“Qui, in questo supremo pericolo della volontà, si avvicina, come maga che salva e risana, l’arte; soltanto essa può piegare quei pensieri nauseati per l’orrore o l’assurdità dell’esistenza in rappresentazioni con cui si possa vivere: queste sono il sublime, come addomesticamento artistico dell’orrore, e il comico come sfogo artistico del disgusto per l’assurdo. Il coro dei Satiri del ditirambo è l’azione salvatrice dell’arte greca; quelle esaltazioni poc’anzi descritte si esaurirono nel mondo intermedio di questi compagni di Dioniso.” (La nascita della tragedia, F.W. Nietzsche, §sez. 7).
Il sublime e il comico come rappresentazioni speculari eppure distinte dello stesso orrore, l’uomo greco non può farne a meno per fare fronte all’assenza di senso che pure non può restare tale a lungo, così il coro traccia uno spazio virtuale e temporaneo dove delimita i confini del senso. Il senso è l’ancoraggio, temporaneo e irrinunciabile, per non essere travolti dall’assurdo. Ma il senso ha sempre almeno due facce che si specchiano l’una nell’altra, destino contro volontà, leggi della tradizione contro leggi del divenire. Fuori dal coro lo stupore atterrito della maschera si specchia nello stupore meravigliato del filosofo. La tragedia greca, come la politica di Platone nasce dall’abbandono degli dèi e dalla necessità di riempire il vuoto che hanno lasciato. Se mai si è avuta questa consapevolezza era ovvio immaginare questo momento come la nascita dello spirito tragico, uno spirito inorridito di fronte all’insoluto e all’insolubile che tuttavia sfida quell’insolubile facendolo specchiare nell’immagine della sua rappresentazione, contando nella pietrificazione che assicurò a Perseo la salvezza dalla Gorgone.
Oggi siamo di fronte ad una colossale sfida per l’estetica. La sfida potrebbe per certi versi presentarsi come un torpore dei sensi, una sorta di anestesia ma in realtà si stanno riscrivendo i parametri dell’estetica, si sta fondando una nuova estetica. Il sublime e il comico hanno smesso di specchiarsi l’uno nell’altro riconoscendosi quali rappresentazioni distinte della stessa insensatezza. Questo discorso eternamente inconcludente è stato soppiantato dal progressivo incontro della realtà con il patetico e il ridicolo che non si pongono più come rappresentazioni distinte bensì come identificazioni della stessa realtà. Allora non si pone più confine tra la realtà e le sue rappresentazioni, né alcuna linea immaginaria permette di distinguere il patetico dal ridicolo.
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