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mercoledì 5 agosto 2009

La rete e la catena

La complessità è un paradigma cognitivo, la rete o l’effetto farfalla figurano tra le sue metafore. Questo paradigma ha soppiantato una visione del mondo deterministica, dove operava una rigida causalità lineare, sostituendola con una visione del mondo dove la probabilità ha un ruolo centrale e la causalità va cercata nelle intricate relazioni tra numerosi elementi tra loro interdipendenti[1]. La metafora del paradigma dominato dalla linearità era la catena. La visione della realtà che ne derivava era forse troppo elementare per comprendere i fenomeni naturali, anche se non mancano perplessità sul cosiddetto tramonto della ‘logica lineare’[2].

Il problema delle visioni del mondo e delle metafore sta nel gioco di risonanza che si stabilisce tra loro, un equilibrio sottile dove l’una prende spesso il posto dell’altra. Si passa impercettibilmente da visioni del mondo che sono precondizione delle metafore a visioni del mondo che nascono dalle metafore. Nel mezzo si apre uno spazio per l’interpretazione nei cui esiti è spesso difficile riconoscere la matrice epistemologica e dove è chiaramente ravvisabile una matrice politica, intesa come attività di organizzazione della società.

Le metafore sono riflessi della nostra struttura cognitiva e come scrive Umberto Eco, “quando Aristotele diceva che l’invenzione di una bella metafora «mette sotto gli occhi» per la prima volta un rapporto inedito tra due cose, questo significava che la metafora impone una riorganizzazione del nostro sapere e delle nostre opinioni”[3]. La complessità ci ha fatto abbandonare la metafora della catena per sostituirla con quella della rete. Va benissimo, ma abbiamo capito tutto della metafora della catena prima di abbandonarla? Abbiamo veramente capito tutto della metafora della rete prima di abbracciarla, più a parole che nei fatti, per la verità? Siamo davvero capaci di affrontare tutte le implicazioni delle metafore, quello che con termine orribile si dice ‘uso ideologico’? (io preferisco parlare di uso politico delle metafore).

Un aspetto mi interessa particolarmente di queste metafore, quello della stabilità del sistema. Della catena sapevamo che la sua forza era determinata dall’anello più debole, la catena nel suo complesso non è una struttura stabile come la rete. D’altra parte la rete può sopportare la rottura di alcuni suoi nodi senza tuttavia perdere la propria stabilità. Ma chi ha in mano la catena sa che deve stare attento ai suoi anelli deboli, mentre chi ha in mano una rete può tranquillamente ignorare qualche nodo 'poco importante'. Dal punto di vista degli anelli e dei nodi, i primi sanno che la loro azione è determinante i secondi hanno la triste consapevolezza che possono anche non esserci.

Un libro particolarmente illuminante sulle reti è Nexus, di Mark Buchanan[4]. L'autore dedica un capitolo alle reti in ecologia, tracciandone una storia sintetica che è utile ricordare. Come è noto l’ecologia si occupa dell’interazione tra le specie, poiché tra i principali motivi di interazione tra le specie vi è l’alimentazione l’organizzazione delle catene e delle reti alimentari e la loro stabilità alle perturbazioni ha sempre ricevuto particolare attenzione da questa disciplina. Fino agli anni ’70 del secolo scorso l’idea dominante in ecologia era che in una rete di specie che interagiscono la stabilità fosse direttamente proporzionale alla ricchezza e alla complessità, ovvero la rete era tanto più stabile quanto più elevato era il numero di specie ed il numero dei legami che tra loro stabilivano. Charles Elton affermò che le comunità semplici venivano "più facilmente sconvolte di quelle complesse". In effetti la cosa sembra plausibile, se ci sono molti elementi connessi tra loro e se ne toglie uno, la struttura nel complesso non ne risente molto. Ma, a parte la difficoltà di stabilire una definizione chiara di stabilità, la faccenda non era così semplice.

