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martedì 11 settembre 2018

La cattura del gatto [Note (27)]

L’uomo, come qualunque altro organismo, è adattato a vivere in contesti ambientali che in maniera ciclica e ricorsiva hanno determinato il suo sviluppo e sono stati a loro volta determinati dallo sviluppo della specie umana così come di altre specie. Per quanto Homo sapiens sia una specie estremamente versatile in virtù di una maggiore capacità cognitiva e di una maggiore plasticità delle risposte adattative rispetto ad altre specie non è privo di vincoli naturali alla propria organizzazione.
Uno degli aspetti maggiormente riconosciuti della natura umana, fin da Aristotele, è la sua socialità. L’uomo è fuor di dubbio un animale sociale in senso ecologico, ovviamente senza considerazioni di carattere etico. Non importa la qualità della società umana, importa solo che si tratti di una società, anche se non è più solo un gruppo. Ad ogni modo prima di invocare l’etica sociale sono da considerare aspetti che ritengo primari, di natura biologica sebbene tenuti in gran conto anche dagli urbanisti, ovvero la dimensione delle società umana o più precisamente la dimensione ottimale dello spazio all’interno del quale si realizzano le interazioni tra gli individui con maggiore frequenza e di maggiore intensità[1]. In natura il progressivo addensamento di organismi nello stesso spazio è foriero di grosse perturbazioni nelle dinamiche popolazionistiche e per quanto il sistema sociale umano si sia dotato di numerosi sistemi di compensazione, di carattere etico appunto, per evitare gravi disordini non è difficile osservare lo stato di sofferenza degli abitanti di grossi centri urbani, sia per quanto concerne gli aspetti ambientali ma ancor più gli aspetti prettamente sociali.
L’uomo è un animale sociale ma la sua capacità di gestire l’organizzazione sociale e la sua complessità ha un limite, non si tratta di una gestione puramente amministrativa, che pure è un parametro di notevole importanza, ma della gestione delle proprie emozioni, delle reazioni agli eventi e delle capacità cognitive che fanno capo a un processo di sistematizzazione delle esperienze e di disposizione ordinata e ragionevole delle priorità nei valori della propria esistenza. La salute della complessità organizzata nelle grandi città è un fenomeno di mesoscala ma a scale più fini c'è il tripudio del dolore. Come in un bicchiere d’acqua le molecole gli individui costituiscono entità con oscillazioni caotiche che collettivamente si smorzano, è questo l’ordine che vediamo ma se ambiamo a quell’unicità tra le specie viventi che tanto declamiamo non dobbiamo essere fisici che osservano il bicchiere d’acqua ma il diavolo di Maxwell che sa discernere tra le particelle.
La complessità, ultima frontiera dell’orgoglio sapiens, non ha un limite se non nella capacità dell’uomo di districarsi tra i nodi del grafo sociale che da sé ha creato, forse in maniera inconsapevole.

[1] In base agli studi sul comportamento sociale dei primati, lo psicologo Robin Dumbar e l’antropologo Leslie Aiello hanno stabilito che fra i primi Homo sapiens i gruppi contavano da 90 a 220 individui, in cui ogni individuo conosce tutti gli altri. Tali studi, condotti nel contesto dell’evoluzione del linguaggio e delle prime comunità di raccoglitori-cacciatori, hanno implicazioni riguardo all’organizzazione delle comunità umane odierne caratterizzate da notevoli dimensioni. Considerando la gran quantità di generazioni in cui i nostri antenati sono stati cacciatori-raccoglitori (circa 250.000), rispetto ai primi segni di una organizzazione sociale moderna (circa 400 generazioni dalla rivoluzione agricola di 10.000 anni fa) l’evoluzionista Ehrlich afferma che “è sensato presumere che qualunque sia il grado in cui l’evoluzione genetica ha modellato l’umanità, è stato in larga misura per adattarla alle attività di caccia e raccolta: lo stile di vita dei nostri antenati pre-agricoli”. (Cfr. Paul Ehrlich, Le nature umane, Codice Edizioni, 2005, p. 193, 205, 214-215).

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