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domenica 19 maggio 2013

Il nuovo analfabetismo

Una ricerca condotta dell'OCSE qualche tempo fa affermava che metà degli italiani non comprende quello che legge, è il cosiddetto analfabetismo funzionale.
Dura lotta quella contro l'analfabetismo in Italia, ma oggi non sono più i tempi del Maestro Manzi che nella trasmissione Non è mai troppo tardi insegnava all'Italia degli anni '60 come leggere e scrivere. Oggi la faccenda è più seria. L'analfabeta di oggi è istruito, e non è solo italiano, è cosmopolita, o sarebbe meglio dire globalizzato!

L'analfabetismo di oggi è peggiore di quello che caratterizzava il dopoguerra italiano perché è un analfabetismo che presume di sapere e che rovescia l'assunto socratico che da sempre è stato a fondamento della conoscenza, se non altro perché la conoscenza si nutre di ignoranza ed è difficile immaginare che il contrario possa dare gli stessi frutti. L'analfabetismo di oggi invece si nutre di tecnologia avanzata usufruita a basso livello, nel senso che si è utenti finali e passivi di tali strumenti. Spesso si tratta di strumenti che anziché aprirci a nuove esperienze dello spirito e della conoscenza creano una sorta di strato impermeabile intorno a noi, pur dando l'illusoria convinzione di estendere il nostro io. Non sono gli strumenti ad essere usati da noi ma il contrario, siamo protesi dei nostri strumenti, dispositivi nati e cresciuti per tenerli in funzione. La massima di Dawkins secondo cui noi siamo veicoli dei nostri geni subisce una terribile "evoluzione" che mostra in maniera tragica quale sia l'esito di una umanità che rinnega la paralizzante complessità emotiva che la caratterizza e che diventa sempre meno capace di gestire la complessità che si è andata determinando con l'avanzamento delle conoscenze tecnico scientifiche e del "progresso" economico.
Non vedere l'attività economica come strumento di una società alla ricerca del benessere bensì come primum movens di ogni possibile progresso sociale ci ha condotto a una sottovalutazione della enorme complessità che regola le relazioni sociali, riducendo la ricchezza fatta di galassie emotive, sistemi di valori, credenze, tradizioni, speranze e progetti che si sviluppano su scale intergenerazionali all'unico equivalente generale del profitto da misurare in termini quantitativi e inequivocabili, qui e adesso. Ogni recesso di indeterminatezza, che è molteplicità del possibile, è bandito in nome di una univocità quantitativa che misura sull'asse dei costi (e se va bene dei benefici) ogni valore etico e estetico. La semplificazione utilitaristica ha perso l'originaria multidimensionalità del messaggio insito in qualunque attività di scambio, per essere assoggettata alla necessaria esigenza della traducibilità matematica. Il messaggio una volta semplificato si è ridotto all'alfabeto, ha rinunciato al "di più" originale e infine ha perso ogni legame con la propria origine. L'unico elemento sopravvissuto del messaggio è l'alfabeto. E' rimasto solo l'alfabeto e la convinzione che non vi sia altro che l'alfabeto per comunicare e non ci sia altro da comunicare che le lettere dell'alfabeto. Il modello che doveva servire per descrivere il nostro mondo è diventato il nostro mondo.
Questa nostra era della complessità si sta misurando con il contraltare della semplificazione. Una semplificazione che non ha più valore metodologico indirizzato alla traducibilità matematica essenziale al discorso scientifico. Il rapporto dialettico tra semplificazione e complessità si è interrotto, la semplificazione che vedo non è foriera di ulteriore complessità ma di una regressione mascherata da progresso.