Nel 1973 Robert May sconvolse la comunità degli ecologi capovolgendo il paradigma valido fino a quel momento a proposito della stabilità delle reti complesse. May analizzò la stabilità delle reti elaborando degli ecosistemi modello in cui ogni specie poteva essere predatore o preda e la complessità del sistema variava con l’addizione o la sottrazione delle specie o delle connessioni. Lo scopo di May era la valutazione della stabilità degli ecosistemi, in altre parole voleva capire se gli ecosistemi erano in grado di sopportare le perturbazioni e se le popolazioni erano in grado di tornare allo stato iniziale dopo la perturbazione. I risultati che May ottenne furono sconvolgenti, quanto più elevato era il numero di specie che interagiva meno la rete era stabile. “Anzi, maggiore era la complessità, più elevata era la probabilità che il fattore perturbante disgregasse il sistema, provocando forti e incontrollabili fluttuazioni nel numero di specie, nonché l’estinzione di molte specie. Le reti più semplici erano invece più stabili: resistevano alla perturbazione ambientale o all’invasione di nuove specie senza rimanerne sconvolte.”[5]. Le reti di May, tuttavia, avevano un problema, erano connesse casualmente e altrettanto casuale era l’intensità dei legami che le specie stabilivano tra loro. Le reti alimentari presenti in natura non sono proprio così, alcune specie interagiscono solo con altre in maniera selettiva ed anche i legami non sono casuali, una specie può avere un legame molto forte con una specie e legami deboli con altre.
Nel 1981 Peter Yodzis introdusse tali informazioni nei suoi modelli matematici e, diversamente da May, trovò che le reti alimentari molto complesse erano anche molto stabili, in altre parole sopportavano gravi danni o l’estinzione di una specie senza che il sistema collassasse. Ritornò il vecchio paradigma della stabilità delle reti complesse. Molte indagini sperimentali, condotte negli ecosistemi reali, hanno dato ragione a Yodzis. Le reti più complesse, con più specie che interagiscono tra loro, presentano minori fluttuazioni (numero di specie, numero di individui, biomassa, …) e sono più stabili di quelle semplici. Il discorso sulla stabilità delle reti ecologiche si è successivamente concentrato sul tipo di legami che le specie stabiliscono tra loro e diversi ecologi hanno posto l’accento sull’intensità dei legami. Non tutte le interazioni tra le specie sono uguali, se una specie interagisce solo con poche altre questa stabilirà inevitabilmente legami forti, mentre se una specie interagisce con molte altre, i legami saranno deboli. Se un predatore mangia una sola preda dipenderà fortemente da questa, e se quest’ultima si riduce per qualche perturbazione il predatore non potrà fare altro che continuare a predarla portandola ad estinzione e correndo il rischio di estinguersi a sua volta. Il legame forte tra due specie favorisce pericolose fluttuazioni. Se invece il predatore interagisce con molte prede e una di queste si riduce per qualche motivo l’azione predatoria si rivolgerà alle altre prede, e quella a rischio di estinzione potrebbe riprendersi. I legami deboli sono quindi alla base di una maggiore stabilità delle reti ecologiche.

Come sottolinea Buchanan, il discorso sulla stabilità e sul ruolo dei legami deboli nelle reti ecologiche presenta molti punti in comune con altri ambiti, che vanno dalle reti sociali all’organizzazione della rete internet. In quest’ultimo caso, “quando si parla della sicurezza e della flessibilità delle reti, in genere si sottolinea quanto sia importante la ridondanza, cioè il fatto che molti elementi possano eseguire gli stessi compiti basilari e che quindi, nel caso un elemento venga eliminato, un altro lo sostituisca.”[6]. La stabilità della rete internet non è solo un problema di ridondanza, è anche un problema di organizzazione. Una rete può presentare nodi ridondanti ma con legami casuali oppure una rete può avere una organizzazione ‘aristocratica’ con alcuni nodi con molti legami. In altre parole, alcuni nodi saranno degli hub iperconnessi e altri invece avranno pochi legami, come è la vera internet. Un attacco condotto su un nodo a caso mostra che la rete di tipo aristocratico è molto più stabile della rete casuale. D’altro canto la rete aristocratica diventa più vulnerabile se l’attacco viene condotto selettivamente sugli hub iperconnessi.

