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venerdì 25 giugno 2010

Potessimo essere soli...

Alla maturità di quest'anno hanno chiesto "Siamo soli nell'Universo?"...domanda interessante.
Se avessi dovuto scrivere quel tema oggi, a più di 23 anni di distanza dai miei 18 anni, mi chiedo se i professori mi avrebbero giudicato maturo. Già! perché oggi non avrei esitato a rispondere secco "no, non siamo soli nell'Universo, purtroppo!" e avrei parlato di molti abusivi che popolano la terra (io ne vedo tanti nel mio paese), che sarebbe anche terminologicamente corretto definire extraterrestri. Sarebbe stato inutile fare un elenco di nomi che avrebbero insozzato il mio foglio, avrei fatto solo qualche richiamo, poche allusioni, dei rimandi, un riferimento appena accennato.
Sì, avrei sicuramente parlato degli extraterrestri che vivono tra noi perché il grande mistero oggi non è se c'è un altro pianeta abitato ma se c'è un angolo vuoto su questo pianeta dove andare a piangere.
Chissà se sarei stato giudicato maturo, penso proprio di no!

mercoledì 23 giugno 2010

Del successo del capitalismo!

Prima della crisi economica non era raro sentire parlare apertamente del successo del modello capitalistico. Adesso chi lo fa si camuffa da ministro dell’economia!

La verità è che quando parliamo di modello capitalistico non abbiamo in mente qualcosa di preciso. Le categorie del successo o dell’insuccesso sono decisamente riduttive e non certo adatte per fare un bilancio di un modello economico, storico e sociale complesso dalle mille sfaccettature. E’ fuor di dubbio che gli aspetti essenziali che etichettiamo come capitalismo, ossia il diritto di organizzazione dei fattori produttivi (Terra, Lavoro, Capitale) e del libero scambio delle merci abbiano comportato una crescita della ricchezza ed uno sviluppo delle libertà che, in un contesto di povertà diffusa, non trovano espressione ma è altrettanto vero che l’analisi di un fenomeno storico non può prescindere dal contesto in cui quel fenomeno si sviluppa. Una valutazione atemporale del capitalismo è utile al giudizio che si può formulare intorno a questo sistema economico quanto la dialettica di Hegel è utile per distinguere la Ragione dal Destino, con tutto il rispetto per il filosofo tedesco.

Il capitalismo nel corso della storia ha mutato molte facce e si è dimostrato sufficientemente flessibile da sopravvivere alle sollecitazioni esterne (come il comunismo) ed a quelle interne (come le crisi economiche e finanziarie). Nonostante una certa fiducia sulla continuità del capitalismo non sia del tutto infondata resta prudente considerare che le vicende passate non possono dare la certezza che in futuro le cose andranno nella stessa maniera, salvo non si voglia guidare un’auto guardando solo lo specchietto retrovisore!

Mi risulta impossibile considerare il capitalismo soltanto nei suoi aspetti strettamente economici e di mercato senza considerare il contesto sociopolitico in cui si realizza. Molti sono pronti ad associare capitalismo e democrazia ma trascurano di sottolineare che la relazione non è biunivoca, nel senso che le democrazie note hanno strutture economiche capitalistiche ma non è vero il contrario. La storia ci ha mostrato che il sistema capitalistico si adegua bene alle più svariate forme di governo e ai più diversi indirizzi ideologici, il Cile di Pinochet era capitalista almeno quanto la Cina di Deng Xiaoping. Pertanto quando parliamo di capitalismo è utile chiarire di che tipo di capitalismo stiamo parlando e in quale contesto politico si dispiega. Se il successo del capitalismo è misurato sulle basi esclusivamente funzionali di un concetto mercatistico allora diventa plausibile l’irriguardosa analogia che un coltello ben affilato funziona molto bene per tagliare il pane ma altrettanto bene per tagliare la gola ad un uomo. Il successo del capitalismo non può evitare di confrontarsi con le fragili basi epistemologiche della teoria economica di cui Nicholas Georgescu-Roegen ci ha informati[1] o con le implicazioni etiche trascurate da una economia letta solo secondo criteri ingegneristici di funzionalità, come ci ha insegnato Amartya Sen[2].

La realizzazione di una sorta di patto tra mercato e democrazia risale al New Deal di Roosevelt, dopo la crisi del '29. Il patto divenne elemento costitutivo dell'ordinamento di molti paesi dal secondo dopoguerra. Nel nostro paese quel patto tra mercato e democrazia risuona nelle parole dell’articolo 41 della Costituzione: “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.” Questo articolo, insieme al meraviglioso articolo 3, che andrebbe citato come fosse un atto d’amore (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”), dipinge il quadro all’interno del quale si deve giudicare del successo o dell’insuccesso di un sistema economico.

Il capitalismo non è un edificio filosofico alla ricerca della verità ma certamente non può neanche fare a meno di confrontarsi con un principio di realtà in cui manifestamente si presentano i limiti fisici delle risorse e dove le vecchie categorie dello spazio e del tempo sono ancora le forme a priori e non prodotti di mercato come ogni altro oggetto. Per quanto riguarda il primo aspetto si è già detto tanto e si rischierebbe di passare per ambientalisti a sottolinearlo eccessivamente, che il capitale naturale sia trattato come reddito dai guru dell’economia poco importa se l’economia funziona lo stesso! Il secondo aspetto menzionato è invece un prodotto tutto interno al sistema capitalistico ed è quel processo noto come globalizzazione per quanto riguarda lo spazio e di finanziarizzazione per quanto riguarda il tempo. Anche della globalizzazione si è detto abbastanza, ed enfatizzare troppo aspetti inerenti l’equità dello sviluppo o la soppressione delle entità statali sull’altare delle ineffabili multinazionali è diventato quasi un esercizio per giovanotti da centro sociale. La finanziarizzazione invece, ultima effige del proteo capitalista, “è il ricorso sistematico all’indebitamento, che scarica sul futuro le incertezze del presente, ovvero: la mercatizzazione del futuro.”[3] (chi non ama i giri di parole può sintetizzare dicendo: "Si vendono pure i debiti questi pezzenti!"). Giorgio Ruffolo ci dice che “La finanziarizzazione, sovvertendo il rapporto tra economia dei beni ed economia dei segni, minaccia di coinvolgere le società del nostro tempo in uno strano gioco del parapendio in cui non si sa bene se è l’ombrello a volteggiare attorno alla terra o la terra attorno all’ombrello.”[4]

Sulla eventuale caduta futura del parapendio non so dire, ma sta di fatto che le varie crisi del sistema capitalistico sono state sempre superate grazie all’intervento di quello Stato tanto inviso alle logiche (!?) di mercato, con tanti saluti all’autoregolamentazione. Del resto le conseguenze economiche e sociali della flessibilità, tanto utile al mercato, non ricadono forse sullo Stato?[5] Ma allora quando parliamo di successo del capitalismo siamo sicuri che sia proprio del capitalismo il successo di cui parliamo? O non è forse di quel patto tra mercato e democrazia contenuto nell’articolo 41 della Costituzione che Tremonti vuole riformare con il plauso di Berlusconi? Inoltre, se il successo è misura della bontà, e dubito fortemente che sia così (perché mescoleremmo aspetti etici con aspetti quantitativi), non è utile chiedersi qual è la scala spazio-temporale del successo e quali siano le conseguenze di questo successo su altre scale?

Non si tratta solo di osservare che il capitalismo non soddisfa le esigenze esterne alla sfera produttiva ma, ebbene sì, si tratta ancora di misurarsi con le contraddizioni interne ad un capitalismo che si alimenta di un processo di produzione senza senso che si autoamplifica.
Diciamo la verità, Marx si sarà fatto prendere la mano dalla Storia, o forse voleva essere lui a prenderla per mano, ma sulle contraddizioni del capitalismo ci aveva preso in pieno.


[1] N. Georgescu-Roegen, Bioeconomia. Verso un'altra economia ecologicamente e socialmente sostenibile. Bollati Boringhieri. 2003.
[2] A. K. Sen, Etica ed economia. Laterza, 2002.

[3] G. Ruffolo, Il capitalismo ha i secoli contati. Einaudi, 2008. p. 228.
[4]
G. Ruffolo, op. cit., p. 242.
[5] L. Gallino, Contro la precarietà. Il lavoro non è una merce. Laterza, 2007.

lunedì 21 giugno 2010

Forse solo il silenzio esiste davvero


L'articolo che segue è tratto integralmente da La Stampa. Ritengo questa lettura un'analisi molto profonda della poetica di Saramago. Avevo bisogno di un rimedio efficace alla sporcizia che sono in grado di produrre i 'teologi' che vanno per la maggiore da qualche tempo in Italia.

