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martedì 27 ottobre 2009

Della complessità e di altre sciocchezze

Il concetto di complessità mi interessa molto, è evidente. Già in un precedente post (La rete e la catena) ci avevo giocato. In quel post guardavo la faccenda da una prospettiva prevalentemente ecologica, mentre in questo post intendo privilegiare una prospettiva evoluzionistica. Diciamo che il concetto di complessità comincia ad interessarmi nel momento in cui è letteralmente sfrondato (o dovrei dire spurgato) dal carico ideologico che si porta dietro, che trovo difficilmente sostenibile e che non mi piace, e siccome non sono un seguace dell'oggettivismo al di fuori dello spazio e della storia sarò onesto, intendo sostituire quel carico ideologico con il mio, illudendomi che si tratti di una lettura oggettiva.
Solitamente quando scrivo qualcosa parto da un'idea che ha già una sua forma ma è man mano che scrivo che poi l'idea prende veramente corpo, magari diventa altro e non ha più niente dell'idea originaria o semplicemente diventa meno chiara alla fine rispetto all'inizio, ecco! diciamo che l'idea diventa più complessa e il rischio di perderne il filo è sempre più alto.
In qualche modo dovrei aver reso ciò che penso per cui se doveste trovarlo interessante fatemelo sapere, potrei trovarlo interessante anch'io!


Sono sempre più numerosi i tentativi di ricorrere al meccanismo della selezione naturale di stampo darwiniano per spiegare l’evoluzione dei sistemi complessi e sono altrettanto numerosi i supposti nessi, più o meno latenti, che si stabilirebbero tra complessità ed intelligenza. Prima di dare credibilità a queste asserzioni, che hanno l’aria di essere conclusioni preconcette guidate da una comprensibile ma, dal mio punto di visto, imbarazzante necessità di autostima, sarebbe interessante indagare sulla validità di un supposto meccanismo della selezione naturale quale fondamento della complessità prima e dell’intelligenza (umana?) poi.
Quali relazioni ci siano tra la complessità, intesa come “progresso dell’organizzazione” per Darwin, ed il meccanismo della selezione naturale ce lo ha già detto il padre della teoria evolutiva: “Abbiamo visto che, essendo la specializzazione delle parti un vantaggio per ogni essere, la selezione naturale tenderà a specializzare e perfezionare l’organizzazione di ogni individuo e a renderla in questo senso più elevata; può tuttavia lasciare a molti esseri strutture semplici e non perfezionate, adatte a condizioni elementari di vita, e in alcuni casi può addirittura semplificare e degradare gli organismi, pur lasciando questi esseri degradati più idonei al loro nuovo genere di vita. [...] La teoria della selezione non esige che gli organismi, arrivati ad uno stadio determinato, debbano ulteriormente progredire anche se, in ogni epoca successiva, devono leggermente modificarsi, così da conservare il loro posto relativamente ai lievi cambiamenti delle condizioni ambientali.”[1]
Nel 1872, molti anni dopo la pubblicazione della prima edizione dell’Origine delle specie, Darwin scriverà all’amico Hyatt: “Dopo lunga riflessione non posso fare a meno di pensare che non esista alcuna tendenza innata allo sviluppo progressivo.”[2]
Darwin è figlio dei suoi tempi e sebbene il suo rigore intellettuale lo porta a riconoscere che la teoria della selezione naturale non preveda la necessità logica di un concetto di progresso dell’organizzazione dei viventi, il contesto storico dell’Inghilterra vittoriana nel quale è immerso è importante per capire il linguaggio dell’Origine delle specie e l’interesse di Darwin per il concetto di progresso. S.J. Gould fa notare nella sua ultima opera che “Darwin sentiva che la selezione naturale non poteva essere accettata come una teoria del tutto sufficiente per l’evoluzione, a meno che questo meccanismo non fosse riuscito a spiegare anche le testimonianze di una struttura e di una direzionalità nella storia della vita.”[3]
Per conciliare tali apparenti contrasti, Darwin contestualizzò la lotta per l’esistenza in un ambito ecologico in cui la competizione biotica fosse l’elemento prevalente rispetto ai fattori fisici, “per garantire uno schema di progresso che non poteva essere sostenuto dalla sola selezione naturale nella sua forma più astratta e generalizzata”[4]. Perché tale meccanismo potesse operare erano richiesti ambienti affollati di specie, tempi molto lunghi e la necessità di una scena geologica “uniformitarista”, usando il termine di Lyell la cui opera aveva tanto influenzato Darwin.