La rete è facilmente riconoscibile anche in ambito sociale. Dopo i pionieristici studi di Stanley Milgram del 1967[7] sul numero di legami tra soggetti qualsiasi nelle reti sociali, si sviluppò la cosiddetta teoria del “mondo piccolo”[8,9]. Milgram scoprì che bastavano non più di sei passaggi per connettere due persone qualsiasi degli Stati Uniti. Come ha chiarito Mark Granovetter[10], anche nelle reti sociali i legami deboli assumono importanza determinante per la stabilità della rete, quindi anche nelle reti sociali vi sono nodi iperconnessi (legami deboli) e nodi caratterizzati da minori connessioni (legami forti). Insomma tirando le fila del discorso, il vero perno di una struttura complessa, sia essa un ecosistema o una comunità di esseri umani o una rete internet, sono i nodi con la più alta concentrazione di connessioni, gli hub della rete[11].

In ecologia la lezione di tutto questo è che “non sappiamo praticamente nulla e ciò che sappiamo è preoccupante”[12]. Gli hub spesso sono specie apparentemente insignificanti e l’assunto che sottende questi risultati è che ogni specie è un ponte di connessione con altre, inoltre “nessuna regola ferrea stabilisce quali specie abbiano più probabilità di essere perni”[13]. Per quanto riguarda internet, gli hub sono noti e i risultati della teoria delle reti suggeriscono di porre particolare attenzione a tali nodi, magari dotando la rete di strutture ridondanti che possano sostituirli in caso di attacco da parte di hacker. E nel caso delle reti sociali quali lezioni possiamo trarre dalla teoria delle reti?

Un’altra grande metafora dei sistemi complessi è l’effetto farfalla: il battito delle ali di una farfalla può provocare un uragano dall’altra parte del mondo. Anche questa metafora ci parla delle interconnessioni che esistono nei sistemi complessi e della estrema sensibilità delle dinamiche di questi sistemi alle condizioni iniziali. Non considerando le esagerazioni e distorsioni cui spesso le metafore si prestano, per loro natura le metafore sono ambivalenti e sono soggette a molteplici letture o quantomeno possono essere lette da diverse prospettive. Se da un lato la metafora non tiene conto che le farfalle non sono tutte uguali, una lettura più ampia porterebbe a considerare cosa accade alle farfalle investite dall’uragano originato dalla prima. Anche qui come per le reti, la lezione principale della metafora è l’imprevedibilità dei sistemi complessi, in altre parole che “non sappiamo praticamente nulla e ciò che sappiamo è preoccupante”, ma una lettura più comoda è che le dinamiche catastrofiche dei sistemi complessi sono una proprietà dei sistemi e noi non possiamo ritenerci responsabili.

La rete è interconnessa e realmente non possiamo immaginare che l’azione di un nodo non si riverberi lungo i nodi circostanti per arrivare ai nodi più lontani, ma se parliamo di reti sociali allora dobbiamo considerare fattori chiave che assumono particolare rilevanza negli esseri umani: la coscienza di sé e la volontà dei nodi. Sono fattori cui gli umani non possono e non devono rinunciare, salvo abdicare dalla loro natura eppure accade spesso che nelle reti sociali il nodo non è consapevole se la sua azione abbia avuto un effetto o di che entità esso sia, non ha un riscontro della sua volontà di agire. L’azione del nodo può essere stata decisiva per il sistema ma il nodo può non averne cognizione. Inoltre, la sostituibilità e la ridondanza sono concetti che mal si conciliano con gli esseri umani se intesi in termini kantiani, come un fine e non come un mezzo. Nelle reti sociali i nodi sono soggetti desideranti, dotati di una volontà e di un progetto, sentono, consapevolmente o meno, che la loro storia è una sola, unica e irreversibile. Sta qui il senso dell’impotenza del soggetto nei sistemi complessi. Le sue azioni possono perdersi oppure amplificarsi, in ogni modo il singolo soggetto non ha certezza dell’esito del suo agire. In questo sostrato di frustrazione si origina una condizione di angoscia che può sfociare anche in azioni estreme di cui il soggetto conserva la responsabilità e tuttavia, proprio in virtù della declamata interconnessione dei sistemi complessi, non sono privi di responsabilità neanche i nodi che lo circondano e che lasciano crescere uno stato di impotenza che sta all’origine della rottura del sistema.