***

19/6/2010
Il Dio di Saramago, silenzio dell'universo
JUAN JOSÉ TAMAYO*

L’11 settembre del 2006, lo scrittore e premio Nobel José Saramago, la giornalista e traduttrice delle opere del romanziere portoghese, la pittrice Sofia Gandarias e io, camminavamo tutti insieme per le strade di Siviglia in direzione dell’Aula Magna dell’Università per partecipare ad un incontro sul Diálogo de Civilizaciones y Modernidad. Alle nove del mattino, mentre attraversavamo la piazza della Giralda, le campane della Cattedrale di Siviglia –antica moschea fatta costruire dal califfo almoravida Abu Ya’qub Yusuf- come impazzite, si misero a sonare a distesa. “Suonano le campane perché passa un teologo” disse Saramago con il suo solito senso dello humour. “No”, gli risposi a tono, “il suono di quelle campane annuncia che un ateo è in procinto di convertirsi al cristianesimo”. Durante quel breve dialogo, la risposta del romanziere portoghese non si fece attendere: “Questo mai. Ateo sono stato tutta la vita e continuerò ad esserlo nel futuro”. All’improvviso mi venne in mente una definizione poetica di Dio che senza un attimo di esitazione gli recitai: “Dio è il silenzio dell’universo, e l’essere umano il grido che dà un senso a tale silenzio”. “Questa definizione è mia” reagì all’istante il Premio Nobel. “Effettivamente, per questo l’ho citata” gli risposi. “E questa definizione si accosta più ad un mistico che ad un ateo”.

Per un teologo dogmatico, definire Dio come silenzio dell’universo forse è dire poco o non dire nulla. Per un teologo seguace delle mistiche e dei mistici giudaici, cristiani e musulmani (Pseudo- Dionigi l’Areopagita, Rabia al Adawiya di Bagdad, Abraham Abufalia, Algazel, Ibn al-Arabi, Rumi, Hadewijch di Anversa, Margherita Porete, Ildegarda di Bingen, Maestro Eckhardt, Giuliana de Norwich, Giovanni della Croce, Teresa di Gesù) e di laici quali Simone Weil, è più che sufficiente. Dire di più sarebbe una mancanza verso Dio, si creda o non si creda alla sua esistenza. “Se comprendi”, diceva Agostino d’Ippona, “non è Dio”. La definizione di Saramago è delle più belle. Meriterebbe di apparire tra le ventiquattro - e con essa venticinque – nel Libro dei ventiquattro filosofi (Adelphi, Milano 1999; Siruela, Madrid 2000), la cui paternità è attribuita a Ermete Trismegisto e che raccoglie le definizioni di ventiquattro saggi convenuti in un Simposio, il cui contenuto fu oggetto di un ampio dibattito tra filosofi e teologi durante il Medioevo.

La vita e l’opera di Saramago sono un’incessante lotta titanica con-contro Dio. Come lo era stata quella del Giobbe biblico – “il Prometeo ebreo” per Block – che maledice il giorno in cui nacque, prova ribrezzo della propria vita e ha l’audacia di domandare a Dio, con tono sfidante, perché lo assale con tanta violenza, perché lo opprime in modo così inumano e perché lo distrugge spietatamente (Giobbe, 10). O come il patriarca Giacobbe il quale passa un’intera notte a lottare al braccio di ferro con Dio e finisce con una lesione al nervo sciatico (Genesi, 32,23-33). Non è il caso di Saramago, il quale è uscito indenne dalle risse con Dio senza mai arrendersi. Al contrario, con i suoi 88 anni, continua ad interrogarsi e a domandare a teologi e credenti che diavolo mai sarà questo Dio che per esaltare Abele deve disprezzare Caino.

Il Nobel portoghese condivide con Nietzsche la parabola di Zarathustra e l’apologo del folle sulla morte di Dio e potrebbe forse sottoscrivere due delle affermazioni nietzschiane più provocatorie: “Dio è la nostra più lunga menzogna” e “Meglio nessun Dio! Meglio che ciascuno si faccia da solo il proprio cammino”. È probabile che coincida anche con Ernst Bloch in “il meglio della religione è che crea eretici” e in “solo un ateo può essere un buon cristiano, solo un cristiano può essere un buon ateo”.

Familiarizzato con la Bibbia, quella giudaica e quella cristiana, ricrea con umorismo - un umorismo iconoclasta del divino e destabilizzatore dell’umano – alcune sue figure più emblematiche e smentisce i racconti che, stando al dire di León Felipe, “hanno dondolato la culla dell’uomo” (sic). Lo fece ne Il vangelo secondo Gesù Cristo, romanzo che presenta Gesù di Nazareth come un uomo che vive, ama e muore come qualsiasi altra persona e che Dio sceglie come anello di un immenso movimento strategico e come vittima di un potere che lo trascende e al quale deve assoggettarsi.

Vi ritorna con il romanzo Caino nel quale ricrea, in ambito letterario e teologico, il mito biblico che trae le sue immagini dalle tradizioni più antiche sulle origini dell’umanità. La Bibbia presenta Caino, spinto dall’invidia, come l’assassino di suo fratello Abele e Dio come “saccentone”. Saramago inverte i ruoli del buono e del cattivo, dell’assassino e del giudice. Rende responsabile dio, il signore (sempre con la minuscola) della morte di Abele e lo accusa di risentimento, di arbitrarietà e di esasperare le persone. Caino uccide il fratello non per arbitrarietà bensì per legittima difesa, in quanto dio lo aveva declassato a vantaggio dell’altro. E lo uccide perché non può uccidere dio.

L’immagine violenta di Dio non si esaurisce nella Bibbia giudaica. Prosegue in alcuni testi della Bibbia cristiana, là dove Cristo viene presentato come vittima propiziatoria per la riconciliazione dell’umanità con Dio. Prosegue con Anselmo di Canterbury, come padrone di vite e di beni e come sovrano feudale che tratta i suoi veneratori come se si trattasse di servi della gleba ed esige il sacrificio del suo amatissimo figlio, Gesù Cristo, in riparazione dell’offesa infinita commessa contro Dio dall’umanità.

Il Dio assassino permane presente in non pochi rituali bellici del nostro tempo: negli attentati terroristici compiuti da supposti credenti mussulmani che in nome di Dio praticano la guerra santa contro gli infedeli e nella risposta a tali attentati che danno i dirigenti politici cristiani i quali chiamano in causa Dio per giustificare lo spargimento di sangue di innocenti in operazioni che portano il nome di Giustizia Infinita o Libertà Duratura.

Dopo queste operazioni, Saramago non può fare a meno di essere d’accordo con la testimonianza del filosofo ebreo Martin Buber: “Dio è la parola più vilipesa di tutte le parole umane. Nessuna è stata tanto disonorata, tanto mutilata […] Le generazioni umane hanno riversato su questa parola il peso della loro vita tormentata fino a schiacciarla contro il suolo. Giace nella polvere e ne sostiene il peso. Le generazioni umane, con i loro patriottismi religiosi, hanno lacerato questa parola. Hanno ucciso e si sono fatte uccidere per essa. Questa parola porta le loro impronte digitali e il loro sangue. Gli uomini disegnano un fantoccio e ci scrivono sotto la parola ‘Dio’. Si assassinano gli uni gli altri e dicono ‘lo facciamo in nome di Dio’. Dobbiamo rispettare quelli che proibiscono questa parola, perché si ribellano contro l’ingiustizia e gli eccessi che con tanta facilità si commettono con una presunta autorizzazione da parte di ‘Dio’. Bene si comprende che molti suggeriscano di mantenere, per un certo tempo, il silenzio sulle ‘ultime cose’ per redimere quelle parole che sono state oggetto di tanti abusi”. Anch’io sottoscrivo quest’affermazione di Buber.

Che si condivida oppure no la Bibbia giudaica che fa Saramago, personalmente ritengo di essere d’accordo con lui sul fatto che “la storia degli uomini è la storia dei loro incontri mancati con dio: né lui ci intende, né noi lo intendiamo”. Eccellente lezione di contro-teologia!

Qualunque fosse la responsabilità di Caino o di Dio nella morte di Abele, rimane in piedi la domanda che ancora oggi persiste tanto viva quanto allora, se non di più, e che fa appello alla responsabilità dell’umanità nell’attuale disordine mondiale, nelle guerre e nelle carestie che prosciugano il nostro pianeta: “Dov’è tuo fratello (Genesi 4,9). E la risposta non può limitarsi a un evasivo: “Non so. Sono forse io il custode di mio fratello?”, bensì, continuando con la Bibbia, la parabola evangelica del Buon Samaritano, il quale prova compassione di una persona gravemente ferita, nonostante fosse di religione contraria alla sua. Eccellente lezione di etica solidale!