Non c'è alcuna garanzia che la complessità abbia una sola direzione, in aumento, può anche diminuire e crollare a stadi inferiori. Può accadere per gli organismi viventi, può accadere anche più rapidamente  per i sistemi sociali, come hanno mostrato Jared Diamond e Joseph Tainter. La nostra società presenta aspetti della complessità sicuramente in aumento rispetto alla società di due secoli fa, ma si possono citare casi in cui la complessità ha avuto un crollo. Si pensi alle lettere di un tempo e alle mail o sms di oggi. Quale verso ha imboccato la complessità? La risposta non è affatto univoca, ma spesso sottolineiamo gli aspetti della complessità che mettono in luce i risultati del progresso che ci vede protagonisti. Su quali basi possiamo affermare che una conversazione in una cabina di una locomotiva di un tempo sia meno complessa della scena che oggi vediamo nei convogli superveloci? I convogli oggi sono saturi di universi lontanissimi, di gente intenta a scrivere sms che non riesce a inviare, di suonerie singhiozzanti dei cellulari, di ragazzi immersi nella musica con cuffie che disturbano i vicini, di insistenti "pronto, pronto, perché non mi senti?", di fastidiosi annunci pubblicitari che declamano fantastici confort di cui gode il viaggiatore nel treno freccia rossa (ovviamente fatti salvi i comfort del silenzio e della buona educazione). Se la misura del nostro progresso è la complessità, allora c'è stato uno spostamento di questa dalle relazioni umane ai dispositivi che utilizziamo (o che ci utilizzano). La complessità caratterizza sempre più i nostri strumenti e sempre meno noi stessi, i nostri comportamenti e il nostro linguaggio quotidiano. Il prezzo delle indubbie conquiste sul piano del riconoscimento delle libertà individuali è l'isolamento. L'analfabetismo di oggi è l'anaffettività. La complessità del nostro apparato emotivo lascia il posto alla complessità di quelle che sarebbero dovute essere le nostre protesi, le estensioni dei nostri sensi, e sono diventate l'espressione manifesta della nostra incompletezza.
Del resto non scopro nulla di nuovo, aveva già detto tutto Günther Anders riguardo la vergogna prometeica e prima di lui Karl Marx riguardo l'alienazione, il feticismo delle merci e la perdita del significato della propria azione.

12 commenti:

  1. Questo post è straordinario, ti leggo sempre con attenzione e non trovo mai pensieri banali, ma in alcuni casi mi sento più coinvolto e lo stimolo alla riflessione che hanno certi tuoi scritti è maggiore, come in questo caso.
    Mi ero sempre chiesto come mai ad esempio You Tube mi suggerisse di vedere alcuni filmati solo perché ne avevo visti altri, talvolta la similitudine era semplicemente assurda e non mi ritrovavo nelle proposte che mi venivano suggerite … non avevo idea che tutto questo fosse opera di un algoritmo che molto grossolanamente cerca di presentarmi ciò che ritiene potrebbe interessarmi tramite assonanze banali fra ciò che io visualizzo e ciò che lui ha in archivio … se ci rifletto bene la questione è agghiacciante e la limitazione che ne deriva mi impoverisce mistificandomi, dandomi l’illusione di una libertà sconfinata, senza precedenti.
    Altra questione è quella dell’analfabetismo, su cui ormai i criteri utilizzati nel passato anche prossimo, sono insufficienti a farci comprendere cosa sta accadendo; anche chi dovrebbe comprendere il fenomeno è avviluppato dentro lo stesso fenomeno, molto spesso le scienze sociali partecipano con i loro presupposti e con i loro strumenti a questa sorta di ignoranza.
    Per quanto mi riguarda non è raro trovare persone molto più informate di me sull’esistenza e sul funzionamento di novità tecnologiche, e non solo, anche nell’ambito della disciplina che esercito ogni tanto vengo a conoscere casualmente delle novità mirabolanti di cui ignoravo l’esistenza; mi sono fatto l’idea che l’analfabetismo non consista sul flusso di certe informazioni, ma riguardi l’investimento affettivo sugli oggetti che capitano nel nostro campo esistenziale.
    L’uomo moderno può essere ricco di informazioni sulle cose, ma povero di investimenti affettivi sulle cose stesse, ne conosciamo bene il funzionamento ma non ci affezioniamo agli oggetti anzi, evitiamo accuratamente di amare le nostre cose perché queste possano essere intercambiabili e lasciare spazio a breve ad oggetti ancora più innovativi.
    Questa intercambiabilità e questa scarsa affezione vale anche nei rapporti umani: nel caleidoscopio di oggetti che possono essere miei dove il nuovo è considerato sempre più all’avanguardia rispetto al vecchio e quindi più appetibile ci stordisce rispetto alla mancanza di affettività, di reciprocità e di profondità che ci fanno paura).
    L’oggetto (o l’altro) ci da “ l'illusoria convinzione di estendere il nostro io”, narcisisticamente, nel senso che ci illudiamo di accrescere il nostro valore attraverso di lui, è la “cavallinità” di Epitteto, del ricco patrizio romano che acquistava un cavallo superbo credendo così che quel cavallo valorizzasse anche lui, è il “Jonathan Falco” di Briatore, un figlio così, che deve avere solo il meglio o tutto ciò che non ho avuto io non è un investimento affettivo, ma un investimento narcisistico esiste affinché mi dia lustro, a costo di sacrificare il suo essere sostanzialmente diverso da ciò che sono io.
    (segue)

