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Nelle pitture pompeiane esistono altri esempi di figure velate: es. Medea che uccide i figli. La quistione è stata trattata dopo il Lessing, la cui interpretazione non è completamente soddisfacente?
(Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, 1948.)
Le foto di Giovanna portano in primo piano non ciò che si nega, ché resterà sempre negato, bensì la chiara consapevolezza che ciò che si mostra non può essere tutto quello che vediamo. Se dovessimo tradurre le foto di Giovanna con le parole diremmo che più di ciò che si dice è importante ciò che si tace, non per gioco intellettuale ma per pudore, discrezione, intimità e profondità dell’insondabile emotivo e biografico.
La presenza dell’assente è ingombrante in queste foto e fa tornare alla mente la poesia di Attilio Bertolucci, “Assenza, / più acuta presenza. / Vago pensier di te / vaghi ricordi / turbano l'ora calma / e il dolce sole. / Dolente il petto, / ti porta come una pietra / leggera.”
L’assenza diventa acuminata presenza, si sottrae alla vista eppure la sentiamo con ogni fibra del corpo. Giovanna azzarda un’impresa difficile, fotografare l’assenza e lo fa in maniera rispettosa, perché quell’assenza parli senza essere violata. Giovanna è consapevole del rischio di scontrarsi contro un macigno di cose non dette, si muove con discrezione per non urtare assenze che occupano ogni anfratto dell’anima.
Giovanna entra nel sacrario in punta di piedi, in religioso silenzio. Qui si entra in una galleria di uomini e donne appena cacciati dal giardino incantato e che hanno ormai smesso di chiedersi ragione di tanto dolore. In questa galleria di memorie vediamo volti ammantati di silenzio e il silenzio ha la forma delle foglie della vite, più spesso dell'ulivo, le divinità che da sempre governano i destini dei salentini, anche quando vivono lontano dalla loro terra. Ogni volto è avvolto nel suo sudario di silenzio. Non ci sono silenzi comuni, ognuno ha il suo, ognuno la sua foglia per coprire la vergogna di una vita offesa dalla storia, per velare lo strazio del sommo sacrificio, quello in cui ognuno immola sé stesso. Le foglie coprono i volti in foto rubate nei momenti di festa, volti ritratti in studiate pose di Grazie contadine che si tengono le mani in un intreccio di fatalità, volti di giovani pieni di vita che sfidano il futuro dimenticando per un attimo le sue rappresaglie, volti di eterne matriarche che cullano gli ultimi nati, i soli a non avere ancora il volto coperto.
I volti ritratti da Giovanna non sono volti negati, sono volti insondabili come la terra con cui hanno vissuto in risonanza, come la terra che ha ancora le impronte dei loro sguardi che qui intravediamo. Una terra percorsa da muri a secco di pietre tenute insieme dalle tele dei ragni, da sentieri sterrati come i volti da rughe, mappe segrete di viaggi sempre troppo lontani da casa, mappe ingiallite dal tempo e volti nascosti che oggi abbiamo paura di guardare.
Osservando attentamente queste foto scopriamo che le foglie non sono solo maschere che coprono sancta sanctorum di intimità, forse quelle foglie servono soprattutto per proteggere noi stessi dal terrore che abbiamo di annegare nell'abisso di quei volti.
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Giovanna Marsano presenta la sua mostra fotografica SANTA TERRA nel contesto del progetto TERRE curato Anna Chiara Anselmi. La mostra sarà inaugurata alle 18:00 di sabato 16 giugno 2018 nella galleria Grafica Campioli a Monterotondo e sarà visitabile da martedì a venerdì dalle dalle 17:00 alle 20:00 fino al 7 luglio. La galleria è nel centro storico di Monterotondo, adiacente a Palazzo Orsini (ora Palazzo Comunale) in Via Vincenzo Bellini, 46, a soli 25 chilometri da Roma.
Giovanna Marsano nella presentazione del suo progetto SANTA TERRA scrive:
«Esiste, ancora, un mondo nel quale il cielo scandisce il tempo e “le stagioni scorrono sulla fatica contadina”, un mondo nel quale, donne e uomini vivono la loro vita in simbiosi con quella della vite, degli ulivi, dei frutti e delle piante, come plasmati dalla stessa terra. Una sorta di giardino dell’Eden in cui il patto con la natura non è ancora stato rotto.
In tanti hanno calpestato quei campi, tante mani hanno toccato quei tronchi.
Se solo quel silenzio potesse parlare racconterebbe di lacrime, sudore, preoccupazioni, racconterebbe di vita, di morte e dell’instancabile lavoro di tutti coloro che vivono la terra tra odio e amore.
Gli uomini e le donne di “Santa Terra”, vogliono essere, simbolicamente, tutti gli uomini e tutte le donne del Sud, le maschere nascondono la loro identità, lasciando intravedere solo lo sguardo, ma svelano la loro essenza e il legame ombelicale che li unisce alla terra.
“Santa Terra” vuole essere un omaggio a loro, al loro lavoro e ai loro occhi pieni di albe e tramonti che non hanno conosciuto altro tempo se non quello della terra.»
Perfettamente d'accordo. Anche perché quella volta che avevo pure gli scatti dove appariva il volto preferii pubblicare questa.
RispondiEliminamolto bella la tua foto, grazie.