Traduzione di Giancarlo Depretis
*Juan José Tamayo è teologo spagnolo, fondatore e segretario dell’Associazione dei teologi Giovanni XXIII

***

La Stampa perdonerà se l'ho copiato interamente, ché un così bell'articolo rischiava di essere letto da pochi se restava sul giornale, per motivi che non sto qui a dire ma che sono familiari a chi si avventura fino alla terza pagina dello sfortunato quotidiano per leggere delle ragioni di tanta attenzione al clima che cambia, che di solito sono pagine trascurate dai lettori e se qualche inesattezza scappa non ne viene gran danno all'autore che scopre di avere scritto cose d'altri, E' inaccettabile, mi dovete una spiegazione, Ma che vuole questo tipo? di che si lamenta se neanche piove!, e si sente offeso l'autore da operazione che in altri paesi si direbbe leggera ma che da noi non è poi cosa così seria, e i giorni passano senza che nulla accada, segno che non era un fatto importante e il giornale aveva ragione a dire di stare tranquilli, di godersi la vita che fuori c'è il sole. Può ripetersi la storia, ruota senza terreno per girare se non fossero lastricate le sue vie del sangue dei senza nome che senza quel sangue sarebbe inutile spingerla, e se il teologo riconosce l'articolo fedele al suo intento il giornale saprà riconoscermi il servigio reso a diffonderne il pensiero, altrimenti la redazione mi ringrazierà parimenti per aver attirato su di me gli strali dell'autore, ché senza questo blog nessuno avrebbe saputo dell'offesa al suo nome.
([NdA] scritto quale indegno omaggio alla prosa di Saramago.)

Quando i giganti si addormentano

Che le condizioni di salute del mondo fossero peggiorate l'ho scritto venerdì scorso. La campagna denigratoria del Vaticano nei confronti di Saramago non fa che confermarlo.

E' storia antica, nessuna novità, quando i giganti si addormentano i nani escono dalle tenebre e si avvicinano furtivi e frettolosi intorno al loro corpo per cercare di portarne via gli abiti.

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L'ultimo post di Saramago.

"Penso che nella società attuale ci manchi la filosofia. Filosofia come spazio, luogo, metodo di riflessione, che può anche non avere un obiettivo determinato, come la scienza che invece procede per soddisfare i suoi obiettivi. Ci manca la riflessione, pensare, necessitiamo del lavoro di pensare e mi sembra che, senza idee, non andiamo da nessuna parte."

Expresso, Portugal (intervista), 11 ottobre 2008

venerdì 18 giugno 2010

Oggi il mondo è peggiorato

Oggi che José Saramago si è spento dedico poche parole all'esergo di questo blog. E' tratto dal suo romanzo Storia dell'assedio di Lisbona, un romanzo dove la negazione riscrive la storia e la negazione della negazione cela la verità nel gioco di trascrizioni che rivoltano il guanto della storia.

"Mi ami?, e lei se ne sta zitta, guardandolo soltanto, impassibile e distante, rifiutando di pronunciare quel no che lo distruggerà, o quel sì che li distruggerebbe, concludiamone dunque che il mondo sarebbe assai migliore se ciascuno si accontentasse di quello che dice, senza aspettarsi che gli rispondano, e soprattutto senza chiederlo né desiderarlo."

In quel concludiamone dunque si concentra tutto il peso di una verità che annienta, l'attesa per una risposta che terrorizza, il desiderio di una risposta che, affermativa o negativa che sia, farà comunque male. Desiderio dalle conseguenze dolorose eppure irrinunciabile. Quella di Saramago è una conclusione desolata per una domanda che rimane senza risposta. Quel concludiamone dunque, cadenzato come un requiem, è il punto dove la frase si ferma e si addensa, nelle sue prossimità il tempo si arresta e in quella amara conclusione vengono inghiottiti tutti i desideri senza risposta.

Forse la necessaria conseguenza del frammento di Saramago è che il rovesciamento della storia non muterebbe l'esito tragico di uno stallo che è ineluttabile.

giovedì 17 giugno 2010

Passa la gente, passano a milioni

Sono indecise se alzare le gonne
di mezzo metro - e non importa se
le gambe sono affusolate o goffe -
oppure abbassarle
fin sotto le caviglie ad impigliarsi
coi tacchi, oppure infilarsi
i pantaloni lunghi,
..............................o a mezza gamba
o gli stivali alle cosce o le scarpette,
la collana di vetri luccicanti
che battono ai ginocchi
o dischi tintinnanti sopra il petto,
o avvolgersi in nubi di veli
tingersi le occhiaie in verde cupo
in rosso il viso o in nero,
a fanale gli occhiali
o torti ai lati a gufo,
platinarsi i capelli lunghi fino alle natiche
o accorciarseli rasi, o rimontarli
a trofeo.
Anche i maschi, indecisi:
inanellarsi i capelli? gli orecchini?
allungarsi la barba? i pantaloni porpora?
un monile al petto - ma altri mezzi
hanno in genere per farsi valere.
Dai grattacieli neri di fuliggine
- dove respirano l'aria in scatola,
vedono il mare per televisione
quando c'è propaganda alla freschezza
del burro X;
e le macchine nelle strade indifferenti schizzano
su fiumi di persone, indifferenti
schizzano tutti, gonne corte o lunghe -
ai borghi più nascosti:
in un mondo nel quale non importano
una per una tutte le persone
o importano solo colpo a colpo,
inesperti, si tenta di valere
in questi modi ancora rudimentali.

Passa la gente, passano a milioni
sempre più fitti, sempre più i medesimi,
a miliardi nel mondo, e se ne vanno
lasciandosi rubare
tutta la vita della propria vita -
non sanno a chi urlare, come urlare
«esisto anch'io».

Danilo Dolci (1924-1997) - Da Il limone lunare. In: Poema umano. Einaudi, 1974.


Qualche giorno fa ho avuto modo di ricordare questa meravigliosa poesia di Danilo Dolci in uno scambio di opinioni nel blog Hotel del disinganno, un blog davvero interessante dove è stato dato avvio ad un bel dibattito sulla poesia ai tempi del computer, per parafrasare Màrquez. Dibattito che ha coinvolto un altro blog che mi è piaciuto.

Oggi sento il bisogno di trascrivere quella poesia di Dolci perché, come sempre accade nel domino della rete, un sito ne richiama un altro e un altro ancora fino a che mi sono imbattuto in un altro blog dove ho letto di un altro confronto, diverso il tema, diversi i soggetti ma in definitiva si gira sempre intorno al ruolo della comunicazione. Oggetto del confronto è il sesso e lo scambio di battute è tra un ragazzo di vent'anni e una professoressa. Se volete saperne di più seguite il link al blog del ragazzo. E' comprensibile che le opinioni siano divergenti ma ciò che mi ha stupito è la conclusione della replica della professoressa al ventenne, la signora dopo aver giustamente invocato la necessità di un dialogo tra adulti e giovani su questi temi e la difficoltà di costruirlo, conclude dicendo "se i ventenni la pensano come te, scusa la sincerità, siamo messi male." Non è difficile immaginare che in questo modo quel ponte tra generazioni, tanto difficile da costruire, diventa un'impresa ancora più ardua. Forse Danilo Dolci potrà invitare la professoressa ad una autocritica - anch'io, nel mio piccolo l'ho fatto ma l'interessata ha cancellato il mio commento dal suo blog e mi ha pregato di cancellare il suo link dal mio blog, cosa che faccio con vero piacere!

***

…giorni fa passeggiando in un parco ho visto un tipo con suo figlio, il piccolo avrà avuto 5-6 anni e voleva andare per un sentiero. Il genitore gli ha detto che non poteva andare per quel sentiero, il piccolo ha chiesto “perché?” e il genitore gli ha risposto “perché no”… fossimo davvero evoluti avrei dovuto picchiare quell’imbecille, ma ti pare una risposta quella?

mercoledì 16 giugno 2010

Notizie quasi vere...

...in un paese quasi immaginario.

Sventato un grosso giro di prostituzione nella periferia cittadina. A capo della cosca c'era un tale Cyrano de Bergerac, già noto alle forze dell'ordine per l'abitudine di inviare alle autorità del paese lettere minatorie in rima. Cyrano coordinava le attività con l'ausilio di note maîtresse provenienti da tutta Europa, tra i nomi più noti figurano Anna Karenina e Emma Bovary che per nascondere ai familiari le loro attività illecite avevano simulato un suicidio. I soggetti fornivano le loro prestazioni in un casolare abbandonato. Quando la polizia ha fatto irruzione nell'edificio è stato trovato anche il famoso attore Ireneo Funes, divenuto celebre per la magistrale interpretazione nel film Lo smemorato di Collegno. Agli agenti l'attore ha dichiarato di trovarsi lì per conto di una persona molto importante, di cui non può rivelare il nome, con il compito di ricordare tutti i clienti del bordello nel caso un giorno fosse tornato utile. Funes è stato immediatamente rilasciato. Un alone di mistero avvolge l'ignoto committente, si mormora di collaborazioni del Funes con i servizi segreti.

