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martedì 2 ottobre 2018

La cattura del gatto [Note (48)]

Il “fondamento delle cose” esercita da sempre un indiscutibile fascino, la sua ricerca ha impegnato fior di pensatori. Quando ne sento parlare non posso fare a meno di ricordare il bellissimo racconto “Micromegas” di Voltaire. Un gigantesco abitante di Sirio visita la terra insieme a un altro gigante di Saturno, quest’ultimo molto più piccolo del primo. I due giganti hanno nozioni filosofiche e scientifiche inimmaginabili per noi umani, e il primo più del secondo. Dopo notevoli peripezie i due giganti si accorgono delle minuscole creature che popolano la terra e intavolano con loro una serie di discussioni filosofiche. Al termine della disputa i due giganti decidono di scrivere per gli uomini un libro dove avrebbero fornito spiegazioni del “fondo delle cose”. I giganti sono ormai partiti e l’apertura del libro davanti a una commissione di dotti rivela pagine bianche.
Uno dei “fondamenti” in voga è lo sviluppo, desiderosamente ineluttabile nelle specie superiori, del cosiddetto mentalismo, di cui l’uomo è vessillo trionfante. In molti sono pronti a sostenere che basterebbe una attenta osservazione delle diverse specie per notare un fatto così evidente ma sfugge che per giungere correttamente alla conclusione che il mentalismo sia l’esito dell’evoluzione è necessario supporre un osservatore esterno. Cosa direbbe un osservatore dotato di un apparato percettivo e sensoriale che operi scelte cognitive a scale spazio-temporali tali da comprendere il campo in cui noi esistiamo?
Se accettiamo un contesto evolutivo per lo sviluppo del mentalismo allora è necessario considerare l’estrema complessità della dinamica evolutiva (e qui evoco tutte le forme di complessità: molteplicità di sistemi interagenti, imprevedibilità dei processi, multicausalità e multidirezionalità delle dinamiche, sensibilità alle condizioni iniziali, percorsi a zig-zag, adattamenti/exattamenti, imbocchi di vicoli ciechi, ruolo del caso e delle catastrofi…) e il nostro osservatore potrebbe persino non notare né le scimmie né gli umani se solo rivolgesse per un minuto lo sguardo agli artropodi, semplicemente perché la complessità del pensiero lo attrae meno della complessità delle forme.
Non è contestabile l’accrescimento delle capacità informazionali nel corso dell’evoluzione ma occorre estrema e puntigliosa prudenza a farne il filo conduttore del processo evolutivo: “Se sia lecito definire tutto ciò come progresso è ancora oggetto di discussione”[1]. Il terreno spinoso è quello delle cause e degli effetti e c’è abbastanza letteratura scientifica al riguardo per riconoscere che i meccanismi dell’evoluzione non sono univocamente riconducibili allo sviluppo di specie superiori e che il “mentalismo” umano è un adattamento eccezionale il cui valore adattativo dal punto di vista dell’evoluzione biologica è tutt’altro che evidente, sempre che non abbiano ragione gli ottimisti che non vedono all’orizzonte dell’umanità l’autoestinzione.
Il gioco si complica se consideriamo l’evoluzione culturale tipica dell’uomo dove le capacità informazionali sono sia effetto che causa dell’evoluzione culturale stessa, ma questo è un altro discorso.
A volte il fondo delle cose può essere troppo “sconsolante” per essere visto.

[1] Ernst Mayr, L’unicità della biologia - Sull’autonomia di una disciplina scientifica, Raffaello Cortina Editore, 2005, p. 65.

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