L’angoscia è una emozione negativa caratterizzata dalla percezione di pericoli imminenti o remoti nei confronti dei quali si avverte dolorosamente la propria impotenza (Freud). Søren Kierkegaard e più tardi Heidegger, diedero un quadro più ampio all’angoscia, un quadro esistenziale. Kierkegaard identificò nell'angoscia la condizione dell'essenza umana messa di fronte alla scelta. Data la libertà dell’essere umano, ogni scelta porta con sé un carico di angoscia determinato dalla consapevolezza dell’abbandono delle altre possibilità. L'angoscia è il contraltare della irrinunciabile possibilità di scelta, subentra quando si scopre che tutto è possibile. «L'angoscia è la vertigine della libertà», diceva il filosofo nel 1844[14]. Per Kierkegaard l’angoscia era il fondamento inalienabile della natura umana alla quale solo la fede in qualcosa di immensamente positivo poteva dare sollievo. Attraverso la fede l’uomo riconoscerebbe la sua insufficienza e non la vivrebbe come un peso ma come l'effetto di dipendenza da Dio. Non entro nel merito di questa convinzione, è un discorso complicato, dico soltanto che non mi sembra del tutto peregrina una lettura rovesciata della fede in un essere immensamente positivo. Una sorta di delega per qualità che auspichiamo ma che non siamo in grado di raggiungere, insomma una deresponsabilizzazione che sposta altrove ciò che è desiderabile qui e adesso. Questa lettura 'rovesciata' mi sembra difficilmente applicabile se dalla fede in Dio il discorso si sposta nella fiducia nell’altro, riconoscendo nell’altro il fondamento minimo comune. In altre parole sforzandosi di trovare gli elementi che costituiscono le basi di una esperienza comune. Un impegno sempre in corso d’opera e che non ha mai fine.

L’individuo[15], il nodo della rete, immerso in una società sempre più complessa è frustrato, impotente perché vede inibite le sue possibilità di azione. Le sue azioni si diluiscono nel mare magnum del sistema. L’ambientalismo ha mostrato che l’uomo è parte del tutto ma, nonostante i meriti di questo pensiero, non si è saputo intervenire sul ‘punto debole’ di questa necessaria e inevitabile consapevolezza dell'interdipendenza, quello della dimensione individuale, la grana fine della società, come la chiama Paolo degli Espinosa[16]. L’individuo immerso nel tutto, senza gli opportuni strumenti, si sente incapace di agire. Ci troviamo di fronte all’apparente paradosso di un soggetto che è più impotente in un sistema altamente interconnesso di quanto non lo sia in un sistema con meno connessioni. Le opportunità di trovare una posizione nella società per qualche nodo aumentano, ma la precisa percezione della ridotta possibilità di intervento sul sistema lo frustra, lo rende emotivamente depresso. Come unica via di uscita può comprare oggetti e mangiare cioccolata, che tuttavia non lo soddisferanno. Non ha altre alternative. La quota di partecipazione ‘più facile’ al gioco collettivo è quella dei consumi. La partecipazione politica, nel senso più ampio del termine, era ed è più difficilmente raggiungibile. Questa difficoltà si fa ancora più spiazzante in un contesto culturale che celebra la complessità e l'interdipendenza a parole ma poi la tradisce nei fatti. Bene o male la politica è sempre stato lo spazio delle cosiddette élite, gli hub nella metafora della rete, ma la democrazia (che non è mero esercizio del voto) deve far sì che le élite circolino e che i cittadini siano il motore di questo movimento[17]. Come invece vadano le cose in realtà lo vediamo tutti.