Nuovo successo della Guardia di Finanza nella lotta all'evasione, scoperto l'ennesimo evasore totale. Il soggetto, che si faceva chiamare agrimensore K., venuto in possesso di un bene immobile di notevoli dimensioni attraverso operazioni finanziarie poco chiare lo ha nascosto al fisco per decenni. Dalle prime indagini pare si tratti di un vero e proprio castello che l'evasore affittava a prezzi esorbitanti senza mai rilasciare fattura dei compensi ricevuti. E' stato assodato che nel castello sono stati organizzati festini a sfondo sessuale con un giro d'affari da capogiro. Il danno per le casse dello Stato è di diversi milioni di euro. L'agenzia delle entrate chiede più poteri per contrastare l'evasione fiscale giunta a livelli ormai inaccettabili e fa pressione per l'introduzione di pene esemplari. Il ministro della moneta è addirittura arrivato a proporre il confino degli evasori in una colonia penale e incisione delle cifre evase sulla pelle dei condannati.

La medicina italiana diventa leader mondiale nella lotta contro le fobie. Gli specialisti non vogliono entrare nei dettagli della nuova terapia prima della pubblicazione dell'articolo sulla prestigiosa rivista internazionale New Science. Dalle dichiarazioni delle infermiere sono trapelati alcuni casi particolarmente rilevanti: il dottor Freud è stato liberato dalla sua delirante onirofobia, l'agente di viaggi Odisseo può dirsi completamente guarito dalla temibile talassofobia e il famoso imprenditore mediorientale Ba' al Zebub può finalmente dimenticare la fastidiosa termofobia che ultimamente gli impediva persino di lavorare.

Si è concluso il processo a carico di Eva. Al termine dei tre gradi di giudizio la donna è stata assolta con formula piena dall'accusa di aver commesso un furto di mele in una frutteria nel centro della città. Le prove portate a difesa di Eva sono state ritenute schiaccianti dai giudici dell'Alta Corte. La povera donna soffre di una rarissima forma di allergia alle rosacee particolarmente violenta quando si tratta di mele e il solo contatto con il frutto l'avrebbe uccisa all'istante. La notizia è stata accolta in maniera scomposta dal querelante, sembra che il fruttivendolo sia stato colpito da delirio di onnipotenza cronico insolitamente associato a una rara forma di autismo catatonico. Considerando che Eva non può aver messo piede nella frutteria e che a oggi non sono state riscontrate prove del furto di mele si indaga sui motivi che hanno portato il fruttivendolo a inscenare l'assurda storia.

Il noto intellettuale di origine basca Aleandro del Torrente ha dichiarato solennemente: "D'ora in avanti mi farò beffe dell'eterogenesi dei fini scrivendo fedelmente quello che avrei pensato se la mia speculazione fosse stata fedele alla mia formazione politica tralasciando l'influenza delle contingenze della storia e i casi della vita che qualora mi avessero condotto a un maggiore attaccamento ai testi della mia adolescenza mi avrebbero consentito di rinnegare il valore del tempo che solo in età matura posso apprezzare con l'ardore della rivoluzione dello spirito che torna in sé stesso dopo lungo girovagare nella dialettica materiale". Alle facce perplesse dei giornalisti lo studioso ha dichiarato ermeticamente: "Il pensiero di sinistra ha le sue tradizioni". Inoltre, il docente ha fatto sapere che i prossimi libri saranno scritti a testa in giù. Alla richiesta del motivo di una scelta così bizzarra lo studioso ha risposto lapidario: "Così sarò un intellettuale scomodo!"

lunedì 14 giugno 2010

Rapporti malsani

La parola efficienza è il mito di una società - o civiltà della tecnica - assuefatta alla menzogna e all'autoinganno. Il termine si declina in molti modi e sue varianti sono la produttività, la competitività - tutti termini usati con frequenza proporzionalmente inversa alla loro forza esplicativa.
In sè il concetto di efficienza è bellissimo, come al solito è l'uso che se ne fa che lo rende sospetto. Naturalmente la sua definizione varia in relazione al campo di applicazione ma in buona sostanza è un rapporto tra una produzione e le risorse utilizzate, siano queste risorse il tempo, o il denaro o che altro serve per la produzione. Insomma si dice che una produzione è efficiente quando comporta il minimo utilizzo di tempo, di energia, di risorse. Date queste premesse, come non essere contenti di perseguire l'efficienza? Sarebbe una bestemmia, e infatti ci vuole un blasfemo per avanzare qualche perplessità! Perplessità sull'uso spudoratamente strumentale - e idiota - del termine, sia chiaro.
Il bellissimo concetto di efficienza resta bellissimo quando si considerano attentamente le grandezze da cui deriva proprio perché si tratta di un rapporto. E' proprio questa caratteristica che, se trascurata, rappresenta il vizio del concetto. Io non ho nulla in contrario all'incremento dell'efficienza nell'utilizzo di energia o nelle attività economiche, anzi sono convinto che gli sprechi vadano ridotti al minimo, ma quello che non sopporto è quando ci si riempie la bocca di questo nuovo Dio senza considerare che in natura i rapporti non esistono, esistono solo gli "oggetti" che noi mettiamo in rapporto e guarda caso questi oggetti presentano soglie, limiti, capacità portanti; gli oggetti in natura sono de-limitati, possono temporaneamente non apparire tali ma solo temporaneamente. Il rapporto invece è un concetto matematico che ha la curiosa proprietà di celare quei limiti. Faccio un esempio, se cambio la mia vecchia auto che fa 12 km con un litro di benzina con una che ne fa 24 con lo stesso litro ho aumentato l'efficienza dei miei movimenti in auto ma se con la nuova auto faccio il doppio della strada che facevo prima consumerò la stessa quantità di carburante. L'efficienza non rivela che il consumo di carburante è rimasto uguale, né ne rivelerebbe gli aumenti, perché nel rapporto che la costituisce è aumentata sia la quantità di carburante sia la strada percorsa. Infatti, il problema è proprio questo, quando si fa un discorso di miglioramento dell'efficienza e, parallelamente, di incremento dei consumi nelle società obese è chiaro che siamo di fronte al tentativo disperato di conciliare una schizofrenia insanabile.
Benvengano i miglioramenti di efficienza che sono assolutamente da perseguire ma che non siano una sorta di meccanismo di rimozione di ciò che proprio non ci entra nella testa: in natura si ha a che fare con grandezze finite e metterle in rapporto non le rende illimitate. E' vero che in natura si hanno grandezze che sono in relazione tra loro ma questo non è da confondere con il rapporto che è un'operazione mentale.
L'efficienza non può migliorare all'infinito, non nel mondo reale. Il rapporto tra due grandezze non può prescindere dalla natura delle grandezze e invece è proprio questo che si fa quando si parla di efficienza.

Volendo fare un altro esempio su una variante del termine efficienza, pensate a quando si parla di produttività, questa non è altro che la quantità di beni prodotti per unità di tempo impiegato a produrli. Se nella stessa unità di tempo si producono più beni la produttività aumenta. Per quanto si possano immaginare dei margini per aumentare la produttività mi riesce difficile pensare che questo rapporto possa aumentare indefinitamente, e infatti sono convinto che non sia possibile eppure ci sono numerose strategie perché la produttività aumenti in maniera considerevole e da questo punto di vista il mondo imprenditoriale è ricco di idee! Ai tempi di Marx si pensava al miglioramento tecnologico che permetteva di far fare alle macchine il lavoro degli operai, oggi che la crisi incombe si imboccano altre strade. Un modo per esempio è quello di far scrivere un "accordo"* ai dirigenti di una fabbrica automobilistica, per assurdo si potrebbe pensare alla Fiat di Marchionne, un accordo che preveda "l'utilizzo di 18 turni settimanali, ma anche 120 ore di straordinario obbligatorio (solo 40 nel contratto), la riduzione delle pause sulle catene da 40 a 30 minuti, la possibilità per l'azienda di «comandare» lo straordinario anche durante la mezz'ora di pausa mensa; di poter recuperare i ritardi di produzione anche se dovuti a problemi di forniture; di non pagare la malattia quando si supera una certa soglia «media» di assenze tra tutti i lavoratori. In più, deroghe al contratto nazionale, ma anche alla legge." (leggi qui) Infine, si dice che se gli operai non sono disposti ad accettare queste condizioni la fabbrica chiude perché "delocalizza" e se ne va a produrre dove la manodopera costa quattro soldi e rivende le auto prodotte dove costano care perché quei pezzenti che le producono non possono permettersele. E' il mercato globalizzato, bellezza! A questo punto l'operaio capisce di essere con l'acqua alla gola perché rischia di perdere il lavoro e accetta l'accordo e se un sindacato, mettiamo per ipotesi la Fiom-Cgil, si rifiuta di firmare quel sindacato diventerà bersaglio dell'ira dell'operaio. Con il tempo, anche quel sindacato arriverà a più miti consigli. Risultato: la produttività aumenta e ci siamo tolti dalle palle la seccante dialettica tra le parti sociali!

