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I cambiamenti climatici e la causa antropica sono un fatto assodato. Nonostante quanto circola nei media la stragrande maggioranza di scienziati che si occupano di clima, pur nella sana dialettica che da sempre distingue il discorso scientifico, su questo punto è concorde e quel consenso converge nei rapporti pubblicati da IPCC. In un mondo culturalmente maturo questo basterebbe a evitare cagnare televisive condotte da inesperti e da non esperti del clima che vantano, anche a buon diritto, competenze nei campi più diversi, dalla fisica delle nubi alla fisica delle particelle subatomiche, dalla geologia alla chimica-fisica, ma non in climatologia.
Ti faresti curare da un ortopedico per un’infezione polmonare? La domanda di apertura torna. La risposta anche. Si chiamerebbe in una trasmissione televisiva un epatologo per parlare del sarcoma osseo, o, con un salto ancora più ardito, un ingegnere idraulico per discutere di chimica della combustione? Indico i titoli di studio per dire il campo di attività professionale, accade che le due cose non coincidano ma la domanda è: chi si occupa di conservazione delle specie può essere chiamato in TV per discutere di fusione nucleare o più probabilmente il rovescio? Temo di sì. È quello che accade, che è accaduto e temo continuerà ad accadere a lungo per una visione immatura della scienza. Una visione che si richiama a quello che la scienza era ai suoi albori e forse anche prima, quando un uomo poteva coprire i più diversi ambiti dello scibile. In passato abbiamo avuto gli Aristotele, i Leonardo da Vinci ma già con quello che si ritiene l’atto di nascita ufficiale della scienza odierna, con Galileo, e con i successivi sconvolgenti paradigmi le discipline scientifiche si sono andate sempre più separando per il rapido accumularsi di conoscenze che è ormai impossibile padroneggiarle tutte. Quello che è rimasto comune, essenziale e irrinunciabile alle scienze, a tutte le scienze degne di questo nome, è il tessuto connettivo del metodo, quello di cui parlavano Cartesio, Galilei.
Dando per scontati i fondamenti concettuali e sperimentali non si può non pensare che del metodo scientifico fa parte il confronto con gli esperti del settore, nelle sedi e nei modi stabiliti dalla comunità scientifica alla quale si vuole appartenere o con la quale si vuole interloquire. Tradotto in parole semplici: se un fisico delle nubi ha dubbi sull’origine antropica dei cambiamenti climatici ed è certo che l’azione dell’uomo non abbia alcuna influenza non basta sventolare le proprie competenze e il proprio nome, deve farlo pubblicando una contro argomentazione sulle riviste specializzate nella disciplina in questione o su riviste generaliste ma di levatura scientifica. Deve affrontare la revisione dei suoi pari, non in uno studio televisivo a favore di telecamera ma negli studi degli specialisti che valutano ogni aspetto del suo lavoro, ne chiedono conto ed è tenuto a rispondere.
La scienza di oggi è arrivata a un livello di specializzazione per cui non possiamo più pensare che lo “scienziato”, qualunque sia la sua specializzazione, possa rispondere con autentica cognizione di causa a qualsiasi domanda oggetto della scienza. Forse potrebbe rispondere sul metodo ma anche qui andrebbe operato un distinguo tra metodo concettuale, solo collante tra gli scienziati, e metodo strumentale dove le discipline tornano a divergere. La visione comune dello “scienziato” e della scienza, tristemente riprodotta nel circo mediatico è ancora pre-galileiana, sia per l’assenza di criteri di scelta dei soggetti chiamati a rispondere ai problemi scientifici sia per le risposte desiderate, ancora intrise di certezze deterministiche per persino Laplace troverebbe infantili!
