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lunedì 15 novembre 2021

Altre geometrie

I giorni erano frutta nel piatto al centro della tavola, il piatto aveva offerto secoli di sole spietato e inattese nevicate che avrebbero accolto i morti e cacciato di casa i vivi, in cerca di pane in terre sconosciute. La gente usava parole che non avremmo capito, il tempo ce le avrebbe insegnate, il tempo le avrebbe portate via. Era destino di famiglia partire con la neve. Era maturo il giorno, spiga di grano da mietere con la falce di un tramonto caldo, ultimo dissenso dalle tradizioni di casa. 
La lama di luce taglia occhi violati dagli sguardi desiderati lungo il cammino di una vita breve.
Assi cartesiani o dell'esattezza disponibile


 

U jentu osci scata nfacce
comu nu cattu rrabbiatu
caccia l'ugne mpacciutu
Cerchi a mantagnata
cu lu ncarizzi nu picca
Te rispunne 'vabbanne
ci nu boi te scaranfu'
mina polvere intra l'occhi
e se ne fuce.
E sciurnate te jentu forte
sapune te lumìa susu i tisciti
quannu ti rusichi
e la carne te usca
finu intra l'osse
...




E poi c'è il vento caldo che soffia sulla faccia e i lenzuoli che sbattono senza tregua sui terrazzi, bandiere di quotidiane guerre senza vincitori, i cumuli di foglie che vorticano agli angoli della strada, il cielo è un ricordo, incerto se fermarsi o correre via, un passante scambia un saluto con una foto che sorride sul sagrato della chiesa, il tempo dondola sui rami... ordinario novembre.




Aprire una finestra nel muro
come si aprono gli occhi la mattina,
un tentativo cisposo di accogliere la luce,
mendicante in cerca di riparo.

Oggi il mare ha tanto da dirgli, nessuna parola,
solo onde e tempo che ribollono sugli scogli.

Forse le foglie cadute formano un disegno. Forse l'autunno parla una lingua che non conosciamo. Dopotutto basterebbe cercare i punti, unirli, combinare le forme con un qualche senso che sia compatibile con la nostra stessa esistenza o che non strappi la rete di utili menzogne. Follia forse, ma non è quello che facciamo per tutto il tempo che ci è dato vivere?



Nel museo vivente dei quartieri popolari, dove le muse sono di casa, si cammina tra elfi di rugiada dormienti su arabeschi di ombre e orizzonti di tetti diruti. Nel silenzio domenicale si svegliano angoli di Roma che in altri giorni restano soffocati dal rumore dei motori che soffoca anche la memoria ma quello che più di tutto si imprime negli occhi e nelle orecchie sono i discorsi da balcone a balcone, spesso fatti di poche frasi scambiate tra donne che hanno conosciuto il quartiere quando era ancora giovane. Di quei discorsi non si hanno foto che non siano frutto dell'immaginazione.
- oh ciao, pensavo fossi partita?
- e ndo annavo? Na vorta de sti tempi annavo a raccoje l'olive ma mo nu je la faccio.
- come nu je la fai? Sei giovane.
- eh giovane sì!

Cosa porti nella valigia quando parti per tornare nel tuo paese? porti le parole che volano come zolle di terra dalle ruote dei trattori. Porti una fila di formiche che salti per non disturbare la processione sacra. Una valigia stipata di amuleti e talismani che non si chiude neanche saltando sopra con tutto il peso delle generazioni, una valigia che porti dietro soltanto nei viaggi di ritorno... Esisteranno altri viaggi che non siano di ritorno?


Si queris miracula nel cancello di una cappella, si cammina sui volti lisci di marmo delle lastre tombali, sulle colonne immagini sbiadite. In pochi passi la storia del mondo, poi si esce all'aperto per distrarsi un po'.

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