Come vedete, nonostante le mie dannate perplessità, le strategie per aumentare la produttività non mancano, basta avere chiaro in testa l'obiettivo da raggiungere senza farsi sviare da sviolinate vecchio stile che ormai non incantano più nessuno. I sindacati del futuro, poniamo sempre per ipotesi Uil, Cisl e Ugl, queste cose le hanno capite e non stanno lì a sottilizzare creando conflitti tra i lavoratori e con il governo; questi sindacati non stanno lì a sindacare sulle proposte delle aziende o del governo, loro gli accordi li firmano, se sono accordi devono essere per forza buoni!
C'è chi pensa che il rapporto tra questi sindacati e il governo sia malsano, una sorta di prostituzione da alto bordello, ma sono i soliti disfattisti ancorati a valori ormai scaduti.

* Se non sei uno stupratore della lingua non usi la parola accordo prima che l’accordo ci sia, usi le parole proposta, trattativa, negoziato, vertenza che lasciano intendere un processo in itinere per trovare un accordo. L'accordo viene dopo essere giunti ad un accordo.
Ennesimo caso di stupro in branco della lingua.

domenica 13 giugno 2010

Il paese della fiesta

«Il chirurgo acchiappò il collo a Fabrizio. - Che stai a 'fa solo soletto?
Lo scrittore non ebbe nemmeno la forza di reagire.
- Niente.
- Mi hanno detto che hai letto una poesia grandiosa. Peccato, ero al cesso, me la sono persa.
Ciba di accasciò sul tavolo.
- Ti vedo abbattuto. Che è successo?
- Rischio di fare una figura di merda planetaria.
Bocchi si sedette sulla sedia accanto alla sua e si accese una sigaretta, prendendo grandi boccate.
I due rimasero in silenzio per un po'. Poi il chirurgo sollevò la testa verso il cielo e cacciò fuori una nuvola di fumo. - Che palle, Fabrizio. Ancora con 'sta storia?
- Quale storia?
- Quella delle figure di merda. Da quanto ci conosciamo?
- Da troppo tempo.
Bocchi non si offese. – Dal liceo non sei cambiato di una virgola. Sempre ossessionato da 'ste figure di merda. Come se ci fosse qualcuno che sta sempre a giudicarti. Te lo devo spiegare io? Tu fai lo scrittore e a certe cose dovresti arrivarci da solo.
Fabrizio si girò spazientito verso il suo compagno di scuola. – Cosa? Di che parli?
Bocchi sbadigliò. Poi gli prese la mano. – Allora non hai capito. Il tempo delle figure di merda è finito, morto, sepolto. Se n’è andato per sempre con il vecchio millennio. Le figure di merda non esistono più, si sono estinte come le lucciole. Nessuno le fa più, tranne te, nella tua testa. Ma non li vedi a questi? – Indicò la massa che applaudiva Chiatti. – Ci copriamo di letame felici come maiali in un porcile. Guarda me, per esempio -. Si alzò in piedi barcollando. Allargò le braccia come a mostrarsi a tutti, ma gli girò la testa e si dovette sedere di nuovo. – Io mi sono specializzato a Lione con il professor Roland Château-Beaubois, ho la cattedra a Urbino, sono un primario. Guarda come sto ridotto. Secondo i vecchi parametri sarei una figura di merda ambulante, un essere infrequentabile, un cafone impaccato di soldi, un tossico, un personaggio spregevole che si fa ricco sulle debolezze di quattro carampane, eppure non è così. Sono amato e rispettato. Vengo invitato pure alla festa della Repubblica al Quirinale e in ogni cazzo di trasmissione medica. Scusa, ma andando sul personale... Quel programma che hai fatto in televisione non era una grezza?
Ciba provò a difendersi. - Veramente...
- Lascia perdere, era una grezza.
Fabrizio fece un cenno d'assenso.
- E quella storia con quella, la figlia... Non mi ricordo, vabbe' era una figura di merda.
Ciba fece una smorfia di dolore. - Vabbe' adesso basta.
- E che ti è successo? Nulla di nulla. Quante copie in più hai venduto con tutte queste teoriche figure di merda? Una cifra. E tutti dicono che sei un genio. Quindi lo vedi che vieni a me? Quelle che tu chiami figure di merda sono sprazzi di splendore mediatico che danno lustro al personaggio e che ti rendono più umano e simpatico. Se non esistono più regole etiche ed estetiche le figure di merda decadono di conseguenza.»

Da Niccolò Ammaniti, Che la festa cominci, Einaudi, 2009, pp. 186-187.

venerdì 11 giugno 2010

Fogli di poesia

Ieri passeggiando per Roma con alcuni amici ho incontrato un signore piuttosto trasandato vicino alla statua del Pasquino...per farmi capire dovrei dire un barbone ma, che io ricordi, non aveva la barba lunga! Quel signore mi ha parlato di un notariato dove periodicamente deposita le sue poesie, il notariato è al Borghetto Flaminio e mi ha detto che lì un notaio è autorizzato a dare i suoi componimenti a chi andasse a chiederli. Aveva un foglio con una sua poesia in mano e me lo ha dato per pochi spiccioli. Non mi ha fornito indicazioni precise sull'indirizzo del notariato ma mi ha assicurato che chiedendo in giro non dovrebbe essere difficile trovarlo.
Per invitare quanti volessero recarsi al notariato per rilevare quelle poesie riporto la poesia in romanesco che mi è stata donata.

La voce romana

Un tipo se stava a divertì
a scombinà tutto a la riversa
fosse l'interpretazione sua de na controversia
quanno immantinente 'n mezzo ar pubblico
se fece avanti 'n giudizio
mo rimetti tutto a posto:
defilato non ne volle più sapere.


Forse questi versi non saranno entusiasmanti ma a me piacciono e mi piaceva soprattutto ascoltare quel signore mentre parlava di un notariato molto importante che nella mia mente assumeva i contorni del castello di Kafka. Mi piaceva che quel signore fosse lì, con il suo foglietto, con una poesia che aveva composto per essere venduta per pochi spiccioli.

Questo episodio mi ha fatto ricordare qualcosa avvenuta molti anni fa. Nel 1987, quando ero appena iscritto all'Università, tra noi giovani matricole si parlava di un tipo strano che vendeva le sue poesie per cento lire agli angoli delle strade di Lecce. Si diceva fosse balbuziente ed era facile incontrarlo sulle scale dell'ateneo, a pochi passi da Porta Napoli. Qualcuno diceva fosse molto bravo, altri pensavano fosse solo un contadino un po' sciroccato. Io passavo tutte le mattine per l'ateneo per andare a prendere il pulman che mi portava a Villa Tresca, dove si tenevano le lezioni ma non ho mai avuto la fortuna di incontrare quel tipo strano.
Quel tipo strano di cui parlavamo, giovani e ignoranti come pecore, era Antonio Leonardo Verri, un poeta e romanziere che ha animato la vita letteraria della provincia di Lecce dalla fine degli anni '70.
Adesso che so chi era quel tipo strano non è più possibile incontrarlo mentre distribuisce le sue poesie per le strade di Lecce per cento lire perché nel 1993 un incidente stradale lo ha portato via prima che riuscisse a chiudere il mondo in un libro.

Antonio Leonardo Verri

Cominciate, poeti, a spedire fogli di poesia
ai politici, gabellieri d'allegria,
a chi ha perso l'aria di studente spaesato
a chi ha svenduto lo stupore di un tempo
le ribalte del non previsto,
ai sindacalisti, ai capitani d'industria
ai capitani di qualcosa,
usate la loro stessa lingua
non pensate, promettete
..."disarmateli" se potete!

(al diavolo le eccedenze, poeti
le care eccedenze, le assenze anche,
i passeri di tristezza, i rapimenti
i pendoli fermi, i voli mozzi, i sigilli
le care figure accostate al silenzio
gli addentellati, i germogli, gli abbagli ...
al diavolo, al diavolo ...)

Disprezzate i nuovi eroi, poeti
cacciateli nelle secche del mio gazebo oblungo
(ricco di umori malandrini, così ben fatto!)
fatevi anche voi un gazebo oblungo
chiudeteci le loro parole di merda
i loro umori, i loro figli, il denaro
il broncio delle loro donne, le loro albe livide.

Spedite fogli di poesia, poeti
dateli in cambio di poche lire
insultate il damerino, l'accademico borioso
la distinzione delle sue idee
la sua lunga morte,
fatevi poi dare un teatro, un qualcosa
raccontateci le cose più idiote
svestitevi, ubriacatevi, pisciate all'angolo del locale
combinate poi anche voi un manifesto
cannibale nell'oscurità
riparlate di morte, dite delle baracche
schiacciate dal cielo torvo, delle parole di Picabia
delle rose del Sud, della Lucerna di Jacca
della marza per l'innesto
della tramontana greca che viene dalla Russia
del gallipolino piovoso (angolo di Sternatia)
dell’osteria di De Candia (consacratela a qualcosa!).

