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domenica 30 agosto 2009

la domenica

è aperta la caccia al pettirosso da combattimento,
il ciambellano di corte consegnerà le licenze d'armi,
un pettirosso ammaestrato guiderà le battute delle ronde,
l'ultimo sarà impagliato a futura memoria

i marinai salperanno questa notte al buio,
il carico strabuzza gli occhi secchi di spavento,
lo scafo aprirà una ferita nel mare
e l’acqua testimonierà gli ultimi desideri,
lastra di tomba chiusa sulla paura

la lotteria ha un premio alto questa estate
chi sarà il vincitore questa notte?
affonda la zavorra e non disturba il riposo
di chi lavora tutto l’anno per un giorno di serenità

sulle spiagge assolate si fanno affari d’oro,
firme false e indignazione per reati d’occasione,
giare molli e bronzi fusi al sole assaltano banchi di chincaglie,
il venditore non sa che si parlerà a lungo del suo abuso

quattro cavalieri su una torre di ferro lottano contro il vento,
ne parlavano al mare, fiumi di crema a proteggere pelli delicate,
erano centinaia, sono morti in miniera mezzo secolo prima,
sale l’entusiasmo, per una mezz’oretta, poi li manderanno a cagare

le ore attraversano la domenica umida,
fredde come lama di coltello nella carne sudata
per insegnare le buone maniere al villeggiante strano,
a calci nei fianchi e sangue che non muove i passanti

il mio occhio pigro guarda l’orizzonte,
a sud nuvole nere, temporale denso,
pioggia battente rinfresca l'aria spessa,
restiamo calmi, la salute è importante e nuove sestine da giocare

mio fratello va via di spalle, passo lento,
schiena rotta e scarpe slacciate
torpore di vino forte gli cerchia la testa,
lontano il rumore di una vibrante protesta...


giovedì 27 agosto 2009

Settimane estive

Lunedì: L’infanta di Arcore ha fatto una dichiarazione poi non smentita, per questo motivo è stato licenziato il compagno di giochi dell’infanta che aveva l’onere di ricordare l’ora della smentita. Il grave episodio potrebbe costare la rovina del paese, una rottura dell’ordine stabilito nella trama cosmica. I più anziani temono qualcosa di simile alla rovina di Kash.

Martedì: Pare che D’Alema abbia pronunciato qualcosa di sinistra, l’episodio è avvenuto all’uscita di una festa in maschera, il soggetto aveva un tasso alcolico tre volte superiore al limite consentito. Dall’esultanza dei presenti sembra che la frase pronunciata fosse particolarmente attesa, più di qualcuno la considerava quasi una figura mitologica. L’unico problema è che nessuno è disposto a testimoniare dell’accaduto, una maledizione grava sulle parole pronunciate, si dice sia una maledizione più potente di quella di Tutankhamon. Se qualcuno riferisce le cose di sinistra dette dal D’Alema cade fulminato all’istante. Dato il pericolo nessuno dice cose di sinistra per evitare il rischio di ripetere cose dette dal D’Alema e restare colpito dalla maledizione. Date le circostanze ed il comprensibile riserbo dei presenti tutta la faccenda è avvolta in un alone di leggenda.

Mercoledì: Il celebre avvocato Mavalà©, impegnato per tutto l’anno a querelare quanti parlavano male del suo committente, è stato colto da un devastante colpo di sole. All’origine della disgrazia sembrano esserci alcune confidenze rivelategli dallo stesso committente in cui questi faceva ammenda delle sue azioni. Il legale, trovando infondata la confessione e del tutto ingiustificata l’autocritica, ha sporto denuncia nei confronti del suo datore di lavoro per autovilipendio. Il povero Mavalà© è stato rinchiuso in un centro di cura dove continua a ripetere “il mio tessoooro” accarezzando una immaginetta sacra del suo utilizzatore finale. A lato si può vedere una foto dello sventurato professionista.

Giovedì: Giallo dell'estate. Gasparri ha formulato un pensiero, Bondi ha scritto una nuova poesia e Cota ha avuto un’idea tutta sua. Anche questi delitti, come quelli che solitamente avvengono in estate, appaiono senza alcun movente. Gli investigatori sono messi a dura prova per stabilire eventuali nessi tra i tre episodi criminali ma contano di venire presto a capo della faccenda, confidando nella rudimentalità degli strumenti utilizzati per commettere i tre deplorevoli atti.