EliminaPerdona l’accostamento irriverente, dopo Gramsci che cita Plinio e la poesia di Bertolucci, ma leggendo i tuoi ultimi due post ni è venuta in ente la scena del film L’attimo fuggente, quando il professor Keating porta la sua classe davanti alle foto ricordo degli ex allievi della scuola, e li fa leggere loro la poesia di Herrick che recita: “Gather ye rosebuds while ye may…” (Cogli la rosa quand’è il momento…), e sussurra loro, come se provenisse dalle foto degli allievi del passato: “Carpe diem!”.
RispondiEliminahttps://www.youtube.com/watch?v=aCLI0HDM4FI
Ciò che “parla” dal passato è il volto di tutti quei ragazzi impresso nelle foto, i loro occhi, i loro sguardi, il fatto che sembrano guardare il loro futuro ed esprimere i loro sogni, le loro ambizioni, il loro sentirsi quasi onnipotenti, padroni del mondo e del loro domani.
Se togli loro un volto, sembreranno corpi inanimati, materia inanimata, cose inerti, persone senza identità e senza parola, la stessa sensazione che assale scendendo nella Cripta dei Cappuccini di Palermo, il volto di tutta quella gente non è del tutto cancellato, si è solo mummificato, e questo da la sensazione di avere a che fare con dei giocattoli appesi al muro.
E’ sul volto di nostra madre che cogliamo le sensazioni, le emozioni, le intenzioni, sue e quelle nostre; è su questo primo ancestrale canovaccio scenografico che impariamo a leggere il mondo e noi stessi, il viso umano ha più muscoli di qualsiasi altra parte del corpo ed è la zona più espressiva dell’uomo.
Ma se apparisse soltanto, se fosse sempre davanti ai nostri occhi, il messaggio che ci trasmetterebbe sarebbe l’input proveniente da qualcosa di animato, di vivente, ma non dotato di autocoscienza e, se dobbiamo credere ad Hegel, occorre un’autocoscienza di fronte a noi perché si sviluppi un’autocoscienza in noi.
Il messaggio diventa significativo per noi, diventa “umano” (e ci rende “umani”), solo se la coscienza di fronte a noi appare-scompare-riappare (come nel gioco del cucù, esattamente); soltanto così qualcuno di fronte a me può dirmi qualcosa. Questo stratagemma è usato al cinema, al teatro, in musica, ed è strausato nei rapporti umani.
Solo se possiamo supporre dei volti, degli sguardi, delle intenzioni, delle emozioni, dietro i visi coperti delle immagini di Giovanna Marsano, possiamo ritenere significativo tutto l’evento della mostra fotografica; togliere il volto alle antiche immagini è sospendere nell’aria il gesto altrui, solo così lo possiamo cogliere in relazione a noi.
Sul gesto di Agamennone, Kierkegaard esprime un parere a mio avviso riduttivo, nel momento in cui presenta l’antico eroe mentre fa un gesto dettato soltanto dall’etica antica (che il filosofo danese fraintende in toto), vale a dire che secondo lui Agamennone uccide la figlia Ifigenia perché così andava fatto, così fa un re, e nessuno di fronte al proprio destino può tirarsi indietro, Agamennone è solo l’esecutore materiale e non può avere esitazioni nell’uccidere la propria figlia per propiziarsi gli dei in vista della spedizione per Troia.
In realtà la questione no n è così semplice, nessun uomo può essere semplicemente un automa, un burattino del fato, Agamennone, al pari di Abramo con cui Kierkegaard lo paragona sfavorevolmente, deve fare quel doppio movimento che va dall’eseguire un ordine impartito dall’alto al volere fortemente ciò che quell’alto gli impone, a farlo suo, a virare verso l’amor fati.
Per questo Abramo necessita di tre giorni per salire sul monte Moriah, per questo Agamennone nel momento fatale è costretto a coprirsi il viso, per questo le varie Medee e le danzatrici pompeiane necessitano di velare e di svelare le loro intenzioni o il loro corpo, per vendicarsi o per sedurci.
E’ un vero peccato non vivere un po’ più vicino alla capitale …
Ciao, buon fine settimana
Non è un accostamento irriverente, è uno dei più bei film che io abbia visto. La scena che mi suggerisci introduce una garbata dissonanza in quanto dico ma, a mio avviso, solo apparente, velata direi. Cogli il punto dicendo che è necessario supporre un volto, immaginare uno sguardo, un’emozione, un’attesa ed è proprio questo che accade nelle foto di Giovanna. Possiamo parlare di ellissi nelle immagini come in poesia? Le foto di Giovanna sono questo, ellissi nelle foto. Come in poesia si omettono elementi sintattici che pure continuano a esserci è possibile con le immagini omettere elementi visivi per renderli necessariamente presenti? Come nella poesia di Bertolucci l’assenza dell’immagine non è sottrazione ma un “artificio” che la rende ancora più presente perché quella presenza si manifesta non davanti agli occhi dell’osservatore ma dentro i suoi occhi, negli strati più profondi e quei volti assenti diventano volti universali. Un album di famiglia diventa così epopea contadina di un sud che ognuno ha sepolto nella propria anima perché, di questo sono convinto, il sud non è luogo geografico ma stato dell’anima. Nelle foto vediamo antiche sacerdotesse che donano al mondo i nipoti, bambini immobili, pietrificati da una medusa che li consegnerà ai posteri, giovani eroi pronti a uccidere il minotauro che li ucciderà, una galleria di eroi tragici e sconosciuti. Solo velando quei volti se ne intuisce la dimensione tragica e universale e, sono convinto anche di questo, probabilmente Kierkegaard si sarebbe interrogato anche della loro dimensione religiosa.
EliminaSì, è davvero un peccato che tu non viva più vicino alla capitale. Un abbraccio e buona settimana.