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  2. Ma non si tratta soltanto di narcisismo, l’oggetto molto spesso non mi fornisce solo un valore, ma mi da identità, è un modo semplice e semplicistico di avere un’identità spendibile e riconosciuta, che però non implichi alcuna responsabilità che non sia superficiale.
    Sono le identità di facciata, quelle superficiali, quelle più attinenti ad un nuovo look, che si possono acquisire senza grande fatica ad essere oggetto di questa ricerca; ci si identifica con una classe o con un gruppo sociale, con una terra d’origine, con l’appartenenza ad una classe o ad un creo religioso, con un colore della pelle o con altri caratteri somatici distintivi, con un’identità di genere assunta (essere etero o omo-sessuali), con una presunta acculturazione (il fatto di saper coniugare correttamente un condizionale o l’aver frequentato certe scuole o aver conseguito dei titoli di studio o dei titoli onorifici), è incredibile la quantità e la qualità delle cose con cui possiamo identificarci e che ci danno una parvenza di identità riconosciuta.
    L’analfabetismo, allora, non è più essere a digiuno di nozioni, non conoscere il funzionamento delle cose, ma il saper vivere, perché ogni sapere è o dovrebbe essere saper vivere, perché possiamo sapere perfettamente come funziona un I-pod e non conoscere chi siamo e qual è il senso della nostra vita … se poi identificassimo il chi siamo e il senso della vita con l’uso e col possesso dell’I-pod allora la mistificazione sarebbe perfetta.
    Non è facile questa conoscenza di sé, perché non è semplice conoscenza, ma costruzione di un sé, e ogni lavoro fatto sulla viva carne di noi stessi comporta sofferenza altrettanto viva, mentre presi nel carosello degli innumerevoli oggetti possiamo, se siamo fortunati, non entrarci mai in questo tipo di sofferenza, possiamo non aprire mai quel cantiere, pagando questa misconoscenza con un senso di vuoto, di nulla che ci avvolge quando non abbiamo alcun giocattolo nuovo fra le mani, e con angosce molto acute, oceaniche e devastanti, in particolari momenti di fragilità che attraversiamo, che per fortuna possono essere messe a tacere da farmaci molto potenti o da terapie che ti danno una riaggiustatina, un restyling, che non tocca alcuna delle corde che sorregge questi sé fittizi che mettiamo al posto di ciò che dovremmo essere.
    Ma, siamo in buona compagnia in questo, da qualche secolo a questa parte tutto il pensiero occidentale e la concezione di scienza che possediamo ha tentato con successo di eliminare il soggetto dal suo oggetto d’indagine, la presunta replicabilità e l’asetticità della scienza, per cui il soggettivo è un fenomeno inquinante, ci hanno consegnato una scienza sterile, di cui non riusciamo più ad appropriarci e tutto sommato squallida.
    La concezione dell’attuale fisica astronomica, della composizione degli astri come amalgama di energia e di massa non è più “vera” della concezione dantesca dell’ “amor che move il sole e l’altre stelle”, è solo molto più desolata e pietrificata e soprattutto non mi dice più nulla a livello emotivo.
    Per avere l’idea di quanto la scienza sia distante dal soggetto basti pensare alla Psicologia, che dovrebbe essere la scienza del soggetto per eccellenza, invece sfogliando qualsiasi manuale di Psicologia Generale il soggetto viene ridotto a funzioni: memoria, apprendimento, percezione, sentimenti, ecc.
    E in letteratura o in poesia non è che vada molto meglio, tutta l’opera di Pirandello, fra i più grandi drammaturghi della letteratura moderna, è un atto d’accusa sull’assenza del soggetto: a Vitangelo Moscarda (protagonista di Uno, nessuno e centomila) basta che la moglie gli faccia osservare che ha il naso un po’ storto per scatenare in lui una profondissima crisi identitaria.
    Ciao