Ma c’è di più e più importante delle zuffe televisive tra “scienziati”. Se la scienza si è disgregata in mille rivoli, ognuno con la propria irriducibile specializzazione, come possiamo tenere insieme un mondo sempre più complesso che per essere gestito al meglio chiede la partecipazione di tutto il nostro sapere? Come possiamo far confluire tutti i nostri saperi in un grande, organico, vivo e sempre sfuggente sapere? Un approccio pre-galileiano è il viatico perfetto per la catastrofe. Forse una strada per evitarla è riprendere la lezione di Socrate, avere l’onestà di sapere di non sapere. L’onestà di riconoscere dove arriva la mia competenza e capire che è un cono di luce in una vastità buia dove posso vedere grazie alla luce portata da altri. Gli scienziati non meno della gente cosiddetta comune sono chiamati a questa lezione, anzi direi che chi si occupa di scienza, qualunque sia la branca, ha un supplemento di dovere.
Io non sono un climatologo e per questo leggo e accolgo quanto i climatologi scrivono. Non sospendo il giudizio circa i criteri, i metodi e l’interpretazione dei dati. Voglio dire che i risultati mi devono convincere, che devo trovare robusta l’argomentazione, pur nella limitatezza dei miei mezzi perché mi occupo d’altro. Insomma, assisto da fuori al confronto tra esperti del clima e prendo atto che in quel consesso non c’è alcun manifesto dissenso circa le cause antropiche dei cambiamenti climatici in corso ormai da tre decenni, anche se negli ultimi anni gli eventi estremi stanno accelerando in maniera spaventosa e purtroppo prevista. Tutto questo mi spaventa, sconvolge il mondo così come l’ho conosciuto e come desidero che continui ad essere, ma la mia formazione mi ha insegnato che non posso rigettare una argomentazione robusta e condivisa da chi su un punto ne sa più di me solo perché i risultati di quell’argomentazione mi spaventano o chiamano in causa l’intera umanità, e quindi anche me, come responsabile di un disastro. Il punto è questo. Le certezze che vacillano, le conoscenze consolidate che si sfaldano. Alla base di ogni negazionismo c’è un bimbo che piange. La mia formazione ha insegnato al bimbo che ognuno ha dentro che è inutile piangere, strepitare, battere i piedi. Non per questo i mostri del buio scappano. È più utile accendere la luce che ho a disposizione e se è debole cercare altra luce.
L’origine antropica dei cambiamenti climatici è un fatto assodato perché chi si occupa di clima globale su questo punto ha una ragionevole certezza. Una ragionevole certezza. Questo è tutto quello che la scienza può dare. Dobbiamo farcelo bastare se vogliamo un futuro.
Il politico parla di "eccezionalità dell'evento", il religioso di "messaggio di Dio", io mi fido solo di Mario Tozzi.
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RispondiEliminaCaro Antonio,
lasciamo stare, se non vogliamo deprimerci, il dibattito televisivo e ogni altra forma, spesso sensazionalistica, di divulgare la scienza e le sue scoperte. Lasciamo stare anche la questione di quanto lo spettatore medio abbia introiettato il metodo scientifico, che tu con brevi ed efficaci parole hai illustrato, di quanto si annoierebbe nel vedere un dibattito pacato in cui alcuni scienziati citano studi e fonti autorevoli a sostegno del loro dire senza nessuno che sbraiti contro l’altro, o gli infili un dito in un occhio, o che gli impedisca di parlare gridando: “Capra, capra!” o che provochi sottilmente l’interlocutore come qualche ingombrante rifiuto di sagrestia è solito fare quando lo invitano a qualche dibattito.
Credo che dovremo sensibilizzarci alla scienza e a ciò che ha da dirci, magari tramite straordinari divulgatori come il citato Mario Tozzi o come l’ancora più straordinario Piero Angela, che dovremmo averne più rispetto, magari cominciando a comprendere che gran parte delle cose che ci circondano non sono naturali, ma avvengono grazie alla scienza, come l’acqua che sgorga dal rubinetto di casa, o l’ascensore che mi porta al piano o questo stesso blog che stiamo leggendo.
Però, per ciò che riguarda una visione complessiva, globale, degli eventi, come ad esempio la grave crisi climatica, temo che tutti i climatologi del mondo non basterebbero da soli a trovare la soluzione (anche se senza di loro saremmo completamente ciechi).