Oggi questa versione dell’esclusione competitiva della lotta per l’esistenza, di cui non si sottolinea mai abbastanza il valore metaforico, dove una specie “progredita” ne sostituisce una “inferiore”, può essere riconosciuta limitatamente ad alcune condizioni ecologiche. Il tanto vituperato “catastrofismo” di Cuvier, che Darwin sentiva particolarmente pericoloso per il gradualismo da lui invocato, non è più una teoria eretica che confuta la teoria dell’evoluzione delle specie ma ne costituisce la sua integrazione.
Come già detto, lo stesso Darwin riconosceva “che è del tutto possibile per la selezione naturale adattare gradualmente un essere a una situazione in cui parecchi organi sarebbero superflui o inutili; in tal caso vi sarebbe retrocessione nella scala dell’organizzazione”[5], a tal proposito cita l’esempio di alcuni “Crostacei parassiti, in cui diverse parti della struttura divengono meno perfette, così che l’animale maturo non può essere considerato più elevato della sua larva”[6], ma ciò che a mio avviso è di enorme rilievo è la spiegazione che Darwin fornisce per la “retrocessione dell’organizzazione”, ovvero “la causa principale sta nel fatto che in condizioni molto semplici di vita un’elevata organizzazione non sarebbe di alcuna utilità, probabilmente sarebbe anzi svantaggiosa, perché di natura più delicata, e più soggetta a essere guastata e danneggiata”[7]. Potremmo citare altri esempi di regressione oltre a quello citato da Darwin, come gli occhi delle specie che vivono nelle caverne o le ali degli uccelli atteri, ma la cosa importante è che da quanto detto emergono due punti importanti che meritano attenzione, il primo è il ruolo del contesto ambientale nella definizione di “utilità” dell’organizzazione e il secondo aspetto è relativo alla maggiore sensibilità, e forse debolezza e quindi rischio per la sopravvivenza, di un livello di organizzazione cosiddetto “elevato”.
Oggi, più che ai tempi di Darwin, sappiamo che i fattori abiotici hanno un ruolo rilevante nei processi evolutivi, introducendo un ulteriore elemento di imprevedibilità e di incontrollabilità di quel concetto di “utilità” che menzionavo. Questo può apparire particolarmente sgradevole ad un filone di pensiero che prescinde da fattori causali che siano realmente imprevedibili e non connessi, in qualche modo, con un determinismo progressista e lineare, solo in apparente opposizione con il determinismo di Laplace. Come conseguenza di ciò la fragilità dei sistemi ad elevata organizzazione, a mio avviso, non riceve l’attenzione che merita poiché è ancora operante, in maniera più o meno latente, una hybris di fondo sulle sorti del mutamento evolutivo che ci vede come risultato finale e che dà per scontata l’equazione più evoluto uguale più organizzato o più evoluto uguale più complesso. [8]
Le conseguenze epistemologiche del primo e del secondo punto, dovute rispettivamente all’imprevedibilità ed alla “debolezza” di una struttura che consideriamo superiore dovrebbero farci interrogare circa i significati che l’uomo assegna ai processi di organizzazione operanti nell’evoluzione.