Venerdì: Gli informatici stanno correndo ai ripari per evitare la rottura dell’ordine cosmico che si teme in seguito al gravissimo incidente di lunedì scorso. I tecnici stanno studiando una soluzione per ripristinare il corso degli eventi assicurandone la continuità. Un semplice algoritmo iterativo come quello sotto riportato dovrebbe sollevare l’infanta da ogni incombenza garantendone l’indipendenza da compagni di gioco inaffidabili e assicurando la naturale continuazione del corso degli eventi.

Dichiarazione = “il sole è caldo”
Smentita = “non ho mai detto che ”

Do
.......Conta = Conta + 1
..........If Conta > 1 Then
..............Dichiarazione = Smentita & Dichiarazione
..........End If

.... Print Dichiarazione
Loop

Esempio di output:

il sole è caldo
non ho mai detto che il sole è caldo
non ho mai detto che non ho mai detto che il sole è caldo
non ho mai detto che non ho mai detto che non ho mai detto che il sole è caldo
non ho mai detto che non ho mai detto che non ho mai detto che non ho mai detto che il sole è caldo
non ho mai detto che non ho mai detto che non ho mai detto che non ho mai detto che non ho mai detto che il sole è caldo
……….
(non ho mai detto che) x n il sole è caldo

La progressiva crescita delle negazioni dovrebbe fornire una ragionevole sicurezza sulla perdita del senso della dichiarazione originaria. Gli informatici più prudenti consigliano di porre un tetto alla variabile “Conta”, altrimenti il ciclo potrebbe diventare ingestibile.

Sabato: Dopo annosa e snervante ricerca è stato finalmente trovato il cerchio quadrato, la filosofia cristiana tira un sospiro di sollievo. Per l’occasione è stato indetto un giubileo extra, si terrà in piazza un auto da fè dei libri di Heidegger dedicati al nichilismo europeo dove lo scellerato filosofo affermava che una filosofia cristiana è ancora più assurda di un cerchio quadrato. Per l’eccezionale evento alla Perdonanza di quest’anno saranno lavati via i peccati e la pelle dei serpenti, sarà inoltre dimenticata la storia della prima tentazione tra canti e balli di gioia e libertà. La crisi economica non consente di elargire perdoni gratuitamente, si accetteranno doni in finanziaria in percentuale consona al reddito di ciascun questuante. Un residuo di ritegno impone di negare le trattative in corso.

Domenica: La domenica è tutta un’altra storia, la domenica non accade nulla. La domenica ci si riposa e se accade qualcosa si gira la testa dall’altra parte. L’importante è proteggersi bene dal sole, altrimenti la pelle si arrossa troppo…

mercoledì 26 agosto 2009

Italiani brava gente

Il viceministro della Giustizia Angelino Alfano (quello effettivamente in carica è l’avv. Ghedini) ha lanciato il grido di allarme sul sovraffollamento delle carceri italiane (leggi). Il sovraffollamento della popolazione carceraria è un problema complesso che diverse associazioni hanno da tempo denunciato ed aveva ragione Karl Popper a dire che “il grado di civiltà di un Paese si misura dalle condizioni delle sue carceri”. E' di pochi giorni fa una sentenza della Corte dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo che condanna l'Italia al risarcimento dei danni morali un cittadino bosniaco per essere stato oggetto di «trattamenti inumani e degradanti» (leggi).
Il viceministro pone l’accento sul numero di detenuti stranieri che occupano gli istituti penitenzieri e invoca l’intervento dell’Europa. Sorvolo volutamente sulle motivazioni prevalenti della carcerazione degli stranieri in Italia che si possono leggere a questo link, sorvolo anche sulla abnorme lunghezza dei processi in Italia e sulla (forse) inevitabile detenzione cautelativa, dico che il viceministro ha ragione e che il problema va affrontato a livello comunitario. Nel caso l’Europa risponda all’appello, come spero, chiedendo ai diversi paesi un impegno proporzionale alla demografia carceraria di ciascun paese mi sono fatto due conti per l’Italia. Sono i soliti calcoli della serva, tutta roba da rivedere attentamente e magari con dati aggiornati che si riferiscono allo stesso anno ma alla grossa qualche indicazione la danno. Io ho preso quello che ho trovato in rete, niente che non costasse una o due ore di tempo libero.

