La disproporzione del femminile è nell’abisso che lega indissolubilmente vita e morte. Della donna l’uomo invidia la possibilità di dare la vita e ne teme l’immagine speculare, la morte. La geometria del rapporto tra uomo e donna è inscritta nel diverso rapporto con la morte e con il corpo. La donna sperimenta sul proprio corpo la morte, ciclicamente. Il passaggio alla condizione adulta è segnato da un trauma. Poco più che bambina ha paura di morire, il sangue la segna e ogni mese il segno ritorna. La donna si misura continuamente con la morte, fino a quando la sua fertilità ha un termine. L’uomo passa nella condizione adulta quasi senza accorgersene e per molti il passaggio resta un mistero! La fertilità dell’uomo resta potenzialmente attiva per tutta la vita e l’assenza di un termine lo illude di immortalità. Sono differenze decisive. La donna conosce la morte, impara a conoscerla. All’uomo è dato solo temerla.
Della conoscenza della morte, che è della donna, l’uomo ha paura. L’uomo non sopporta che la donna possa dare la vita e teme chi conosce la morte. Questo rende molti uomini portatori di morte.
La donna è terra e luna, ne segue i ritmi e li detta e quando ignora o dimentica la sua antica sapienza diventa una banale imitazione dell'uomo. L'uomo non è il sole ma vive per tutta la vita credendo fermamente di esserlo.
Due parole iniziali che non c’entrano niente col post (o forse si, visto che la concezione della donna che predomina oggi è quella cattolica): ho firmato la petizione nel dorso destro del tuo blog, sono d’accordo con quello che scrivi e credo necessario che ci facciamo sentire sempre più forte per arginare questo riflusso di medioevo che avanza.
RispondiEliminaDici bene, la donna ha inscritte nel suo fisico esperienze fisiologiche differenti da quelle di un uomo: la possibilità di procreare (non fu così scontato collegare il contributo dell’uomo e della sessualità alla nascita dei bambini) e la ciclicità del mestruo con quella sua traccia di sangue (non a caso i riti di passaggio nel mondo adulto riguardavano soprattutto i ragazzi, mentre le ragazze imparavano tutto ciò che serviva loro nel gineceo).
Ma anche questi semplici accadimenti biologici sono stati letti in maniera differente nelle varie culture e molto spesso noi non abbiamo a che fare con delle evidenze che affondano le proprie radici in questi semplici e universali eventi, ma con le loro interpretazioni culturali, religiose o sociali.
Il ricorso al fare, piuttosto che al pensare, l’identità di genere, non hanno molto a che vedere con la biologia, almeno non direttamente, sono delle assunzioni culturali, delle costruzioni personali dell’individuo e non dei retaggi biologici o somatici o genetici.
Per cui è nella nostra cultura (e nella struttura personale) che la donna sia meno propensa alla violenza, non tanto perché è madre o perché elabora la morte o la conosce più di un uomo, ma perché la nostra cultura biasimerebbe molto di più la violenza femminile rispetto a quella maschile. Pensa a quanto ribrezzo ci può fare una Medea che uccide i propri figli, mentre pur essendo ugualmente terribile, è più nell’ordine delle cose un padre che uccida il proprio figlio; e questo anche se storicamente la donna è stata chiamata più spesso dell’uomo a compiere questo terribile gesto, nelle nostre campagne, quando infuriava la fame e la carestia, alcuni bambini venivano abbandonati o lasciati morire di fame (si faceva una selezione dolorosa) perché era impossibile sfamare tutti i nuovi nati.
Riguardo alla paura della morte, qualche anno fa ho assistito nei suoi ultimi giorni di vita insieme ai suoi figli in un letto di ospedale una donna che mi aveva semplicemente adottato come suo nuovo figlio dal primo momento in cui ho messo piede in casa sua; la paura della sofferenza, del dolore, dell’ignoto, di stare per affrontare gli ultimi istanti della sua vita e la fine li ho letti tutti nei suoi occhi, li ho percepiti nel suo cercare la mia presenza disperatamente in alcuni momenti di sconforto, li ho sentiti nel tremito delle sue mani quando gliele stringevo.
