalità questa? Se lo è abbiamo bisogno di rivedere il concetto e sicuramente abbiamo bisogno di metterlo in comunicazione stretta con quelle istanze emotive che ci hanno fatto sviluppare una visione dell'altro, preludio indispensabile alla coscienza. Sicuramente la psicoanalisi ha un ruolo privilegiato e impegnativo in questo compito. Invece alla filosofia mi piacerebbe assegnare il compito di distinguere con maggiore accortezza tra ragione, scienza e tecnica per capire in che relazione siano tra loro e con il mercato, ultima e definitiva trasfigurazione di ciò che è invisibile e immortale!
    Mi piace la tua rilettura dell'auriga di Platone. Il bello di questi tipi qua è che non si finisce mai di leggerli.

    PS – come ho scritto nel post, il ricciolo lo tengono a bassa temperatura per non farlo sciogliere.
    PPS – attendo ancora che tu mi dica del singhiozzo di Aristofane al simposio :-)

    Buon fine settimana

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  5. Non ho nè la vostra proprietà di linguaggio nè tantomeno il bagaglio di letture appropriate per partecipare attivamente a questa discussione. Devo dire che mi sono sentito come uno spettatore privilegiato seduto intorno a un tavolo con due persone che discutevano sulla ragione e il sentimento. Sarebbe bello se questo dibattito potesse continuare.
    Posso aggiungere solo un pensiero in merito al dibattito: ho sempre pensato alla ragione e al sentimento come due espressioni contrapposte e collaborative indispensabili alla crescita di un soggetto. Se alle volte prevale l'una il rischio è quello di allontanarsi dall'esperienza emotiva; qualora prevalesse l'altra il rischio potrebbe essere allontanarsi dall'esperienza conoscitiva......magari non c'ho capito niente!
    ;)

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    1. Anche se ne abbiamo parlato è da maleducati non lasciarti qui un segno del mio gradimento per il tuo commento :-) per il resto Garbo ha già scritto quello che io stesso avrei scritto. Ciao ;-)

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  6. Ti leggo e invece di replicarti le mille cose che mi ha fatto venire in mente il tuo discorso, le mille cose che condivido o i mille dubbi che mi hai suscitato, ti dico solo che sono felice di averti incrociato nel mio cammino. Sento che il tuo discorso non è solo una stratificazione di cultura, seppure notevole, ma è soprattutto profondo, denso, vissuto … e questa è la parte più interessante.
    Sul singhiozzo di Aristofane: al momento sto concertando un discorso su Lacan che verte su un sogno, non so ancora se riuscirò a renderlo fruibile per il blog, Lacan è un autore di difficile comprensione, molti miei colleghi non nascondono di non capirlo affatto, altri fingono di averlo capito, e io stesso mi arrabatto con i miei modesti talenti per trarne qualcosa di utile.
    Mentre cercavo di venire a capo del sogno suddetto, un sogno che riporta Freud nella sua Traumdeutung, mi sono imbattuto nel Simposio e in questo strano affare del singhiozzo di Aristofane, ma un conto è suscitare dubbi su un’opera (come ho fatto in quel post), un altro è rendere conto dell’arco di volta che era per Lacan la spiegazione stessa di quello strano dialogo platonico che è il Simposio.
    Ti lascio un indizio per istradarti: perché Aristofane compare come commensale in un simposio organizzato dalla stretta cerchia socratica? Aristofane non è soltanto uno che critica Socrate, è uno che con le sue commedie cerca di ridicolizzarlo agli occhi di tutta la città, e Aristofane era certo più diretto, immediato e diffuso di quanto potesse essere l’insegnamento socratico.
    Si può dire che non ci fosse ateniese che non avesse assistito alle Nuvole aristofanee a teatro, mentre erano molto meno gli uditori dei discorsi socratici; molto probabilmente l’avversione di Aristofane per Socrate contribuì al suo declino e alla sua sentenza di morte. Perché invitarlo allora, perché fare esprimere ad un guitto (tali erano considerati gli autori di commedie) una qualche verità sull’amore? Cose dice poi in definitiva?
    E qui mi fermo, ma se posso ci ritornerò in seguito, solo non a breve :-)
    Ciao

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    1. E' una felicità che condivido perché i nostri simposi non saranno affollati come quelli di Platone ma sono davvero stimolanti e non di rado mi capita di rileggerli. Così come devo rileggere il Simposio con più attenzione di quella dedicatagli a suo tempo, tanto tempo ormai. Da quello che dici è evidente che il singhiozzo non è semplicemente un modo per mettere in ridicolo Aristofane come lui aveva fatto con Socrate. A presto.

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  7. @ Vito,
    ti assicuro che non ho mai valutato il contributo di una persona ad un dibattito dal numero di libri che questa persona ha letto, o dalla serie di citazioni che è in grado di sfoggiare. Su sentimento e ragione: io credo che si tratti di un unico atto conoscitivo, che soltanto la nostra cultura distingue, perché è portata a scindere ogni cosa in dettagli più piccoli, illudendosi così di comprendere meglio ciò che sta succedendo.
    Ma l’atto conoscitivo a mio parere è un atto complessivo a cui partecipa tutto quanto il nostro essere con tutte le sue facoltà o possibilità. Il prevalere di componenti emotive o di quelle razionali è sempre uno sbandamento a livello conoscitivo: nel caso prevalesse l’emotività avremmo una analisi profonda, ma scarsamente affidabile, perché le emozioni sono caleidoscopiche, si susseguono molto velocemente una all’altra, e ci dicono quello che noi proviamo, e nulla su ciò che ce le ha provocate., sul mondo esterno.
    Se dovesse prevalere la cosiddetta razionalità, noi organizzeremmo il mondo senza pensare che noi facciamo parte di quel mondo, semplicemente come se ne fossimo osservatori esterni, e senza riuscire mai a cogliere le motivazioni profonde di ciò che conosciamo e del perché siamo stati attratti dal conoscerle.
    In definitiva credo, come te, che non possiamo prescindere da nessuno dei nostri strumenti conoscitivi e che dovremmo ascoltare ogni voce, ogni pensiero, ogni sensazione, ogni emozione, ogni percezione si imponga alla mostra attenzione e attendere anche quelle che in genere si manifestano un po’ in ritardo … è il classico dormirci una notte sopra prima di decidere o di deliberare :-)
    Ciao

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