Nel 2006, in base ai dati del Ministero degli esteri, i detenuti italiani nei paesi dell’attuale UE erano circa 2.250 (di cui 1.140 in Germania) su una popolazione di residenti in Italia di circa 59 milioni di abitanti (circa 3,8 detenuti italiani in Europa ogni 100.000 abitanti in Italia. Sarebbero 4,8 detenuti ogni 100.000 italiani residenti se considerassimo tutti i detenuti italiani nel mondo).
Il viceministro Alfano afferma che su 63.000 detenuti nelle carceri italiane oltre 20.000 sono stranieri (diciamo 20.500). Dai rapporti dell’associazione Antigone riguardo la provenienza geografica dei detenuti stranieri emerge “la netta prevalenza dal Nord Africa (netta prevalenza), in particolare maghrebini (Marocco, Tunisia e Algeria in testa) e dai paesi europei non appartenenti alla UE, in particolare Albania, ex Jugoslavia e Romania” (dati del 2001, oggi la Romania fa parte dell’UE ma nonostante il clangore mediatico non ritengo il dato possa introdurre variazioni di rilievo nelle mie stime). Nel 2001 su 28.098 detenuti stranieri circa il 50% erano di provenienza non UE. Considerando invariata la percentuale e ponendo che la restante parte di detenuti siano di provenienza UE, oggi possiamo stimare che circa 10.250 detenuti stranieri nelle carceri italiane siano europei (ho qualche ragione di ritenere il valore una sovrastima ma va bene così). In altre parole ci sarebbero 2,1 detenuti europei nelle carceri d'Italia ogni 100.000 abitanti UE (oggi circa 498 milioni).

Quindi, tirando le somme, l’Italia avrebbe 2,1 detenuti europei nelle sue carceri a fronte di 3,8 detenuti italiani nelle carceri della UE. Un rapporto quasi 1 a 2.
Se, come mi auguro, l’Europa dovesse rispondere all’appello del viceministro Alfano per finanziare la costruzione di nuove carceri in base al principio di contribuzione proporzionale, spero che l’Italia sia pronta a fare la sua parte.

Per avere un quadro più completo del problema dell’affollamento nelle carceri potrebbe essere utile la lettura di questo documento del Consiglio dell'Europa. Da osservare soprattutto la terza colonna di valori della tabella a pagina 21 dove si riporta la popolazione carceraria ogni 100.000 abitanti, e la colonna ‘g’ delle tabelle nelle pag. 46 e 47, dove è riportata la percentuale di prigionieri stranieri nei diversi paesi. Si noterà che gli stranieri nelle prigioni non sono un problema solo italiano, del resto da quanto ho scritto qualche paese, come la Germania, potrebbe sostenere di avere un grosso problema con gli italiani nelle sue prigioni!

Se ne consiglia la lettura prima di andare al meeting di Rimini, meglio se letto invece di andare al meeting di Rimini.

venerdì 7 agosto 2009

Bona vacanza

Nel momento della pubblicazione di questo post, io sto viaggiando. Se tutto va bene sono in auto sull'autostrada da Roma a Lecce, e se tutto continuerà ad andare bene, arriverò al mio paesino, Melissano, in provincia di Lecce. Ci vogliono circa 7 ore di viaggio per coprire la distanza.
Di tanto in tanto ho bisogno di tornare al mio paese, mi pare la chiamino sindrome di Ulisse, sicuramente nel mio caso una forma lieve, anche se a volte mi piace chiamarla sindrome di Dracula perché mi è necessario toccare la terra delle campagne che circondano il mio paese per prendere vigore.
Ad ogni modo è curioso il modo di manifestarsi di questa sindrome. Ad un certo punto penso in dialetto e non posso fare a meno di parlare in dialetto. Di solito mi controllo ma a volte è inevitabile.

Bona vacanza a ciunca legge 'ste parole e me raccumannu, statibe ncorti e nnu strafaciti.

Durante le vacanze non avrò il computer con me e non mi dispiace, ma voi continuate pure a inviare i vostri numerosi commenti al mio blog, al mio rientro li pubblicherò tutti!