Ciao
L'ultimo paragrafo me lo copio. E' la splendida sintesi di tutto il post.
RispondiEliminaHo firmato anch'io la petizione.
Ciao Anto', mi dispiace non saper fare un degno commento a questo tuo interessante post, non ne sono capace.
RispondiEliminaSul berlufolle mi sono trattenuto fino alle 19.35 di venerdì 11/1 poi non ce l'ho fatta più e un'ora dopo mi son dovuto sfogare.
Chiedo scusa se non sono riuscito a fare meglio.
Un caro saluto,
aldo.
Ho atteso un po’ a scrivere questo commento perché speravo ci fosse l’intervento di qualche donna. Pazienza, vorrà dire che ci stanno lasciando giocare sperando di non dire troppe sciocchezze sul loro conto ;-)
RispondiEliminaQuello che ho scritto è una variazione sul tema di qualche appunto che avevo già sviluppato in precedenza con un linguaggio che mi consentiva maggiore profondità.
Garbo, sono cresciuto in una famiglia che posso definire matriarcale anche se i padri non hanno avuto un ruolo secondario. Quello che conosco sull’universo femminile lo attingo da quel pozzo profondo da cui non posso che pescare con il secchio dell’esperienza e della cultura, un secchio pieno di buchi ma non ho altro. E’ vero che la biologia femminile viene letta attraverso la lente della cultura ma proprio per questo mi sono tenuto lontano da quel “campo minato” che è la maternità con tutti i “buoni sentimenti” che questa comporterebbe e sono rimasto nell’alveo del rapporto della donna con il proprio corpo, forse proprio ciò da cui un uomo dovrebbe tenersi a rispettosa distanza. Un’intelligenza acuta come quella di Virginia Woolf pensava che i pregiudizi maschili nella biologia fossero talmente pericolosi da farle rifiutare la scienza in toto facendole scrivere che “non è asessuata: è un uomo, è un padre e per di più infetto”. Sulla maternità sono state scritte tante sciocchezze, non solo dagli scienziati, in relazione a quella matrice patriarcale cui tu fai riferimento. Un libro chiave per spazzare via molti pregiudizi al riguardo è Istinto materno. Tra natura e cultura, l’ambivalenza del ruolo femminile nella riproduzione della specie, Sarah Blaffer Hrdy, Sperling & Kupfer, 2001.
La stessa Medea è rimasta vittima di quel rovesciamento culturale che ha relegato la donna al ruolo riproduttivo laddove l’uomo si è appropriato del ruolo produttivo. Penso al mito di Medea non come viene raccontato dalla vulgata ma come è conosciuto da tempo negli studi classici e che il romanzo Medea. Voci di Christa Wolf ha fatto conoscere al grande pubblico. Quindici talenti d’argento furono il compenso per Euripide perché manipolasse la storia di Medea, per farla passare per una infanticida quando in realtà tutto dice che gli abitanti di Corinto le avevano massacrato i figli. In quella vicenda si intrecciano due culture di diversa matrice, quella patriarcale di Corinto e quella matriarcale della Colchide. La storia dell’uomo è sempre stata scritta dagli abitanti di Corinto ma, che sia nota o meno, ho la sensazione che sia fatta da quelli della Colchide.
Sulla paura della morte scrivo che la donna impara a conoscere la morte, che si misura con la morte, non dico mai che non la teme, dico che all’uomo è dato solo temerla. In questi termini potrei parlare del femminile piuttosto che della donna. Nella misura in cui ci si confronta consapevolmente con il dolore, nella misura in cui il dolore diventa metrica del tempo che batte le ore sul proprio corpo allora ci muoviamo in quel territorio che chiamo femminile. Per quanto riguarda il gran finale non credo sia tema di conoscenza e temo che quando saremo prossimi conoscere o meno sarà di poco aiuto. Un abbraccio
Alberto, sono contento ti sia piaciuto e sono sicuro che se lo metti sul tuo blog avrà certamente più lettori di quanti non ne abbia nel mio ;-)
Aldo, grazie della visita. Sono sicuro che la tua lunga esperienza ne abbia di cose da dire su questo tema, solo che vuoi tenere il segreto per te ;-) Un saluto a te.