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    1. Caro Garbo, i tuoi commenti sono ricchi di spunti per discutere quanto tu dici dei miei post. Il discorso dei filtri cognitivi non è una novità (perdonami se metterò dei rimandi ad altri post ma è per non dire le stesse cose). Quello che rende peculiare la situazione con gli strumenti che abbiamo a disposizione oggi è l’illusione di avere una apertura incondizionata, illusione dettata da un innato bisogno di “libertà” malintesa che cercherò di illustrare brevemente. Chi fa una ricerca nelle biblioteche è perfettamente consapevole dei vincoli nei quali si muove, sa che gli autori che cerca gli sono noti perché altri autori li hanno citati e sa che ci sono autori che non cercherà perché non sono stati citati, ma sa che esistono. La ricerca che conduce è una rete costruita con le proprie mani ed è consapevole che la dimensione della rete che sta realizzando è più piccola di quella esistente. Questa costruzione richiede tempo che è esso stesso un vincolo, richiede spazio perché il numero di biblioteche consultate non può essere infinito. Una ricerca sul web schiaccia tutto questo, comprime il tempo e lo spazio in una dimensione virtuale e quelle che per Kant le forme dell’intelletto non rappresentano più dei limiti. Aggiungi l’idea del tutto infondata che in internet c’è tutto, persino la data della nostra morte, e ottieni quell’illusione di cui parlo. Non voglio sminuire gli indubbi vantaggi del web, questa finestra sul mondo non smette di meravigliarmi, ma mi preoccupa la sottovalutazione o addirittura l’inconsapevolezza delle sue caratteristiche. La velocità del web, la possibilità di conoscere immediatamente ciò che accade adesso dall’altra parte del mondo creano quel concetto di “libertà incondizionata” che è un monstrum del pensiero oltre che un ossimoro. Non conosco libertà che non si dia delle regole e che non abbia dei vincoli, dei limiti, la “libertà incondizionata” è un’espressione imprudente per parlare dello sbadigliante caos. Dicevo all’inizio che i filtri cognitivi sono cosa nota, dettati da preconoscenze, contesto culturale in cui ci formiamo, contingenze, per cui non dovrebbe sorprenderci il fatto che il web, che applica molte delle conoscenze della neurobiologia, funzioni in base ad un algoritmo che costruisce un profilo sulle nostre frequentazioni. E’ come se un libraio ci osservasse mentre sfogliamo i libri della sua libreria, annotasse il tempo di consultazione per ogni libro e ogni volta che entriamo nella sua libreria allestisse uno scaffale in base alle nostre “preferenze”. Quell’algoritmo fa questo e lo fa con la potenza di calcolo e capacità di memorizzazione molto più elevate del nostro libraio perché non deve scegliere tra centinaia di libri ma deve decidere l’ordine da dare ai milioni di siti evocati dalla ricerca in rete. Ma per quanto potente quell’algoritmo è un modello semplificato delle funzioni cognitive, è dimenticare che si tratta di un modello semplificato che lo rende una gabbia cognitiva (ed emotiva) e, sono d’accordo con te, la questione è agghiacciante ma senza quell’algoritmo non avremmo un motore di ricerca ma un generatore casuale di siti.
      (segue)