Quale è la causa della diffusa depressione, neanche tanto latente, che serpeggia nella società abitate da individui che (ri)muovono i propri desideri più intimi nel pozzo senza fondo di consumi ipertrofici? È la mancata corrispondenza tra linguaggio interno ed esterno, tra aspettative/desideri e contesto reale. La vistosa incoerenza tra ciò che viene insegnato negli ambiti formali o tradizionali (scuola, famiglia, università) e quello che poi effettivamente ci si trova ad affrontare una volta che dobbiamo confrontarci con il cosiddetto mondo reale (come se l’altro mondo, quello che ci avrebbe formati, fosse una parentesi della fantasia), con le menate sulla ‘competitività’ e altre chimere mitologiche che ormai hanno acquisito uno statuto ontologico più che concreto. La causa dell’angoscia è la distanza tra la volontà di agire dei soggetti, le loro aspettative emotive, le loro esigenze di progetto e le reali possibilità di intervento nel contesto sociale.

Nel suo poderoso trattato Martha Nussbaum[18] ha indagato il contenuto cognitivo delle emozioni ponendole a fondamento di una teoria etica neostoica. Lungi dall'essere un residuo del nostro cervello più antico le emozioni sono moti cognitivi profondi che stanno al centro della vita individuale e sociale, che ci in-formano di quanto ci circonda e costruiscono la nostra personalità. Il libro è complesso, come l’argomento del resto, ma è uno di quei libri che si gustano pagina dopo pagina, riga dopo riga e quasi si vorrebbe che non finissero. Secondo la Nussbaum “la salute cognitiva implica la credenza che le nostre azioni volontarie produrranno una differenza significativa relativamente ai nostri progetti e scopi più importanti”[19]. In una sezione del libro la Nussbaum considera diversi esperimenti di psicologia cognitiva. Uno in particolare condotto da Martin Seligman mi ha colpito, un esperimento eticamente discutibile ma sicuramente illuminante. Un cane viene posto in una gabbia divisa in due da una barriera, poco dopo un segnale luminoso nella parte della gabbia dove sta il cane viene prodotto uno shock. Il cane può sfuggire allo shock saltando la barriera e apprende in fretta a saltare la barriera all’apparire del segnale luminoso, prima dello shock. L’esperimento prosegue con una serie di cani cui è resa impossibile la fuga perché legati in qualche modo. Dopo un certo periodo in questa condizione di impotenza si dà ai cani la stessa opportunità di apprendimento e di fuga descritta prima eppure questi cani non salteranno, resteranno immobili esponendosi al dolore. “Questo perché hanno appreso che la reazione volontaria non ha esiti positivi. E’ solo quando, con molti sforzi, i ricercatori ripetutamente portano i cani di peso al di là della barriera, mostrando loro in questa laboriosa maniera che la fuga è possibile, che essi ricominciano a imparare a intraprendere da soli la fuga”[20]. Credo sia molto importante riflettere su questi risultati.

All’alba di questa nostra società complessa i nodi più deboli (secondo quanto detto, quelli caratterizzati da pochi legami) si univano tra loro perché “l’unione di mille o diecimila debolezze realizzata con qualche forma di associazione poteva dar luogo ad un soggetto collettivo in grado di opporsi con efficacia al potere” dei più forti[21], gli hub della rete. In qualche modo l’associazione tra le persone oltre a rafforzare le loro richieste sanciva la loro reciproca dipendenza[22]. Oggi il 'senso comune' conduce altrove, la dipendenza dall’altro viene vista come una forma di debolezza da scongiurare, l’indipendenza è una manifestazione di forza e coraggio, quando in realtà non è che la faccia più insidiosa dell’angoscia, quella che ci rende incapaci di riconoscere la nostra vulnerabilità e di agire per limitarla[23]. A questa situazione fanno da contraltare le istanze comunitariste altrettanto deleterie, una sorta di reazione uguale e contraria alla frantumazione. Questa visione rivendica identità basate sulla tradizione e su un concetto di comunità che è lontano da quello di società e tanto più da una società complessa. Una società come quella occidentale, che si fonda sui diritti dell’individuo, ovvero su un individualismo ‘adulto’ che non sia risultato di complessi di onnipotenza infantili irrisolti, deve garantire ‘vie di fuga’ dal comunitarismo. L’individuo ha esigenze di partecipazione al gioco collettivo, consapevolmente e liberamente si unisce agli altri, ma altrettanto legittimamente ha esigenze di autonomia e di fuga dal gioco collettivo[24], consapevolmente e liberamente sceglie per sé ciò che concretamente non danneggia l’altro. Una società autenticamente democratica deve garantire l’una e l’altra esigenza dell’individuo. La complessità è molteplicità irrinunciabile, è una sfida che va raccolta, ma stando attenti alle insidie, soprattutto a quelle determinate dalla sua scarsa comprensione o dal suo uso 'strategico'. Altrimenti rischiamo di vivere in società complesse (o forse a questo punto è meglio dire comunità), connesse da reti intricate e abitate da soggetti angosciati dalla loro impotenza[25, 26]. Non è un bel risultato!