Sebbene “il caso e la necessità” facciano ormai parte di un certo immaginario diffuso e apparentemente consolidato, mi sembra che il caso che opera nell’organizzazione dei sistemi viventi sia ancora visto nella sua accezione di disordine ed è assimilato piuttosto al caos (spina dolente per ogni epistemologia). Del caso è particolarmente invisa la sua imprevedibilità che in un modo o nell’altro cerchiamo di incanalare in grandi dinamiche leggibili e accettabili per la nostra specie. Ma si dovrebbe fare uno sforzo di onestà per distinguere il caso dalle sue conseguenze, non è il caso ad essere imprevedibile, che invece opera costantemente nell’organizzazione dei sistemi, ma i suoi esiti. Il caso merita lo status di variabile di stato e non piuttosto di disturbo, forse una soluzione potrebbe essere la sostituzione del termine caso, che tra l’altro è uno pseudoconcetto, con quello di contingenza, intesa come insieme di condizioni operanti in un dato luogo, in un dato momento e di cui non si ha alcuna garanzia che continuino ad essere presenti e ad operare nella stessa maniera in altri luoghi o in momenti diversi. Come S.J. Gould ci ha insegnato sono convinto che la contingenza sia un concetto più adeguato per la lettura dei fenomeni naturali, che necessitano di approcci differenti da quelli meramente fisici o ingegneristici, dove il caso è un elemento di disturbo più che un fattore creativo.
Sappiamo che Darwin credeva quindi in un cambiamento graduale in un contesto di competizione tra le specie, ma se le estinzioni per avvicendamento successivo di specie sempre più progredite poteva andare bene per l’epoca vittoriana di Darwin, oggi sappiamo che le specie si estinguono a causa di cambiamenti ambientali che avvengono rapidamente o in maniera violenta perché le specie possano sopravvivere inseguendo il loro habitat. Secondo molte teorie, più o meno condivise, le grandi estinzioni di massa sulla terra sono attribuibili a drastici cambiamenti climatici, ad impatti di asteroidi sulla terra. Si tratta di eventi imprevedibili e probabilmente incontrollabili anche per l’uomo moderno, eventi che avrebbero potuto cancellare la possibilità che io scrivessi queste parole e che forse un giorno cancelleranno la possibilità che altri continuino a scriverne. Lo spettro che una roulette russa possa determinare le specie che sopravvivono (la “ruota della fortuna” contrapposta al “cuneo del progresso”, secondo la metafora di Gould[9]), in altre parole possa pregiudicare il percorso della storia, mettono a dura prova la fiducia nel valore adattativo delle capacità di elaborazione dell’uomo.
Non si mettono in discussione le dinamiche di organizzazione dei sistemi complessi, tanto meno quelle evolutive e le caratteristiche adattative della mente quale risultato della linea evolutiva cui appartiene Homo sapiens. Tuttavia, come primo punto per una analisi non troppo appassionata del valore della complessità, mi pare opportuno spostare l’attenzione dalla complessità alle complessità per capire appieno le caratteristiche dei sistemi complessi di cui la biosfera risultante dal processo evolutivo ne è un magnifico esempio.
L’evoluzione biologica è davvero estremamente complessa (e qui evoco tutte le forme di complessità: molteplicità di sistemi interagenti, imprevedibilità dei processi, multicausalità e multidirezionalità delle dinamiche, sensibilità alle condizioni iniziali, biforcazioni, adattamenti/exattamenti, imbocchi di vicoli ciechi, ruolo del caso e delle catastrofi…) e la nostra attenzione per un certo tipo di complessità che ci riguarda da vicino ci rende ciechi ad altre complessità, come la complessità delle forme. Per fare un esempio Coleoptera, Lepidoptera e Hymenoptera sono solo tre ordini di insetti che contano rispettivamente circa 280.000, 110.000 e 100.000 specie (complessivamente la classe Insecta ne conta circa 680.000 conosciuti), per l’ordine dei Primates, cui gloriosamente apparteniamo, si contano circa 180 specie! Complessivamente la classe Mammalia ne conta circa 4.200 conosciuti.