Osteggiate i Capitoli Metropolitani, poeti
i vizi del culto, le dame in veletta, "i venditori di tappeti"
i direttori che si stupiscono, i direttori di qualcosa,
i burocrati, i falsi meridionalisti
(e un po' anche i veri) i surrogati
le menzogne vendute in codici, l'urgenza dei giorni sfatti,
non alzatevi in piedi per nessuno, poeti
...se mai adorate la madre e il miglio stompato
le rabbie solitarie, le pratiche di rivolta, il pane.
Ecco. Fate solo quel che v'incanta!
Fate fogli di poesia, poeti
vendeteli e poi ricominciate.

Fatevi disprezzare, dissentite quanto potete
fatevi un gazebo oblungo, amate
gli sciocchi artisti beoni, i buffoni
le loro rivolte senza senso
le tenerezze di morte, i cieli di prugna
le assolutezze, i desideri da violare, le risorse del corpo
i misteri di donna Catena.
Fate fogli di poesia, poeti
vendeteli per poche lire!


Antonio Leonardo Verri (Caprarica di Lecce, 22 febbraio 1949 – 9 maggio 1993)

mercoledì 9 giugno 2010

La folgorazione di Tremonti...

Una delle più belle definizioni del concetto di libertà che io conosca l'ha fornita Montesquieu che nella sua opera più importante, Lo spirito delle leggi, scriveva «In uno Stato, vale a dire in una società nella quale esistano delle leggi, la libertà non può consistere che nel poter fare ciò che si deve volere e nel non essere costretti a fare ciò che non si deve volere. Bisogna mettersi bene in mente che cosa sia l’indipendenza e che cosa sia la libertà. La libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono; e se un cittadino potesse fare ciò che esse proibiscono, non sarebbe più libero poiché tutti gli altri avrebbero anch’essi questo stesso potere.» (libro XI, cap. 3) Più avanti scriveva «E’ però una esperienza eterna che ogni uomo che ha in mano il potere è portato ad abusarne procedendo fino a quando non trovi dei limiti… Perché non si possa abusare del potere, bisogna che per la disposizione delle cose il potere freni il potere.» (libro XI, cap. 6)

Indubbiamente il concetto di libertà del barone de Montesquieu, padre del concetto della separazione dei poteri, è molto complesso e presenta un intreccio di potenza (intesa come potenzialità, possibilità), vincoli e volontà - potere, dovere, volere - che mette a dura prova chi non è esercitato al pensiero filosofico, è comprensibile quindi l'affanno di chi usa la parola libertà non essendo esercitato neanche al pensiero. Come suggeriva Francesco Guccini nella Canzone di notte n.2, "per chi non è abituato, pensare è sconsigliato"!

Su Repubblica.it leggo che Berlusconi torna all'attacco della Costituzione e dice che non è possibile governare con queste regole; ma se la cosa lo stressa tanto non ha che da seguire il consiglio che ogni buon geriatra gli darebbe, si riposi, vada altrove, dove le regole gli aggradano di più.

Nello stesso articolo leggo che «Il premier è anche tornato sul progetto, caro a Tremonti, di cambiare l'articolo 41 della Costituzione per azzerare le autorizzazioni necessarie ad aprire un'impresa: "Vogliamo arrivare a un nuovo sistema in cui non si debbano chiedere più permessi, autorizzazioni, concessioni o licenze", ha detto, definendo i controlli previsti dalla Carta "una pratica da Stato totalitario, da Stato padrone che percepisce i cittadini come sudditi".»

Ma cosa dice l'articolo 41 della Costituzione? Eccolo:
"L'iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali."

Lasciando perdere Berlusconi che ormai è finito e considerando Tremonti che, oltre ad essere il successore di Berlusconi, è considerato il ministro dell'economia più intelligente d'Europa, segno del mutamento degli standard intellettuali nel vecchio continente, quando si dice azzerare le autorizzazioni delle attività produttive da parte dello Stato non si intende semplicemente alleggerire le pratiche burocratiche ma si intende minare quel patto tra mercato e democrazia che i Costituenti hanno voluto sancire per l'attività economica in questo paese. In altre parole la riforma interverrebbe nel sistema capitalistico di questo paese togliendo quei "lacci e lacciuoli" che lo Stato pone al mercato, lo stesso Stato tanto inviso ai sacerdoti del libero mercato, salvo ricorrervi per salvarsi in tempi di crisi (è la celebre scuola economica del liberismo a fasi alterne). Ma gli unici vincoli che si vedono nell'art. 41 della Costituzione che Tremonti vorrebbe cambiare sono quelli che stabiliscono l'utilità sociale di una attività produttiva.

Con la crisi economica molti hanno pensato che l'economia dovesse e potesse imboccare una strada diversa da quella che aveva portato alla crisi, una strada che privilegiasse la produzione di qualità della vita piuttosto che della quantità di beni, insomma qualcosa che mettesse al centro dell'attività economica quei fini sociali di cui parla l'art. 41 della Costituzione.
Anche il ministro Tremonti, quando ha saputo dai giornali della crisi economica e i suoi consiglieri più fidati gli hanno rivelato che non si trattava di una burla, è stato folgorato come Saulo sulla strada di Damasco e, colpito dalla sindrome del "l'avevo detto io", ci ha abituato ad un sofferto atteggiamento ieratico, a continue citazioni dalle sacre scritture, a pennellate di colbertismo mescolato non shakerato con liberismo, a profetici richiami al rigore fiscale ed altre travagliate manifestazioni acute di riformismo economico. Per molti è diventato l'araldo del mutamento del paradigma liberomercatista, l'eroe della trasformazione dell'economicismo miope, l'acerrimo critico del capitalismo liberista, il combattente furioso contro sprechi e consumi. I più maliziosi pensano ancora che il ministro sia privo di una visione di insieme e di un disegno preciso della dimensione storica e collettiva di uno Stato ma sono le solite sediziose voci della sinistra che non riesce a vedere che il ministro ha operato una vera e propria rivoluzione del proprio pensiero, passando da teorico della finanza creativa a paladino della poveva gente, semmai sono i fatti ad avergli remato contro.

Dopo la proposta di voler cambiare l'articolo 41 della Costituzione anch'io manifesto qualche incertezza sulla autenticità della conversione del ministro e devo purtroppo ammettere che la folgorazione che ha avuto non è esattamente quella che io avrei sperato!

lunedì 7 giugno 2010

Ci sarà allegria anche in agonia

Camminando per via Garibaldi a Genova si possono ammirare palazzi rinascimentali meravigliosi. Le famiglie più ricche della Superba gareggiavano tra loro in sontuosità e bellezza per ospitare nei loro palazzi i dignitari di corte. All’interno di quei palazzi sono conservati capolavori e alcuni, come i palazzi Rosso, Bianco e Tursi hanno pinacoteche straordinarie. Quasi tutti i palazzi di via Garibaldi e molti disseminati per Genova sono stati riconosciuti patrimonio dell’Umanità dall’Unesco e le chiese di questa città conservano tesori d'arte magnifici. Imboccando via Garibaldi da piazza delle Fontane Marose e proseguendo verso via Cairoli si apre uno scenario di arte unico al mondo.

Poi scarti a sinistra, per uno dei tanti vicoli leggermente in discesa che partono da via Garibaldi e ti immergi nel cuore della città vecchia, tra stradine strette, dove basta aprire le braccia per toccare i muri che le costeggiano.
Qui il sole del buon Dio non dà i suoi raggi, come cantava De André. Tra questi carruggi ti accorgi che il patrimonio dell'umanità poco distante, per quanto bello è un patrimonio senza umanità perché l'umanità la trovi qui, in questo intreccio di viottoli dove incontri i dannati della terra che parlano le lingue di Babele e popolano le città di mare, crocevie del mondo.
A via della Maddalena Princesa si nasconde nell'uscio di casa se fai una foto e chiederle scusa non basta per far svanire dal suo viso la paura. Una targa su un muro di via del campo ti ricorda che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior. A pochi passi da qui una porta socchiusa lascia intravedere un letto e un sorriso, sulla porta c'è scritto un invito e una richiesta di aiuto: difendi la tua lucciola di quartiere. Nancy è seduta in un angolo di strada: "avvicinati, non ti mangio", "lo so, barcollo perché ho bevuto un bicchiere di troppo", "hai fatto bene", ha pochi denti ormai ma è sempre generosa e ti invita a tornare per averle dato una monetina, "torna quando vuoi bella gioia".
Mazzini chiede l'elemosina lungo i moli e sotto i portici Paganini suona un violino scordato. Nella casbah dietro al porto, tra danze di topi, ti guardano passare mille occhi sospettosi, occhi che fanno paura, come la vita.
Tra questa gente col fiato pesante e i denti anneriti ti riconosci, a volte puoi illuderti di non somigliargli affatto ma se guardi fino in fondo ti accorgi che è un inganno. Qui, insieme a loro, stai scontando cinquemila anni più le spese. Qui, tra gente avvolta nella propria storia, chiusa come questi carruggi, il dolore degli altri cerca continuamente la sua metà.