[1] F. Capra. La rete della vita. Una nuova visione della natura e della scienza. R.C.S., 1997.
[2] G. Sartori. Homo videns. Televisione e post-pensiero. Laterza, 2006.
[3] U. Eco. L’albero e il labirinto. Studi storici sul segno e l’interpretazione. Bompiani, 2007, p. 70.
[4] M. Buchanan. Nexus. Perché la natura, la società, l'economia, la comunicazione funzionano allo stesso modo. Mondadori, 2003.
[5] Ivi, p. 171.
[6] Ivi, p. 153.
[7] Leggi Sei gradi di separazione su
wikipedia. Milgram fu uno straordinario ideatore di esperimenti per studiare il comportamento sociale. Quelli a mio avviso più sorprendenti (e desolanti per i risultati ottenuti) sono descritti in S. Milgram. Obbedienza all'autorità. Uno sguardo sperimentale. Einaudi, 2003. Qualcosa si può leggere anche in rete su wikipedia.
[8] Leggi Teoria del mondo piccolo su
wikipedia.
[9] D.J. Watts, S.H. Strogatz. Collective dynamics of 'small-world' networks.
Nature. 393, 1998, pp. 440-442.
[10] M. Granovetter. The strength of weak ties: a network theory revisited.
Sociological Theory. 1, 1983, pp. 201-233.
[11] Buchanan, op. cit., p. 183.
[12] Ivi, p. 184.
[13] Ibidem.
[14] S. Kierkegaard. Il concetto dell’angoscia. SE, 2007.
[15] Quando uso questo termine ho in mente il concetto di individuo che si è sviluppato nella parte di mondo che chiamiamo occidentale, portatore di un’istanza di autonomia inalienabile. Ho in mente l’individuo nato dalla rivoluzione francese, quell’individuo che terrorizza tanto
Benedetto XVI. Il pontefice, confuso tra la Rivoluzione e la degenerazione del Terrore, non va per il sottile, prende tutto e butta via!. Liberissimo di farlo, anche noi di formazione laica ci soffermiamo spesso sulla degenerazione del messaggio cristiano, chi poi abbia più cose da dire lascio decidere al lettore.
[16] P. degli Espinosa. Individuo socializzante, civilizzazione dello sviluppo. Un progetto sostenibile per la fase post-industriale. éupolis, Allegato al n. 42, 2006.
[17] E. Scalfari. Élite e democrazia.
L’Espresso, 23/07/2009.
[18] M.C. Nussbaum. L’intelligenza delle emozioni. il Mulino, 2004.
[19] Ivi, p. 22.
[20] Ivi, p. 132.
[21] L. Gallino. Contratti, tanto vale abolire il sindacato.
La Repubblica, 10/06/2008.
[22] Tornando brevemente al regno animale non umano, mi pare interessante questo articolo pubblicato sul sito de
Le Scienze. Ma attenzione alle letture insidiose dei risultati di questi esperimenti. Il trasferimento tout court di questi risultati alle comunità umane si presta a derive comunitariste. Non è un gran risultato, una volta presi dalla corrente si torna impotenti come prima!
[23] A. Phillips, B. Taylor. Elogio della gentilezza. Ponte alle grazie. 2009.
[24] H. Laborit. Elogio della fuga. Mondadori, 1982.
[25] S. Freud. Il disagio della civiltà. Bollati Boringhieri, 1985.
[26] Z. Bauman. La società sotto assedio. Laterza, 2002.

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