Si potrebbe a questo punto evocare l’argomento della sequenza temporale per mettere in “ordine” le varie specie con le loro peculiarità, ma il prima e il dopo valgono in uno schema logico che pone la scala progressiva quale metafora dell’evoluzione. Tale schema “potrebbe essere applicato solo a linee genealogiche che non hanno avuto successo.”[10] Come dice Gould, “I cespugli rappresentano la topologia appropriata dell’evoluzione. Le scale lineari sono astrazioni sbagliate, prodotte facendo passare un rullo compressore su una via labirintica che salta da un ramo all’altro in un cespuglio filogenetico…Chi ha mai sentito parlare della tendenza evolutiva dei roditori o dei pipistrelli o delle antilopi? Eppure questi sono i massimi successi nella storia dei mammiferi. I nostri casi più superbi non diventano i nostri esempi classici semplicemente perché non siamo in grado di tracciare una scala progressiva attraverso un cespuglio vigoroso con centinaia di ramoscelli che sopravvivono”[11], al contrario, è invece fin troppo facile tracciare una scala per linee filetiche “senza successo, sull’orlo stesso dell’estinzione, poiché possiamo linearizzare un cespuglio solo quando esso conserva un unico ramo superstite che possiamo collocare, con un atto di arbitrio erroneo, alla sommità di una scala.”[12]
In sostanza, detto senza perifrasi, la linea filetica che porta ad Homo non ha conspecifici, e questo, da un punto di vista evolutivo, potrebbe rappresentare quanto meno un grosso limite. Ora, potremmo pure consolarci con l’argomentazione del filtro sempre più selettivo che porta all’uomo e alla sua coscienza ma francamente la logica della crème de la crème la trovo alquanto debole.
A tal proposito Konrad Lorenz ci da altre indicazioni sulle modalità operative seguite dai processi evolutivi per l’organizzazione della complessità che ne emerge. “Ad ogni nuovo gradino della scala della vita altrettante strade portano verso l’alto come verso il basso. Così per esempio per ogni nuovo essere vivente superiore nasce un’intera serie di parassiti; l’evoluzione organica può perfino essere riportata a stadi anteriori a quello vitale.
Passo dopo passo, lo studio comparato dell’evoluzione delle specie si imbatte in «errori» evolutivi, in costruzioni di tale miopia e imprevidenza che mai potrebbero essere ritenute opera di un costruttore umano.”[13]
Lorenz riferisce l’esempio dell’evoluzione del sistema circolatorio e respiratorio nel passaggio dalla vita acquatica alla terraferma ed alla sua evidente inefficienza dovuta all’alimentazione del cuore da sangue misto, arterioso e venoso. La respirazione branchiale dei pesci ha una elevata efficienza che viene persa con la trasformazione della vescica natatoria in polmoni, tale situazione rimane in tutti gli anfibi e nei rettili (esclusi i coccodrilli) che in assenza di un setto cardiaco che separa il flusso venoso da quello arterioso si affaticano con estrema facilità. Un altro esempio è dato dall’evoluzione del sistema nervoso centrale che nei molluschi e negli artropodi è costituito da un anello situato attorno all’intestino, tale soluzione evolutiva impone una limitazione strutturale allo sviluppo di un sistema nervoso complesso[14]. L’evoluzione dei polmoni a partire dalla vescica natatoria dei pesci e lo sviluppo di sistemi nervosi centrali, che richiede addirittura un cambiamento architettonico per “slegare gli intestini dai cervelli”, mettono in evidenza come le strutture che noi consideriamo attualmente organizzate siano un “…esito dei processi di continuo rabberciamento caratteristici dell’evoluzione.”[15] Insomma, se è un orologiaio a guidare i processi evolutivi si tratta di un orologiaio cieco[16] o quanto meno di un orologiaio miope, secondo questo straordinario blog che vi invito a leggere se vi interessano le curiosità del mondo vivente.
