Il percorso che Valerio Tonini[1] definisce per recuperare una ratio cognoscendi che passi attraverso il principio di coniugazione tra i paradigmi esplicativi della realtà (determinista, probabilista, indeterminista, informazionale) per arrivare a una metafisica del dover essere ha molti punti di interesse.
Sono convinto che sia necessario superare, se non altro operativamente, la differenza tra osservatore e realtà osservata. Perché è necessario? Per fuggire da una visione deresponsabilizzante del conoscere e in fin dei conti del vivere. In qualche modo l’uomo ha creato la sua realtà e ne è responsabile, non può, in alcun modo, sottrarsi a questa responsabilità. Non è più tempo di dilaniarsi in ontologie dualistiche dove spirito e materia si contendono il primato. La nostra realtà è intrisa dell’una e dell’altra che reciprocamente si influenzano per definire livelli di organizzazione complessi. Il livello di organizzazione che abbiamo raggiunto ci assegna un ruolo non più demandabile… né al cielo né al denaro, per parafrasare Edgar Lee Masters.
Non mi convince, tuttavia, l’interpretazione finalistica di Tonini in relazione alle capacità conoscitive dell’uomo. L’autore si chiede (pag. 115) “come da un universo senza memoria può insorgere un mondo dotato di memoria, il mondo della vita?” Evocare “la categoria della finalità” (presente esclusivamente nell’umanità per ammissione dello stesso Tonini) per dare una risposta a questa domanda mi pare decisamente arduo sia sotto il profilo logico che sotto il profilo storico. Francamente non sono tanto sicuro che tale categoria possa rappresentare il raggiungimento di un qualche vertice organizzativo.
L’umanità non è affatto “frutto di una evoluzione cosmica” ma uno dei risultati di una evoluzione biologica che si è giocata in una fetta molto piccola di universo, non so se insignificante, ma decisamente molto piccola. Noi umani, non tutti per fortuna, leggiamo l’evoluzione come un processo dotato di una direzione perché piace vederci al termine di un percorso organizzativo, ma nulla autorizza l’uomo a pensare che l’inevitabile (sicuramente non necessario ma anche sull’inevitabilità andrei cauto) risultato di un processo evolutivo sia questo livello di organizzazione raggiunto che tra le sue proprietà (non finalità) ha la autoconsapevolezza. Possiamo apprezzare la Divina Commedia ma il Big Beng non è avvenuto perché venisse scritta. Il fatto che la categoria della finalità sia presente esclusivamente nell’umanità non ne consente l’utilizzo per interpretare i processi di cui l’uomo è il risultato. Infatti è necessario tenere bene in considerazione che in termini di radiazione spaziale e temporale delle specie viventi sulla terra l’umanità rappresenta una porzione ridicolmente piccola e che quei processi di organizzazione che avrebbero portato all’uomo sono gli stessi che portano (contemporaneamente) a migliaia di altre specie che nulla si chiedono (apparentemente).
Si può discutere dell'opportunità operativa di una impostazione finalistica ma non di una finalità a priori, sia pure non prevedibile, che sarebbe intrinsecamente presente nel processo evolutivo dei sistemi organizzati. L’uomo, volente o nolente, ha capacità di esperire e conoscere, è l’unica specie in grado di modificare pesantemente e velocemente l’ambiente che abita, ha costellato di significati noumenici la sua realtà, riconosce la “inderogabile necessità di un procedere insieme”…ecc. ecc. In base a questi indiscutibili presupposti emerge la categoria di una finalità sopraggiunta come elemento fondativo della responsabilità che l’uomo deve assumersi nei confronti della sua stessa specie e delle altre forme viventi. Tuttavia il pensiero di Tonini non è completamente avulso da logiche teleonomiche (pag. 112) che non siano definite sul solo terreno dell'etica e che lasciano adito a pensare a una qualche forma di teleologia epurata. Se la teleonomia è la capacità degli organismi di trasmettere le loro invarianze strutturali (nel senso inteso da Monod) ed è “ristretta esclusivamente a elencare i fini che strutture e attività biologiche soddisfano di fatto”[2], allora non c'è niente da obiettare ma se rappresenta l’uso di fini come spiegazioni causali dei fenomeni o serve per inquadrare la natura umana in un processo dotato di una qualche direzionalità (sarebbe interessante capire quanto reale e quanto percepita da Homo sapiens) allora è inaccettabile.
Detto questo, è di notevole interesse la necessità di riconoscere una “istanza etica” dell’umanità perseguita da Tonini, tuttavia anche in questo campo è necessario saper rifuggire “velleità unitarie” che in nome di un ecumenismo culturale rischiano di tradursi in veri e propri etnocidi. Il contributo di Tonini a superare inutili e infondate antinomie tra natura e spirito si inserisce in un contesto necessario a evitare “la decadenza anarchica di un pensiero cosiddetto debole”, stabilendo legami tra conoscenza, natura biologica ed etica (Logos, Bios ed Ethos direbbero i filosofi) che sono imprescindibili per la realizzazione di una condizione consapevole e responsabile del vivere.
[1] V. Tonini, Corpo e anima. Dall’epistemologia scientifica all’ermeneutica di ciò che è simbolo, Valerio Levi Editore, 1987.
[2] P.B. Medawar e J.S. Medawar, Da Aristotele a zoo, dizionario filosofico di biologia. Mondadori, 1986.
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