Qui, in bilico tra la diffidenza del domani e la memoria di un altrove troppo lontano, puoi salvarti l'anima o prendere la coltellata che chiedi.
Tra questi vicoli la meraviglia è perdersi.

domenica 6 giugno 2010

La lingua stuprata

Dopo la manovra finanziaria presentata da Tremonti i magistrati hanno proclamato uno sciopero perché ritengono le misure della manovra punitive della loro categoria e dell'azione giudiziaria. Che questa maggioranza tenti di scardinare in tutti i modi il potere giudiziario è evidente anche ai sassi purché non siano innamorati dell'uomo che ride, che questa azione di demolizione sia stata portata avanti da molto tempo anche dal centro sinistra è altrettanto evidente ma io non entrerò nel merito né della manovra né delle ragioni dei magistrati (che, detto tra parentesi, condivido). La cosa stupefacente, a mio avviso, è la dichiarazione del ministro della Giustizia Alfano: "Lo sciopero dei magistrati è uno sciopero politico". Di grazia, cos'altro potrebbe essere, chiedo io?
A chi fa politica dovrebbe essere noto che ogni attività che ha rilevanza e risonanza pubblica è politica, essendo la politica la tecnica regia di organizzazione della polis è difficile che uno sciopero annunciato da qualunque categoria sociale non sia politico. Evidentemente l'inquilino di via Arenula queste cose non le sa o si considera esonerato dal saperle e crede che sia da bollare come politica qualunque posizione di contrasto alla sua maggioranza. Non è lui il primo ad aver abusato della parola politica in questa accezione né sarà l'ultimo, ahimé. Né l'uso indegno del termine appartiene solo a chi si dovrebbe occupare di politica. Ricordo che tempo fa, mentre in parlamento si discuteva dell'introduzione del reato di clandestinità, un cantante fece un video in mezzo ad un campo di rom mostrando la condizione di degrado in cui viveva quella gente; in un'intervista il poveretto si affrettò a dire che il suo non era un messaggio politico! A quest'imbecille di buone intenzioni di cui ho dimenticato pure il nome mi sarebbe piaciuto chiedere di che cavolo di natura pensava che fosse il suo messaggio e soprattutto cosa cavolo pensa che sia la politica.
Al ministro Alfano mi piacerebbe chiedere cosa intenda esattamente per sciopero politico e come immagina uno sciopero che non lo è o, per evitare domande imbarazzanti per il 'giovane' ministro, potrei dargli un "aiutino" e suggerirgli che forse intendeva uno sciopero pretestuoso, capzioso, fazioso, corporativo... i termini non mancano, per fortuna la lingua italiana è ricca di sfumature ma è vero che per parlare correttamente bisogna amarla una lingua, apprezzarne i colori e i significati. Altrimenti si fa una enorme confusione usando a casaccio termini importanti con il rischio di farli diventare insulsi e senza significato, proprio come pensava quel cantante quando ha detto che il suo messaggio non era politico perché nella sua testa, come in quella di molti purtroppo, ciò che è politico è brutto e da evitare senza preoccuparsi di distinguere la Politica da quanti si danno al servizio di un padrone solo perché hanno una insopprimibile natura da schiavi, pensando che questo sia politica.
Parlare è un atto d'amore verso le parole, la loro storia e il loro significato, invece assistiamo indifferenti al continuo stupro della lingua da parte di violentatori di professione che nessuno pensa più di punire neanche con uno sguardo di disprezzo.

Domande ingenue

Gli 11 passeggeri e gli 8 membri dell’equipaggio della nave irlandese Rachel Corrie, intercettata sabato scorso dalla Marina militare israeliana e dirottata al porto di Ashdod, saranno espulsi oggi da Israele. «Tutte le persone a bordo dell’imbarcazione saranno espulse domenica, dopo aver firmato un documento nel quale affermano di rinunciare a qualsiasi azione legale contro il provvedimento (di espulsione)», ha dichiarato il portavoce del servizio immigrazione israeliano. L'intercettazione della nave irlandese è avvenuta senza spargimento di sangue.
Il governo israeliano cambia strategia e cerca garanzie dopo l'assalto armato dell'esercito israeliano del 31 maggio scorso sulle navi dei pacifisti che tentavano di rompere il blocco di rifornimenti alla striscia di Gaza, un assalto barbaro che ha provocato 9 morti e decine di feriti. Se il governo israeliano pensa che fosse nel suo diritto bloccare la nave di aiuti umanitari ed espellere i pacifisti dal suo territorio, perché far firmare documenti in cui le persone rinunciano al diritto di presentare azioni legali nei confronti di un provvedimento di espulsione? Se il governo israeliano non pensa di muoversi fuori dal diritto internazionale, ignorando sistematicamente tutti i provvedimenti e gli inviti delle Nazioni Unite a rivedere la sua politica espansionista, perché opporsi all'indagine ONU sul blitz del 31 maggio?

sabato 5 giugno 2010

Sala d'attesa

Facce stravolte dal tempo
attendiamo un medico che tarda a venire.
Giornali incomprensibili,
riviste ormai troppo vecchie
sfogliamo veloci senza interessarci
per dimenticare l'attesa.
Sguardi d'intesa si alzano piano
da pagine colorate,
piene di pubblicità.

venerdì 4 giugno 2010

Educazione civica (riformata)

Ricordo che quando frequentavo la scuola media si insegnava educazione civica e c'era ancora quando ho fatto la scuola superiore, adesso non so se fa ancora parte dei programmi e se sì non riesco proprio ad immaginare con quale faccia gli insegnanti si presentino davanti ai ragazzi a parlare di quelle cose così importanti e così distanti dai modelli disponibili nella vita quotidiana.

Per quanto difficile fosse l'argomento i professori si impegnavano molto per rendere accessibili i principi fondamentali dell'organizzazione dello Stato. Ci parlavano dei diritti, della Costituzione, del Governo e del Parlamento. Ecco! quando ci parlavano del Parlamento ci dicevano che è il posto dove si esercita il potere legislativo, che è rappresentativo di tutti i cittadini di un paese e i parlamentari si riuniscono lì per fare le leggi e discutere degli interessi nazionali. I professori ci dicevano che i parlamentari sono eletti dal popolo e che fanno un lavoro molto importante che riguarda tutti noi, e io naturalmente ci credevo.
Sono passati molti anni da allora e se adesso qualche professore mi dicesse le stesse cose che mi diceva allora penso che perderei la pazienza, gli chiederei se sta mentendo spudoratamente oppure se è talmente cretino da non essersi accorto che le cose non stanno affatto così oppure, magnanimamente penserei che mi sta parlando del mondo delle idee di Platone, povero illuso! Chissà, magari i ragazzi di adesso che pensiamo essere meno educati di quelli di un tempo sono soltanto più svegli e non si fanno più prendere per il naso facendosi raccontare cose che non sono credibili.

E sì, adesso farei davvero molta fatica a capire come si possa far passare per interesse nazionale le conseguenze patite da una famiglia per il sequestro di uno yacht da parte della Finanza tanto da farlo diventare materia di interrogazione parlamentare.
Nella fattispecie l'interrogazione alla Camera, presentata da Pietro Laffranco (ex AN, ora pidiellino), chiede al governo se “non ritenga necessario assumere iniziative immediate per porre riparo alle conseguenze ingiustificatamente patite dai familiari del signor Briatore e per rimediare al danno di immagine arrecato al Paese”. L'iniziativa dell'onorevole Laffranco arriva buona seconda dopo quella analoga del senatore Riccardo Villari (Partito Radicale) presentata al Senato qualche giorno fa.

Sarebbe bello sapere quali iniziative auspicano l'onorevole e il senatore per alleviare le sofferenze della famiglia Briatore e ripristinare i diritti calpestati dai finanzieri con quel brutale arrembaggio degno del feroce Barbanera. Dissequestro immediato dello yacht? Fornitura di yacht di cortesia fino ad accertamenti fiscali avvenuti? Scuse formali della Guardia di Finanza con trasferimento dell'ufficiale che ha operato il sequestro alle isole Cayman? Quale sarà lo strumento normativo invocato dai parlamentari, un'eccezione alle norme vigenti o si scriveranno leggi ad amicus curiae quale naturale evoluzione delle leggi ad personam?