Mi ha fatto enormemente piacere imbattermi in questo post che trasuda rispetto per le differenze e ne coglie aspetti profondi e poco tenuti in considerazione, soprattutto dagli uomini. Come hai scritto nel commento, della maternità è stata fatta tanta retorica soprattutto di matrice religiosa, mentre è stata trascurata l'ambivalenza del vissuto della donna il cui corpo diventa per nove mesi il contenitore di un'altra vita, sconosciuta. Non si tratta di un'esperienza di sola luce; la gravidanza è un'incognita e un'esperienza che porta con sè ombre,inquietudine, spavento. Certo anche orgoglio. Ricordo la sensazione di 'trionfo' subito dopo la nascita dei miei figli.
RispondiEliminaHai sottolineato l'invidia maschile per la capacità della donna di dare la vita. Siamo abituati a sentir parlare d'invidia del pene, e quanto hai scritto apre una prospettiva abbastanza inedita.
L'idea che l'uomo sia portatore di morte perchè non conosce il potere di dare la vita può essere condivisibile. Certamente vi è una componente culturale legata ai ruoli, e alle trasformazioni di questi nei tempi recenti, che fa da detonatore di un potenziale aggressivo di matrice biologica, sicuramente maggiore rispetto alla donna. Ma questo è un tema che meriterebbe un approfondimento a parte.
Grazie.
invecedistelle, sono io a ringraziarti per questo commento, mancava una voce femminile. Ti ringrazio anche per avermi dato modo di scoprire il tuo blog.
RispondiEliminaHai scritto questo post mentre io iniziavo con fatica "Della seduzione" di Baudrillard. E sì, la donna è terra e luna, la donna è custode e sacerdotessa del limen tra la vita e la morte, la donna è in bilico sulla soglia del mist, è un altrove impalpabile, che spaura, perturba, dà le vertigini.
RispondiEliminaScrive Baudrillard: "Ha ragione Freud: c'è una sola sessualità, una sola libido - quella maschile. La sessualità è una struttura forte, discriminante, incentrata sul fallo, la castrazione, il nome del padre, la rimozione. Non ce ne sono altre. Non serve a nulla, all'interno di questa struttura, voler far passare il femminile al di là della barra e confondere i termini: o la struttura rimane la stessa - tutto il femminile è assorbito dal maschile - o essa sprofonda e non esistono più né femminile né maschile (...). Per quanto riguarda il femminile, la trappola della rivoluzione sessuale consiste nel chiuderlo in quest'unica struttura, dove è condannato alla discriminazione negativa, quando la struttura è forte, o a un trionfo derisorio nella struttura indebolita. Ma il femminile è altrove, è sempre stato altrove: è questo il segreto della sua potenza."
Cara Cri tu mi trascini in un altro campo minato, quello della seduzione dove il genere, maschile o femminile, può essere addirittura irrilevante! Dovrei leggere Della seduzione per risponderti adeguatamente ma da quel poco che so mi pare che per Baudrillard nel terreno della seduzione le distinzioni dei corpi diventano aleatorie, i confini anatomici perdono rilevanza e l'economia fallica collassa! Mi lascia perplesso quindi l'incipit della tua citazione ma, ripeto, non conosco l'opera come dovrei. Forse Freud ha ragione considerando l'appiattimento culturale della sessualità intorno alla figura maschile, e in questi termini potrei essere d'accordo anch'io, ma se ci spostiamo nel mondo animale, che è privo di quegli elementi culturali della specie umana, allora potremmo sorprenderci di dover rovesciare l'affermazione riportata da Baudrillard: "c'è una sola sessualità, quella femminile". I biologi evoluzionisti la chiamano selezione sessuale e solitamente è la femmina ad esercitarla. Ora, per quanto io ami psicologi e filosofi, mi capirai se proprio non riesco a guarire dalla mia deformazione professionale. ;-)
RispondiEliminaUn saluto.