Ernesto De Martino nel suo studio etnografico del 1959 la chiamava la terra del rimorso[*], per via della taranta il cui spirito domina da sempre la mia terra. La taranta, demone temuto eppure desiderato, ragno mitico, strumento di tentazione delle divinità e di liberazione delle vittime. Il suo morso ricorrente scatenava energie sopite, liberava da catene antiche, costringeva a ritmi spasmodici, lasciava spossati. La libertà senza freni di poche ore valeva, e voleva, il morso di un ragno. La taranta non è solo una danza, è molto di più, è la storia di queste terre, è il sangue che le alimenta.

[*] E. De Martino. La terra del rimorso. Il Sud, tra religione e magia. Il Saggiatore, Net, 2002.

giovedì 6 agosto 2009

La banalità del male

Günther Anders e Hannah Arendt, 1929

Claude Eatherly fu il pilota di Enola Gay, il bombardiere americano che sganciò Little boy. La bomba atomica, cui fu dato quel nome vezzoso, esplose a Hiroshima il 6 agosto del 1945. Eatherly ignorava la potenza dell'ordigno che sganciò, se ne rese conto quando allontanandosi a bordo del bombardiere vide sparire Hiroshima in una nuvola gialla.
Diversi anni dopo il filosofo Günther Anders cominciò con lui una corrispondenza di cui riporto le prime due lettere.

Lettera di Günther Anders a Claude Eatherly

Al signor Claude R. Eatherly ex maggiore della A. F. Veterans Administration Hospital Waco, Texas