Per quel che concerne “dell’umana gente le magnifiche sorti e progressive”, Lorenz non può che leggerla alla luce dei meccanismi evolutivi. “L’evoluzione discendente si accompagna spesso, forse sempre, con forme di adattamento estremamente specializzato. Se una specie animale è esposta a una pressione selettiva unilaterale, se cioè l’adattamento in un’unica direzione può fornire grandi quantità di materia e di energia, essa può trascurare altre esigenze senza mettere in pericolo la propria sopravvivenza.”[17] Il passo per vedere il nesso di queste considerazioni con quanto accade nella società umana non è particolarmente impegnativo ma Lorenz non lascia dubbi all’interpretazione, “Le cause dell’evoluzione regressiva della civiltà odierna sono sostanzialmente le stesse di quelle della decadenza filogenetica di altri esseri viventi. La causa fondamentale è anche qui l’unilateralità della pressione selettiva […] ogni popolo della terra entra in concorrenza con gli altri con gli stessi mezzi, dispone della stessa tecnica evolutasi dalle stesse conoscenze scientifiche, combatte con le stesse armi, mente con gli stessi mass media, truffa con la stessa borsa mondiale.”[18]
In Il cervello del ventunesimo secolo[19], il neurobiologo S. Rose considera alla luce dei processi evolutivi anche il vessillo più sventolato dalla specie umana, il sistema nervoso. Le sue premesse per fugare ogni dubbio riguardo eventuali letture distorte sono, a dir poco, perentorie. “Innanzitutto, non esiste alcuna freccia prestabilita di cambiamento evolutivo, alcuna guida inesorabile verso la complessità. Non esiste alcun albero della vita con gli esseri umani collocati sul ramo più alto; nessuna scala naturae, nessun superiore o inferiore, nessun più o meno primitivo, nonostante la facilità con cui questi termini vengono regolarmente tirati in ballo. Tutte le forme viventi attualmente sulla Terra si trovano lì come conseguenza dei medesimi 3,5 miliardi di anni di evoluzione e tutte sono grossomodo egualmente idonee all’ambiente e allo stile di vita che hanno scelto. […] la selezione naturale, l’evoluzione, non è in grado di prevedere il cambiamento futuro; si tratta di un processo sensibile al qui e ora. Non esiste alcuno scopo, nessun tendere verso qualche perfezione metafisica. La selezione può solo lavorare sui materiali di volta in volta disponibili. L’evoluzione opera in maniera additiva, attraverso continui aggiustamenti. Non è in grado di ridisegnare e costruire dal nulla.”[20]
Non si può essere più chiari nel dire che non esiste “alcun percorso evolutivo lineare dalla protocellula agli esseri umani; vi sono piuttosto molteplici sentieri divergenti. La stragrande maggioranza delle specie attualmente viventi se la cava senza cervelli o addirittura senza sistemi nervosi – e se la cava molto bene; queste specie non sono né più né meno evolute di noi. La lussureggiante diversità della vita oggi esistente è una rete di organismi mutuamente interagenti che hanno evoluto stili di vita assai diversi. L’evoluzione della vita è piena di punti di biforcazione.”[21]
Per quanto riguarda il trionfo del nostro cervello che caratterizzerebbe l’evoluzione, S. Rose è altrettanto chiaro. “La linea evolutiva che ha condotto ai mammiferi e di lì ai primati e agli esseri umani non descrive che una delle innumerevoli traiettorie evolutive che hanno generato tutte le attuali forme di vita e che continuano a guidare l’adattamento in risposta alle sempre mutevoli contingenze ambientali. Soprattutto, l’adattamento è un fatto che riguarda la sopravvivenza; i nostri cervelli si sono evoluti come una strategia di sopravvivenza, non per risolvere astratti rompicapi cognitivi, fare cruciverba o giocare a scacchi.”[22]
Sull’argomento complessità-intelligenza ed evoluzione aggiungo un elemento spesso non considerato quando si parla di una certa complessità biologica particolarmente gratificante per l’intelletto: un intero regno di organismi viventi, i vegetali, adotta strategie di vita del tutto differenti dal regno animale. Un intero regno che, almeno apparentemente, non ha sviluppato alcuna delle categorie sensoriali che consentono di parlare di intelligenza così come solitamente la intendiamo. L’esistenza dei vegetali e la loro enorme diversità toglie, a mio avviso, terreno all’argomento della presunta tendenza dei sistemi biologici verso la complessità intesa come capacità percettiva e analitica. Per non parlare di Batteri e Funghi, altri regni viventi, che non mi pare si distinguano per acume d'intelletto.