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    2. Riguardo l’analfabetismo e l’accezione che gli do e sulla quale ci troviamo d’accordo ho mancato di citare Umberto Galimberti nel post. Lui ha dedicato pagine molto intense all’analfabetismo emotivo nel suo “L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani” per non parlare del monumentale “Psiche e Techne. L'uomo nell'età della tecnica” dedicato al rapporto tra l’uomo e la sua “estensione” tecnica, o sarebbe meglio dire che tratta del (dis)adattamento dell’uomo alla propria evoluzione. Riguardo al rapporto con le cose e all’investimento affettivo abbiamo bisogno di una teologia del consumo caro Garbo, non è una bestemmia, si tratterebbe di mettere in chiaro qualcosa che lavora in sottofondo. Gunther Anders, nel secondo volume di “L’uomo è antiquato” diceva a proposito della produzione industriale che “la mortalità dei suoi figli è la garanzia della sua immortalità e della nostra.” Questo concetto andrebbe sviluppato per costruire una teologia del consumo che ci permetterebbe di capire molto della nostra società. Del rapporto tra religione e capitalismo se ne era già occupato Walter Benjamin e prima di lui Max Weber, forse il loro discorso può essere soggetto a critiche dal punto di vista storico, vedi appunto i rilievi di Epitteto e ancora non si parlava di capitalismo, ma quel discorso non ha ancora finito di dire tutto quello che aveva da dire.
      Gli antropologi chiamano cultural gap la resistenza, il rifiuto psicologico alle innovazioni ma la velocità della produzione delle cose ha innescato una sorta di reazione uguale e contraria, una specie di accettazione incondizionata, catatonica, una “obbedienza cadaverica” di triste memoria. Il prezzo per stare al mondo oggi è investire poco in tante direzioni, una sorta di diversificazione del “portafoglio emotivo” che ogni agente di borsa non mancherebbe di consigliare, per evitare contraccolpi del mercato, così aleatorio e imprevedibile. Che queste modalità di investimento si riflettano nei rapporti umani, il passo è breve, basta guardare l’uso sconsiderato che si fa della parola amicizia nei social network, aiutati dalle distanze che il web assicura.
      Hai ragione quando dici che la conoscenza di sé non è affatto facile, è tempo, è carne e sangue, non è facile come utilizzare un i-pod, non è facile come mandare un sms. Non capisco quando dici che “presi nel carosello degli innumerevoli oggetti possiamo, se siamo fortunati, non entrarci mai in questo tipo di sofferenza”, se siamo fortunati? Saremmo davvero fortunati a non guardarci mai allo specchio? Non sono un cultore della mistica del dolore di stampo cristiano ma senza quella sofferenza non sapremmo nulla di noi stessi, come tu stesso dici pagheremmo quella disconoscenza con un senso di vuoto e angoscia che “per fortuna possono essere messe a tacere”, è una fortuna. Tempo fa, scrissi un post assurdo, lo faccio quando l’urlo diventa troppo forte per potermi servire della ragione, dove dicevo “che il dolore è stato finalmente sconfitto tra le folle, le sole manifestazioni residue sono attacchi d'ansia e sindromi di panico, roba passeggera, niente che non si possa curare con un buon farmaco e una sana dormita senza sogni.”
      (segue)

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    3. Sulla “asetticità della scienza” ti seguo meno. Sono d’accordo con te che in molti casi abbiamo fatto grande confusione tra verità e metodo e che il discorso dell’oggettivazione merita molti chiarimenti, soprattutto in psicologia (Husserl ci ha provato), ma già in uno scambio precedente avevo lanciato una sfida non raccolta riguardo al discorso scientifico e al suo portato etico e non solo epistemologico. Avevo anche detto che mi sarei soffermato su quelle osservazione e non l’ho fatto. Vedi caro Garbo, io non sono un fanatico sostenitore della bontà della scienza ma non sono affatto convinto che la radice dell’impoverimento emotivo affondi nel discorso scientifico, non direttamente per lo meno. Riconoscerai che la faccenda è più complessa e che il discorso scientifico e tecnico non possono essere affrontati separatamente dalle modalità di organizzazione delle forze produttive di una società, dal sistema giuridico ed economico che la sottende. Dovremmo interrogarci sugli elementi strutturali e sovrastrutturali di una società e tal riguardo quell’autore con cui ho chiuso il post ha detto e non tutto quello che ha detto è scaduto.
      Riguardo invece la presunta influenza negativa della scienza nell’arte mi piace concludere con una citazione di Francesco De Sanctis che riprendo da un vecchio libro di Umberto Eco che ho letto da poco (La definizione dell’arte). “E’ inutile mover lamenti sullo stato dell’arte e voler questo o quello; la scienza si è infiltrata nella poesia, né la si può discacciare, perché ciò risponde alle presenti condizioni dello spirito. Noi non possiamo volger lo sguardo a nessuna cosa sì bella, che tosto fra la nostra ammirazione non s’introduca un – E’ ragionevole? -, ed eccoci a vele gonfie in mezzo alla critica e alla scienza. Vogliamo non solo godere, ma essere consci del nostro godimento, non solo sentire, ma intendere. […] Quelli che l’hanno con Goethe, Schiller, Byron, Leopardi, perché fanno, com’essi dicono, della “metafisica in versi”, mi hanno l’aria di quei preti che s’incolleriscono contro la filosofia e la ragione, e ripetono a coro: “Fede, fede”. Ohimè! La fede se n’è ita; la poesia è morta. O per dir meglio, la fede e la poesia sono immortali: ciò che è ito via è una particolare loro maniera d’essere. La fede oggi spunta dalla convinzione, la poesia dalla meditazione: non sono morte, sono trasformate.” Ecco, sta a noi saperle riconoscere e soprattutto sta a noi non accontentarci di intendere soltanto il nostro godimento e non sentirlo ma fare esattamente come dice il De Sanctis, “non solo sentire, ma intendere” anche se avrei delle riserve su quel “solo”. Un saluto.