Chiediamoci fino a che punto serve sbattere in faccia a tutti la realtà del problema, se l’allarmismo grave o moderato faccia correre la gente ai ripari o, come accadde in prossimità del primo millennio quando in molti paventavano la fine del mondo (“mille e non più mille”), oppure renda insensibili e assuefatti, oppure ancora spinga molti alla negazione o alla rincorsa al talismano o ad inseguire “falsi profeti”.
(continua)
Se da un lato c’è il mondo consumistico, salami e prosciutti appesi, a buon mercato, l’abbondanza, gadget, macchine, tecnologia, status symbol sempre disponibili, per chi è così determinato da volerli andare a prenderli, non puoi contrapporvi paure, visioni catastrofiche, restrizioni, contrizioni e lacrime et sanguine, devi contrapporvi qualcosa che superi in positività la sicurezza e la serenità del consumismo.
RispondiEliminaBen venga dunque un dibattito collettivo, dove per collettivo non intendo la partecipazioni di tutti, proprio tutti, ma di chi abbia qualcosa da dire o qualcosa con cui contribuire, che non sia solo la crescita dell’audience o dello share.
La scienza è democratica, certo, ma bisogna evitare la banalità, la stupidità, l’imbecillità, la megalomania e quindi anche le persone banali, stupide, imbecilli e magalomani, che contribuirebbero solo negativamente al dibattito.
Concordo con la tua splendida chiosa per cui: “alla base di ogni negazionismo c’è un bambino che piange”, ma la mia formazione mi ha insegnato che questo bambino non smetterà di piangere solo perché tu gli dici (o gli dimostri) che non ha motivo di piangere o che è inutile farlo. Smetterà di piangere se crede in te, se ai motivi per cui piange tu sostituirai dei motivi per rasserenarsi, credere e sperare in qualcosa, se gli prospetterai qualcosa di migliore di ciò che lui teme.
Ciao
Caro Garbo, ai climatologi non spetta trovare la soluzione, spetta indicare le strade per evitare il peggio. Tu sollevi l'adeguatezza della comunicazione al grande pubblico entrando in un terreno più sottile, delicato e anche più profondo di quello che considero in questo post, tu sollevi l'acheronte delle emozioni, io l'ho appena sfiorato e mi fermavo sulla soglia del dibattito tra esperti dove le emozioni dovrebbero essere tra parentesi e affermo che ormai anche questi hanno perso la bussola perché dal semplice laureato al premio nobel hanno letteralmente dimenticato l'anima del discorso scientifico oltre alla buona educazione! Questo post nasce dopo aver visto una trasmissione con l'ineffabile Franco Prodi a discettare di cambiamenti climatici (altri ne hanno messo in luce limiti e strafalcioni sul tema), quando dico dei fisici delle nubi mi riferisco proprio a lui, Per le altre specialità non è difficile trovare i nomi, dopotutto sono i soliti che girano ogni volta che in TV vogliono portare una voce "alternativa", tanto vale chiamare gli omeopati per dire la loro sulla chemioterapia.
RispondiEliminaAnni fa ho assistito a un confronto sui cambiamenti climatici moderato da Giovanni Floris, quello che ha fatto diventare famosa la Polverini che Polverini era e Polverini è tornata ma nel frattempo divenne presidente del Lazio. A precisa domanda sul perché il tema è trascurato dai media rispose che la gente nota più quello che accade a fine mese di quello che può accadere a fine secolo e che a scuola gli hanno insegnato che la notizia è ciò che si nota! È un peccato non gli abbiano insegnato che informazione è ciò che forma l'opinione pubblica che a sua volta indirizza la politica. Ma non è solo un problema di media, sarebbe troppo semplice accusare solo una categoria. Qui si è decomposto un sistema scolastico, un tessuto politico, lavorativo, civile. I giornalisti ci stanno dentro ma sono a loro volta carne tritata da questo Moloch che da anni divora tutto e tutti.
Ciao