Se all'onorevole Laffranco e al senatore Villari avanza tempo dopo le loro importantissime interrogazioni ci piacerebbe anche proporre a entrambi di presentare un'interrogazione a sé stessi per chiedersi se sono a conoscenza delle conseguenze patite dalle famiglie dove è stato perso il lavoro, ci piacerebbe che Laffranco si chiedesse se i milioni di disoccupati sono un danno all'immagine dell'Italia cui riparare con altrettanta solerzia di quella mostrata per la vicenda dei Briatore, ci piacerebbe che Villari si chiedesse se pensa che sia una questione di diritti lesi anche il lavoro precario, sottopagato e senza garanzie. Ecco, magari l'onorevole e il senatore potrebbero cominciare a porsi queste domande e, chissà, potrebbero trovare persino interessante rivolgerle al governo, tanto per sapere cosa ne pensa la maggioranza che guida il paese!

***

***
Quando da piccolo ascoltavo le lezioni di educazione civica ricordo che mi piacevano molto. Sentivo parlare dei parlamentari eletti e pensavo ad una sorta di investitura celeste poi crescendo l'investitura è diventata un laico riconoscimento civile poi, con l'età della ragione e dopo ancora con quella del disincanto, mi viene in mente mio padre e mia madre che, nonostante la naturale diffidenza dei contadini nei confronti del potere, pensano ancora che gli onorevoli e i senatori siano persone rispettabili e ancora non sanno che molti non sono degni di baciargli i piedi.
Peccato!
***

mercoledì 2 giugno 2010

Il majority stress

«Niente è più ripugnante della maggioranza: giacché essa consiste in alcuni forti capi, in bricconi che si adattano, in deboli che si assimilano, e nella massa che trotta dietro senza sapere minimamente quello che vuole.» Johann Wolfgang Goethe

«Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati.» Berthold Brecht

***

"Perché mai, come diceva Simone de Beauvoir, un uomo non si metterebbe mai a scrivere un libro sulla situazione particolare di essere un maschio? Da una domanda come questa muove Franco La Cecla, professore in varie università europee e statunitensi, nel proporre una antropologia del maschio (Modi bruschi. Antropologia del maschio, Eleuthera)." Così comincia la recensione di Gianni Vattimo al libro di Franco La Cecla. La de Beavouir non aveva torto e sul perché mi sono fatto un’idea che cercherò di esporre in estrema sintesi.

Ogni essere vivente è caratterizzato da un insopprimibile desiderio di affermazione, sarà un istinto o una pulsione come pensava Freud, il bisogno di riconoscimento di Hegel, il conatus di Spinoza, chiamatelo come vi pare. Che tale spinta sia oggetto di riflessione cosciente o meno è un dettaglio evolutivo per niente irrilevante. Quando entra in gioco il fattore coscienza le cose si complicano anche se molti umani danno per scontato il fattore coscienziale e proprio per questo non ne fanno gran uso.

Che lo sviluppo psichico di un soggetto sia un lento e continuo processo di ricerca di soluzioni alle domande che insorgono nel contesto esperito è nozione abbastanza generica da non temere smentita, quello che è controverso sono le modalità di questo sviluppo. Parto dalla premessa che una percezione è tale in quanto emergenza di differenze, difformità o incongruenze, elementi che si staccano da uno sfondo psichico che fornisce il contesto alle attività cognitive. Le "emergenze" a loro volta modificano lo sfondo che accoglie nuove "emergenze". Questo processo di continua modifica dello sfondo psichico è in definitiva il modo in cui si costruisce un paesaggio mentale attraverso il quale entriamo in contatto con quanto ci circonda e lo conosciamo. Per quanto ne so questo tipo di approccio è riconducibile al transazionismo o transazionalismo, in altre parole un evento psicologico deriva dall'attiva partecipazione all'evento stesso, da una transazione continua tra ambiente e organismo. Non vorrei farmi prendere la mano che poi divago e scivolo nel costruttivismo ma questo approccio è interessante perché spiega l'unicità degli sfondi psichici negli individui o quanto meno l'estrema improbabilità che ve ne siano due uguali. Data la comune storia evolutiva degli esseri umani, è ragionevole considerare quei fattori comuni che, ad una scala maggiore di quella individuale, comportano la formazione di alcuni modelli generali di sfondo psichico ma è altrettanto interessante capire come si formino paesaggi psichici differenti e quale sia il ruolo del contesto sociale nella formazione dei paesaggi psichici. Da parte mia penso che un'attenzione particolare meritino gli elementi di dominanza nella formazione dei paesaggi psichici.

Se lo sviluppo di un soggetto avviene in contesti sociali in cui è manifesto uno o più elementi di dominanza in cui il soggetto stesso non si riconosce (maschio / bianco / eterosessuale / cattolico / dotato di visione stereoscopica / etc. etc.) insorgono inevitabilmente domande e istanze di confronto con la collettività da parte del soggetto che a questo punto si riconosce facente parte di una minoranza. Domande che insorgono appunto in seguito alla percezione di una differenza. Per usare l'espressione di prima potrei dire che si tratta di emergenze che si stagliano nel paesaggio psichico del soggetto e lo modificano. Il soggetto che si riconosce in uno status di minoranza, che tra l'altro può essere dominata o discriminata, deve coscientemente rifondarsi nel proprio contesto, in altre parole è costretto a valutare il suo modo di essere e la sua esperienza sul piano coscienziale, e lo deve fare giorno per giorno. Questo soggetto è continuamente impegnato nella realizzazione di un proprio modello psichico di riferimento che nessuno gli ha fornito e che gli viene continuamente contestato, insomma è costretto ad esercitare quelle proprietà di autoanalisi e di autocostruzione che, a mio avviso, hanno un rischio elevatissimo di atrofia sotto la certezza dell’appartenenza ad un gruppo dominante. Questo processo di continua rifondazione va ben oltre i processi di sviluppo e di autoriconoscimento adolescenziali comuni a chiunque e va ben oltre l'età dell'adolescenza. Il soggetto che esperisce l’appartenenza ad una minoranza non può dare nulla per scontato come può succedere a chi fa parte di un gruppo maggioritario o dominante, non può assuefarsi al proprio paesaggio psichico.
L’esito di questa continua rifondazione non è per niente scontato, è un processo faticoso e la fatica può condurre a forme depressive di vario tipo oppure ad una condizione di autoconsapevolezza e maturità interiore che è molto difficile, se non impossibile, notare nei soggetti che si riconoscono in qualche maggioranza. Da qui nasce, per paradosso, la fragilità del dominante.

Già! La fragilità del dominante dovuta ad una sorta di majority stress. Perché se il cosiddetto minority stress - studiato su soggetti omosessuali ma che meriterebbe di essere esteso a tutte le categorie sociali minoritarie - comporta una fragilità per fattori prevalentemente estrinseci al soggetto, lo stress cui è sottoposto il soggetto dominante, senza peraltro saperlo, è tutto intrinseco al suo angusto paesaggio psichico. Questo esile individuo, che spesso si affatica per mostrare una forza che non gli appartiene per davvero, che arranca in tutti i modi per reggere con i denti una convinzione che non ha mai veramente elaborato, che si sente minacciato al primo soffio di vento, che si ammanta di una normalità tanto rassicurante quanto ridicola, questo soggetto non può vedere scosse le poche certezze che ha trovato precostituite, certezze che non sono state da lui fondate e mai si è sognato di mettere in discussione se non in quella fase comune a tutti che è l’adolescenza che nel suo caso è stata un'occasione perduta o, peggio, dimenticata. Ça va sans dire che questo soggetto deve muoversi necessariamente in branco per sentirsi sicuro delle sue posizioni - sia chiaro, che il branco abbia un riconoscimento istituzionale o meno non è rilevante per i meccanismi psichici ma è una faccenda relativa solo alla condizione economica del soggetto.

Per questo le minoranze di tutti i tipi, che non siano tentate dal diventare maggioranza, devono essere comprensive nei confronti delle rispettive maggioranze, aiutandole a trovare un ambito di minoranza (e ce n'è per tutti) in cui potersi riconoscere, un paesaggio in cui imparare a porre domande a sé stessi e scoprire che le domande superano di gran lunga le risposte. Ma, mi raccomando, è opportuno farlo con delicatezza, senza fare troppo male a quelle deboli creature. Si sa che svegliare di soprassalto i sonnambuli può avere conseguenze fatali!

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«Ma i moralisti han chiuso i bar / E le morali han chiuso i vostri cuori / E spento i vostri ardori / è bello, ritornar normalità / è facile tornare con le tante / stanche pecore bianche. / Scusate, non mi lego a questa schiera: / morrò pecora nera.», Francesco Guccini, Canzone di notte n. 2, 1976.

«Sà cosa stavo pensando? Io stavo pensando una cosa molto triste, cioè che io, anche in una società più decente di questa, mi troverò sempre con una minoranza di persone. Ma non nel senso di quei film dove c'è un uomo e una donna che si odiano, si sbranano su un'isola deserta perché il regista non crede nelle persone. Io credo nelle persone, però non credo nella maggioranza delle persone. Mi sà che mi troverò sempre a mio agio e d'accordo con una minoranza...e quindi...», Nanni Moretti, Caro Diario, 1993.

«Vaffanculo alla maggioranza!», Roberto Benigni, Il mostro, 1994.