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  3. Ottimo post complimenti... questa frase poi "Non sono gli strumenti ad essere usati da noi ma il contrario" mi ha particolarmente colpito

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  4. Purtroppo la società di oggi è priva di sentimenti e di comunicazione.
    Complimenti per l'ottimo post, molto attuale.
    Saluti a presto.

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  5. Post ricchissimo, imprescindibile, che per fortuna sconfessa la definitiva egemonia dell'involuzione (anche se in realtà non di una regressione si tratta, ma di un'allarmante evoluzione negativa inaudita e mai esperita prima) che descrive: non tutto è perduto, se c'è ancora qualcuno che si interroga senza cedere ad imboccare scorciatoie di senso sulla forzosa destrutturazione della complessità insita nell'esistenza :)
    Anche se le tue considerazioni sono molto più profonde e, diciamo, ontologiche, mi hanno fatto riportato alla mente l'eco di un'intervista a Mario Vargas Llosa che ho letto su La Stampa qualche giorno fa, in occasione dell'uscita del suo pamphlet "Civiltà dello spettacolo", in cui lo scrittore denuncia la banalizzazione, la mancanza di rigore, la ricerca acritica del divertimento e dell'intrattenimento del dibattito culturale contemporaneo che avrebbe ceduto al divenire "light", di pronto consumo, usa-e-getta, abdicando alla sua essenziale funzione di speculazione sui problemi seri e reali della vita, e sembra associare l'input della crisi economica all'insorgenza di quest'altra crisi come cause ed effetto l'una dell'altra. La questione mi pare molto grave: sarà solo uno squilibrio pre-assestamento o saremo invece entrati davvero in un periodo assiale della storia?

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    1. Cara Cri, grazie al tuo suggerimento ho letto un articolo dedicato al nuovo libro di Vargas Llosa, merita di essere letto. Io ti ringrazio per la stima ma prenderò come un eccesso di generosità il tuo attribuirmi maggiore profondità di Llosa ;-) Mi poni una domanda difficile al termine del commento, ma considerando i precedenti della storia, con tutte le volte che si è fatto ricorso a tesi millenaristiche e apocalissi di vario tipo, direi che si passa da un periodo assiale ad un altro periodo assiale, fino a quando avremo esaurito le risorse di questo pianeta e allora sarà un altro periodo assiale, ma senza di noi.
      Un saluto a te.

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  6. Ernest, Cavaliere, grazie per i complimenti.

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  7. Ho letto solo il post iniziale e mi riservo di leggere con calma i commenti. E' uno di quei post interessanti che cerco di rivisitare e li archivio.
    Mi pare una novella Babele: quella biblica generò la confusione delle lingue, in questa si rischia la confusione dei contenuti. In qualche modo è più grave perché almeno i contenuti si potevano tradurre. La definizione dell'analfabetismo di oggi come l'anaffettività è molto drammatica, e se faccio memoria dei miei trenta anni di insegnamento e a come ho visto man mano crescere il fenomeno ne sento tutto il peso. Il peso non era solo il perdere il rapporto con le giovani generazioni ma anche quello di parlare con i colleghi e spesso non capirsi. Ci può (forse) aiutare la lentezza, l'essenza delle cose, avere amore della stanchezza. ciao

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    1. Caro Francesco, immagino che la professione di insegnante sia un osservatorio tristemente privilegiato per vedere questo tipo di tendenze. Forse la lentezza ci può aiutare ma con il rischio di rimanere fuori da questo tempo fatto di cose che passano in fretta...questo stesso post è ormai vecchio... Un saluto.

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