3 giugno 1959

Caro signor Eatherly,
Lei non conosce chi scrive queste righe. Mentre Lei è noto a noi, ai miei amici e a me. Il modo in cui Lei verrà (o non verrà) a capo della Sua sventura, è seguito da tutti noi (che si viva a New York, a Tokio o a Vienna) col cuore in sospeso. E non per curiosità, o perché il Suo caso ci interessi dal punto di vista medico o psicologico. Non siamo medici né psicologi. Ma perché ci sforziamo, con ansia e sollecitudine, di venire a capo dei problemi morali che, oggi, si pongono di fronte a tutti noi. La tecnicizzazione dell'esistenza: il fatto che, indirettamente e senza saperlo, come le rotelle di una macchina, possiamo essere inseriti in azioni di cui non prevediamo gli effetti, e che, se ne prevedessimo gli effetti, non potremmo approvare ‑ questo fatto ha trasformato la situazione morale di tutti noi. La tecnica ha fatto sì che si possa diventare “incolpevolmente colpevoli”, in un modo che era ancora ignoto al mondo tecnicamente meno avanzato dei nostri padri.
Lei capisce il suo rapporto con tutto questo: poiché Lei è uno dei primi che si è invischiato in questa colpa di nuovo tipo, una colpa in cui potrebbe incorrere ‑ oggi o domani ciascuno di noi. A Lei è capitato ciò che potrebbe capitare domani a noi tutti. E per questo che Lei ha per noi la funzione di un esempio tipico: la funzione di un precursore.
Probabilmente tutto questo non Le piace. Vuole stare tranquillo, your life is your business. Possiamo assicurarLe che l'indiscrezione piace così poco a noi come a Lei, e La preghiamo di scusarci. Ma in questo caso, per la ragione che ho appena detto, l'indiscrezione è ‑ purtroppo ‑ inevitabile, anzi doverosa. La Sua vita è diventata anche il nostro business. Poiché il caso (o comunque vogliamo chiamare il fatto innegabile) ha voluto fare di Lei, il privato cittadino Claude Eatherly, un simbolo del futuro, Lei non ha più diritto di protestare per la nostra indiscrezione. Che proprio Lei, e non un altro dei due o tre miliardi di Suoi contemporanei, sia stato condannato a questa funzione di simbolo, non è colpa Sua, ed è certamente spaventoso. Ma così è, ormai.
E tuttavia non creda di essere il solo condannato in questo modo. Poiché tutti noi dobbiamo vivere in quest'epoca, in cui potremmo incorrere in una colpa del genere: e come Lei non ha scelto la sua triste funzione, così anche noi non abbiamo scelto quest'epoca infausta. In questo senso siamo quindi, come direste voi americani, “on the same boat", nella stessa barca, anzi siamo i figli di una stessa famiglia. E questa comunità, questa parentela, determina il nostro rapporto verso di Lei. Se ci occupiamo delle Sue sofferenze, lo facciamo come fratelli, come se Lei fosse un fratello a cui è capitata la disgrazia di fare realmente ciò che ciascuno di noi potrebbe essere costretto a fare domani; come fratelli che sperano di poter evitare quella sciagura, come Lei oggi spera, tremendamente invano, di averla potuta evitare allora.
Ma allora ciò non era possibile: il meccanismo dei comandi funzionò perfettamente, e Lei era ancora giovane e senza discernimento. Dunque lo ha fatto. Ma poiché lo ha fatto, noi possiamo apprendere da Lei, e solo da Lei, che sarebbe di noi se fossimo stati al Suo posto, che sarebbe di noi se fossimo al Suo posto. Vede che Lei ci è estremamente prezioso, anzi indispensabile. Lei è, in qualche modo, il nostro maestro.
Naturalmente Lei rifiuterà questo titolo. "Tutt'altro, dirà, ‑ poiché io non riesco a venire a capo del mio stato".
Si stupirà, ma è proprio questo "non" a far pencolare (per noi) la bilancia. Ad essere, anzi, perfino consolante. Capisco che questa affermazione deve suonare, sulle prime, assurda. Perciò qualche parola di spiegazione.
Non dico "consolante per Lei”. Non ho nessuna intenzione di volerLa consolare. Chi vuol consolare dice, infatti, sempre: "La cosa non è poi cosi grave"; cerca, insomma, di impicciolire l'accaduto (dolore o colpa) o di farlo sparire con le parole. È proprio quello che cercano di fare, per esempio, i Suoi medici. Non è difficile scoprire perché agiscano così. In fin dei conti sono impiegati di un ospedale militare, cui non si addice la condanna morale di un'azione bellica unanimemente approvata, anzi lodata; a cui, anzi, non deve neppure venire in mente la possibilità di questa condanna; e che perciò devono difendere in ogni caso l'irreprensibilità di un'azione che Lei sente, a ragione, come una colpa. Ecco perché i Suoi medici affermano: "Hiroshima in itself is not enough to explain your behaviour", ciò che in un linguaggio meno lambiccato significa: "Hiroshima è meno terribile di quanto sembra"; ecco perché si limitano a criticare, invece dell'azione stessa (o "dello stato del mondo" che l'ha resa possibile), la Sua reazione ad essa; ecco perché devono chiamare il Suo dolore e la Sua attesa di un castigo una "malattia” ("classical guilt complex"); ed ecco perché devono considerare e trattare la Sua azione come un "self‑imagined wrong", un delitto inventato da Lei. C'è da stupirsi che uomini costretti dal loro conformismo e dalla loro schiavitù morale a sostenere l'irreprensibilità della Sua azione, e a considerare quindi patologico il Suo stato di coscienza, che uomini che muovono da premesse così bugiarde ottengano dalle loro cure risultati così poco brillanti? Posso immaginare (e La prego di correggermi se sbaglio) con quanta incredulità e diffidenza, con quanta repulsione Lei consideri quegli uomini, che prendono sul serio solo la Sua reazione, e non la Sua azione. Hiroshima‑self-imagined!