Dalla letteratura evoluzionistica è quindi evidente che “la vita non presenta alcuna tendenza alla complessità nel senso usuale, ma solo un’espansione asimmetrica della diversità attorno a un punto di partenza necessariamente semplice. […] Poiché la diversità, misurata come numero di specie, è cresciuta nel corso del tempo, i valori estremi nella distribuzione della complessità possono muovere solo in una direzione. Nessuna specie può diventare più semplice del punto di partenza, poiché la vita ebbe origine al limite inferiore della diversità conservabile. L’unica direzione aperta è quella verso l’alto, ma pochissime specie prendono questa strada. Una crescente complessità non è una tendenza di una linea genealogica ininterrotta, ma solo il limite superiore di una distribuzione che si espande al crescere della diversità complessiva. […] L’organismo modale sulla Terra è oggi, com’è sempre stato e come probabilmente sarà sempre, una cellula procariota.”[23]
Per concludere con un argomento che mi sta a cuore, ovvero i supposti nessi tra evoluzione ed etica, riprendo nuovamente S. Rose che nel suo libro entra nel merito di quegli aspetti della complessità “mentale” che indubbiamente caratterizzano gli esseri umani e pur non discutendone le peculiarità pone la questione del loro valore quale fondamento di un “universo di norme etiche”. Rose si chiede, “Possiamo, ad esempio, inferire un qualche codice universale di norme etiche a partire da una comprensione dei processi evolutivi?”[24] “Gli psicologi evoluzionisti, in particolare, hanno sostenuto la possibilità di derivare principi etici da una comprensione dei processi evolutivi, benché molti filosofi abbiano fatto rigorosamente notare che non è possibile dedurre un dover essere da un essere.”[25]
In tanti si sono posti la domanda “gli animali hanno l’istinto, e gli umani?”. La risposta più gettonata nel corso della storia del pensiero è stata il "ben della ragione", ma io sono convinto che per gli umani la ragione sia uno dei metastrumenti per procurarsi il vero strumento dell'agire umano, la norma che quasi mai è frutto della sola ragione (tra l'altro non sono troppo convinto che l'istinto non giochi una parte rilevante anche nella mia specie). Gli umani devono avere le norme che hanno la forza e l’onestà di darsi. "Quali norme?" si chiede d'Arcais "Qualsiasi, purché funzionino."[26] Qui il discorso evolutivo, o quanto meno antropologico, inevitabilmente si intreccia con quello etico e politico e "sotto questo profilo (che ha dato luogo a infinite varianti di «idiozie, di odio e di morte»), la società democratica è particolarmente avvantaggiata. Ha «deciso» per l'eguale dignità di tutti i suoi cittadini, dunque per il loro eguale potere (almeno politico). Questa «decisione» fa tutt'uno con la democrazia perché fa tutt'uno con l'autonomia. Di tutti e di ciascuno."[27] In questo ambito, che è dell’etica, il problema che resterà, a mio avviso, sempre irrisolto è quello del fondamento e del senso (Per fortuna, aggiungo! Non riesco proprio ad immaginare come sarebbe una umanità senza avere più un senso da cercare o piuttosto da costruire. Al confronto il disagio dell’assenza di senso è ben poca cosa). Il ricorso a valori fondanti che abbiano origine al di fuori della stessa coscienza umana (per quanto qui considerato, nei processi evolutivi o di organizzazione della complessità in generale), appaiono poco solidi o quanto meno esposti a critiche che ne minano le basi stesse.
Nicolai Hartmann affermava “L’uomo non riesce neppure lontanamente a pensare che la facoltà di conferire un senso alle cose sia un suo privilegio, di cui forse, nella sua insipienza, si sta privando.”[28] Non penso che l’essere umano sia la sede di una sorta di riflessività cosmica, un esito autoriflessivo dell’universo[29]. Trovo la tesi difficilmente sostenibile, almeno alla luce delle argomentazioni di natura evoluzionistica.
