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sabato 15 dicembre 2018

Incredulità

Il sole di settembre, abituato ai lenti pomeriggi estivi, indugiava sulla linea del tramonto, incerto se trattenersi ancora o passare dall'altra parte della linea dell'orizzonte. Due ombre lunghe camminavano insieme, mano nella mano. - Siamo arrivati? chiese una - Sì, rispose l'altra con un velo di tristezza che le passava sugli occhi - E' l'ultima porta - Già - Fammi entrare insieme a te, implorò una delle due ombre - Non pensarci nemmeno, rispose perentoria l'altra - Se entri non potrai più uscire e io non voglio che tu entri, non ancora. Io vado avanti, ti dirò com'è - Se è brutto non me lo dirai, lo so - Perché deve essere brutto? Non è niente. Si scivola. Come addormentarsi e io ho tanto sonno. Tu non hai sonno, non devi averne - Devo tornare indietro da solo. Troverò la strada? - La troverai, sarò con te per suggerirtela ogni volta che la perderai - Mi mancherai - Da oggi in poi non saremo mai stati più vicini - Ci vedremo presto? - E' questione di tempo. Prenditi cura di te, sei il mio ricordo più grande - Lo farò ma non chiedermi di non piangere.
Quel pomeriggio pioveva tempo, ne veniva giù tanto, più di quanto non ne cade in interi anni. Quel pomeriggio il tempo veniva giù a dirotto, il tempo di una o più vite. Non ebbi modo di sapere quante.
Il giorno era passato, fitto come pochi di incroci di possibilità e strade che non potevano essere percorse e che si aprivano come ferite nella carne che non sarebbero più rimarginate. Il tempo si comprimeva, come corpo stritolato da una macina, il succo amaro gocciolava, distillato di fiele da bere fino in fondo.  
***
Ricorre quel giorno che incredula chiedesti a una suora se davvero era tuo quel bambino che ti dormiva tra le braccia, "Benedetta ingenuità!", rispose la suora. Oggi le nostre incredulità si toccano e si capovolgono. Allora tu non riuscivi a credere che io fossi nato, oggi io non riesco a credere che tu sia



giovedì 13 dicembre 2018

Di duol ci satolliamo ambi

     Io, pensando tra me, l’estinta madre
Volea stringermi al sen: tre volte corsi,
Quale il mio cor mi sospingea, ver lei,
E tre volte m’usci fuor delle braccia,
Come nebbia sottile, o lieve sogno.
Cura più acerba mi trafisse, e ratto,
Ahi, madre, le diss’io, perchè mi sfuggi
D’abbracciarti bramoso, onde anco a Dite,
Le man gittando l’un dell’altro al collo,
Di duol ci satolliamo ambi, e di pianto?
Fantasma vano, acciò più sempre io m’anga,
Forse l’alta Proserpina mandommi?
     O degli uomini tutti il più infelice,
La veneranda genitrice aggiunse,
No, l’egregia Proserpina, di Giove
La figlia, non t’inganna. È de’ mortali
Tale il destin, dacchè non son più in vita,
Che i muscoli tra sè, l’ossa, ed i nervi
Non si congiungan più: tutto consuma
La gran possanza dell’ardente foco,
Come prima le bianche ossa abbandona,
E vagola per l’aere il nudo spirto.
Ma tu d’uscire alla superna luce
Da questo bujo affretta; e ciò, che udisti,
E porterai nell’anima scolpito,
Penelope da te risappia un giorno.

Omero - Odissea, Libro XI, vv. 265-290
Traduzione di Ippolito Pindemonte (1822)