In via della luce c'è leggera maretta
la linea dell'orizzonte solleva il velo
il tuo occhio non squarci il cielo
cammina lento, non avere fretta.
"Concludiamone dunque che il mondo sarebbe assai migliore se ciascuno si accontentasse di quello che dice, senza aspettarsi che gli rispondano, e soprattutto senza chiederlo né desiderarlo." José Saramago
la linea dell'orizzonte solleva il velo
il tuo occhio non squarci il cielo
cammina lento, non avere fretta.
Mi piacerebbe renderla cantabile ma c'è da lavorarci un bel po'.
***
pescatori di frodo, lunghi arpioni, punta d'ossa.
Nella baia della bufera muoviamo guerra a mostri e abissi,
fatale passatempo, liquore di magia nera e ordinarie apocalissi.
Quando nasce un bambino lo battezziamo nei barili di veleno,
copri la pelle di squame, lascialo dormire nel fieno,
tre immersioni dalla polena nella terza notte di luna piena.
Se il bimbo piange è brutto segno,
malaugurio per tutto il regno.
Correte gente, il bimbo è silente
è nato nel mar della bufera
chi ha ingoiato tutto il veleno in una sera.
Verso di ramarro, sangue di fuggiasca,
al tramonto parliamo con i morti
e andiamo di notte dove spinge la burrasca,
al buio pesto non vediamo scogli e torti,
navigare tra secche e ragioni di tutti è pratica antica,
approdare nei porti di una costa sconosciuta,
dove soffia fortunale toccare le tue coste è fatica.
Domani prenderemo di nuovo il mare,
ci guiderà il bambino che non pianse
oggi è un uomo, sa cosa fare.
La zingara felice, faccia rugosa,
dice di partire alle prime luci dell'alba feroce.
Ai remi fratelli miei,
l'orizzonte chiama a gran voce,
non torneremo come fa il salmone,
voleremo via in una bolla di sapone.
Nella baia della bufera c'è sempre tempesta
da lontano vedi calma piatta
ma non è facile arrivare sotto costa.
Chi la vede dal mare aperto gode il chiar di luna
noi che navighiamo quelle acque
per salvare la vita invochiamo fortuna.
Diffidiamo della felicità come di cosa insana
sulle coste rabbiose cantiamo versi d'amore,
all'arrembaggio compagni d'onore,
nella schiuma fitta di fata morgana.
dal porto delle rose,
ha preso il mare
dopo il naufragio del mattino.
A bordo il nocchiere,
una bambina e altri sopravvissuti.
Nessuno di loro sapeva andare per mare,
il nocchiere meno di tutti.
Sono saliti in barca come capita,
Incastrando i corpi e le anime
senza regole, senza cortesia,
con i gomiti piantati nei fianchi
e volti doloranti.
Sono andati via ignorando la rotta,
"affondare è peccato", questo solo dicevano.
Hanno attraversato un mare nero
per svanire dall'orizzonte con un sorriso
e uno straccio per bandiera,
dorsi di animali fantastici affioravano dalle onde,
ossa d'altri tempi o pietre galleggianti.
Sulla soglia degli occhi del nocchiere
spuntava un diamante di sale
e una domanda muta alla bambina:
Sei felice?
asciugano al vento sui fili
stesi da un lato all'altro del buio.
Lampi di luce nelle notti d'estate
si schiantano negli occhi,
vetri cavi di clandestine distillerie.
Una sera in riva al mare
basterà a darci pace,
creature assetate di attesa.
***
La liquida incostanza del mare ci parla dei moti interiori, dell'assenza di un appoggio, di un terreno solido, di una base. In mare puoi solo nuotare o galleggiare, imparando a chiedere aiuto all'acqua. In mare le distanze ingannano e quello che vedi vicino non è mai così vicino come credi. Il mare è ciò che siamo davvero, il nostro ritratto più intimo. La casa più antica, quella da cui veniamo e che portiamo dentro, a prova di dimenticanza. Il mare di notte è il mare che confessa a sé stesso quello che di giorno non dice. Per questo il mare al buio fa paura.
Della luce so che è un gomitolo di lana,
me ne servo con arte maldestra
per lavorare ai ferri una maglia
che scaldi sguardi infreddoliti.
Vedessi come sono diventato bravo
a intrecciare silenzi e spine.
Dai muri tenuti insieme da ragnatele
faccio nascere nuvole di rimorsi
con la liturgia antica dei sogni
di chi crea uomini di sale.
Da quando ho lasciato la mia casa
riconosco le campane che chiamano
al matrimonio dei sensi con l'inganno,
lungo strade di tufo sgrano rosari di pietre,
e ad ogni grano auguro la buona notte alle rose
e ai vermi che conoscono la storia.
Con il mio occhio pigro guardo mia madre
che non invecchia e mio padre di pochi anni,
vende latte fresco in bicicletta.
Dall'altra parte della strada
i bambini giocano a nascondino,
io scarabocchio fogli di carta.
Ognuno cerca un angolo
per lasciarsi scoprire e poi scappare
nel punto convenuto
di una tana che libera tutti.
Da decenni non si fa che dire che la politica deve riprendersi il suo primato sull'economia. Mi chiedo se non è anche nella redistribuzione esclusivamente in denaro che si impone il primato dell'economia. Abbiamo parlato di reddito di cittadinanza e, correttivi a parte, nessuno sano di mente direbbe che non è stato uno strumento utile a contrastare la povertà ma non abbiamo mai parlato di servizi di cittadinanza. Così come non abbiamo mai parlato di quante povertà ci sono da contrastare. Discorso spinoso, da evitare lasciando al destinatario del reddito, come di ogni altro sussidio, il compito di vedersela da solo. Non ne abbiamo mai parlato perché quello che esula l'equivalente generale del denaro suona anacronistico e paternalistico, a destra e a sinistra. Non si ha più la forza e il coraggio di affrontare il discorso di una politica che concepisca di indirizzare gli investimenti nelle nuove generazioni. Il discorso sul primato della politica è un dispositivo vuoto, buono per qualche circolo di seguaci del postpensiero! Allora ben venga la dote ai 18enni, salvo non lamentarsi se una minoranza, si spera, conoscendo meglio di chiunque altro i propri bisogni, investirà la propria dote in i-phone e altri ninnoli.