Sono convinto che partecipiamo (volente o nolente) in una vicenda della materia che si auto-organizza (se verso una maggiore o minore complessità ho già detto!), tuttavia penso sinceramente che i meccanismi validi per spiegare gli eventi biologici “sono tanto importanti per noi quanto irrilevanti nell’economia complessiva dell’universo.”[30]
E’ nell’oceano di non-senso in cui l’uomo nuota che si devono porre le domande per la costituzione dei valori fondanti dell’etica umana, di qualunque scuola essa sia, e con Paolo Flores d’Arcais concludo che ad interessarci “devono essere le domande fondamentali dell’etica, ormai, e non più dell’essere. Cominciando dall’antinomia più radicale: l’etica è necessaria, l’etica è infondabile.”[31]
“Sappiamo tutto, inutile illudersi”[32], dice d’Arcais. Io sono convinto che non sappiamo tutto e che mai sapremo tutto ma quello che sappiamo è abbastanza per non illudersi, ma anche questo, in definitiva, è un atto di fede!


[1] C. Darwin, L’Origine delle specie, (1859). Boringheri, 1967, pp. 420-421.
[2] S.J. Gould, La struttura della teoria dell’evoluzione. Codice ed., 2003, p. 586.
[3] S.J. Gould, op. cit., p. 587.
[4] S.J. Gould, op. cit., p. 588.
[5] C. Darwin, op. cit., p. 188.
[6] C. Darwin, op. cit., p. 187. Darwin si riferiva sicuramente al granchio parassita Sacculina carcini.
[7] C. Darwin, op. cit., p. 190.
[8] K. Lorenz chiama “sacculinizzazione” i processi di degenerazione che la società attuale rischia di imboccare in seguito alla perdita di ogni tipo di pressione alla differenziazione (K. Lorenz, Il declino dell’uomo. Mondadori, 1983, pp. 43-173). Non bisogna tuttavia dimenticare le simpatie di Lorenz per il nazionalsocialismo per leggere gli effetti dell’addomesticamento come un tentativo del grande etologo di far rientrare la sua teoria nel quadro ideologico che aveva sciaguratamente abbracciato. (Cfr. S.J. Gould, Otto piccoli porcellini. il Saggiatore, 2003, p. 453).
[9] S.J. Gould, Otto piccoli porcellini. il Saggiatore, 2003, pp. 342-357
[10] S. J. Gould, Bravo Brontosauro. Feltrinelli, 1992, p. 181.
[11] S. J. Gould, Ibidem
[12] S. J. Gould, op. cit., p. 182
[13] K. Lorenz, Destino e Natura. Mondadori, 1985, p. 33.
[14] S. Rose, Il cervello del ventunesimo secolo. Codice ed., 2005, p. 49.
[15] S. Rose, op. cit., p. 62
[16] R. Dawkins, L’orologiaio cieco. Rizzoli, 1989.
[17] K. Lorenz, Destino e Natura. Mondadori, 1985, p. 369
[18] K. Lorenz, op. cit., p. 373.
[19] S. Rose, Il cervello del ventunesimo secolo. Codice ed., 2005.
[20] S. Rose, op. cit., pp. 27-28.
[21] S. Rose, op. cit., p. 49.
[22] S. Rose, op. cit. p. 57.
[23] S.J. Gould, Otto piccoli porcellini. Il Saggiatore, 2003, pp. 369-370.
[24] S. Rose, op. cit., p. 378.
[25] S. Rose, op. cit., p. 380.
[26] P.F. d'Arcais, Il teologo progressista, il papa reazionario e l’odio per l’umanesimo ateo. Micromega on line, 28 agosto 2009.
[27] P.F. d'Arcais, Ibidem.
[28] Cit. in K. Lorenz, 1985, p. 29.
[29] J. Guitton, G. Bogdanov, I. Bogdanov, Dio e la scienza. Verso il metarealismo. Bompiani, 1997.
[30] E. Boncinelli, nell’introduzione all’edizione italiana del libro di E. Mayr, L’unicità della biologia - Sull’autonomia di una disciplina scientifica. Raffaello Cortina ed., 2005.
[31] P.F. d’Arcais, L’individuo libertario. Einaudi, 1999, p. 13.
[32] P.F. d’Arcais, Ibidem.

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