Non c'è dubbio: Lei la sa più lunga di loro. Non è senza ragione che le grida dei feriti assordano i Suoi giorni, che le ombre dei morti affollano i Suoi sogni. Lei sa che l'accaduto è accaduto veramente, e, non è un'immaginazione. Lei non si lascia illudere da costoro. E nemmeno noi ci lasciamo illudere. Nemmeno noi sappiamo che farci di queste "consolazioni".
No, io dicevo per noi. Per noi il fatto che Lei non riesce a "venire a capo" dell'accaduto, è consolante. E questo perché ci mostra che Lei cerca di far fronte, a posteriori, all'effetto (che allora non poteva concepire) della Sua azione; e perché questo tentativo, anche se dovesse fallire, prova che Lei ha potuto tener viva la Sua coscienza, anche dopo essere stato inserito come una rotella in un meccanismo tecnico e adoperato in esso con successo. E serbando viva la Sua coscienza ha mostrato che questo è possibile, e che dev'essere possibile anche per noi. E sapere questo (e noi lo sappiamo grazie a Lei) è, per noi, consolante.
"Anche se dovesse fallire", ho detto. Ma il Suo tentativo deve necessariamente fallire. E precisamente per questo.
Già quando si è fatto torto a una persona singola (e non parlo di uccidere), anche se l'azione si lascia abbracciare in tutti i suoi effetti, è tutt'altro che semplice "venirne a capo". Ma qui si tratta di ben altro. Lei ha la sventura di aver lasciato dietro di sé duecentomila morti. E come sarebbe possibile realizzare un dolore che abbracci 200 000 vite umane? Come sarebbe possibile pentirsi di 200 000 vittime?
Non solo Lei non lo può, non solo noi non lo possiamo: non è possibile per nessuno. Per quanti sforzi disperati si facciano, dolore e pentimento restano inadeguati. L'inutilità dei Suoi sforzi non è quindi colpa Sua, Eatherly: ma è una conseguenza di ciò che ho definito prima come la novità decisiva della nostra situazione: del fatto, cioè, che siamo in grado di produrre più di quanto siamo in grado di immaginare; e che gli effetti provocati dagli attrezzi che costruiamo sono così enormi che non siamo più attrezzati per concepirli. Al di là, cioè, di ciò che possiamo dominare interiormente, e di cui possiamo "venire a capo". Non si faccia rimproveri per il fallimento del Suo tentativo di pentirsi. Ci mancherebbe altro! Il pentimento non può riuscire. Ma il fallimento stesso dei Suoi sforzi è la Sua esperienza e passione di ogni giorno; poiché al di fuori di questa esperienza non c'è nulla che possa sostituire il pentimento, e che possa impedirci di commettere di nuovo azioni cosi tremende. Che, di fronte a questo fallimento, la Sua reazione sia caotica e disordinata, è quindi perfettamente naturale. Anzi, oserei dire che è un segno della Sua salute morale. Poiché la Sua reazione attesta la vitalità della Sua coscienza.
Il metodo usuale per venire a capo di cose troppo grandi è una semplice manovra di occultamento: si continua a vivere come se niente fosse; si cancella l'accaduto dalla lavagna della vita, si fa come se la colpa troppo grave non fosse nemmeno una colpa. Vale a dire che, per venirne a capo, si rinuncia affatto a venirne a capo. Come fa il Suo compagno e compatriota Joe Stiborik, ex radarista sull'Enola Gay, che Le presentano volentieri ad esempio perché continua a vivere magnificamente e ha dichiarato, con la miglior cera di questo mondo, che "è stata solo una bomba un po' più grossa delle altre". E questo metodo è esemplificato, meglio ancora, dal presidente che ha dato il "via" a Lei come Lei lo ha dato al pilota dell'apparecchio bombardiere; e che quindi, a ben vedere, si trova nella Sua stessa situazione, se non in una situazione ancora peggiore. Ma egli ha omesso di fare ciò che Lei ha fatto. Tant'è che alcuni anni fa, rovesciando ingenuamente ogni morale (non so se sia venuto a saperlo), ha dichiarato, in un'intervista destinata al pubblico, di non sentire i minimi "pangs of conscience", che sarebbe una prova lampante della sua innocenza; e quando poco fa, in occasione del suo settantacinquesimo compleanno, ha tirato le somme della sua vita, ha citato, come sola mancanza degna di rimorso, il fatto di essersi sposato dopo i trenta. Mi pare difficile che Lei possa invidiare questo "clean sheet”. Ma sono certo che non accetterebbe mai, da un criminale comune, come una prova d'innocenza, la dichiarazione di non provare il minimo rimorso. Non è un personaggio ridicolo, un uomo che fugge così davanti a se stesso? Lei non ha agito così, Eatherly; Lei non è un personaggio ridicolo. Lei fa, pur senza riuscirci, quanto è umanamente possibile: cerca di continuare a vivere come la stessa persona che ha compiuto l'azione. Ed è questo che ci consola. Anche se Lei, proprio perché è rimasto identico con la Sua azione, si è trasformato in seguito ad essa.
Capisce che alludo alle Sue violazioni di domicilio, falsi e non so quali altri reati che ha commesso. E al fatto che è o passa per demoralizzato e depresso. Non pensi che io sia un anarchico e favorevole ai falsi e alle rapine, o che dia scarso peso a queste cose. Ma nel Suo caso questi reati non sono affatto "comuni": sono gesti di disperazione. Poiché essere colpevole come Lei lo è ed essere esaltati, proprio per la propria colpa, come "eroi sorridenti", dev'essere una condizione intollerabile per un uomo onesto; per porre termine alla quale si può anche commettere qualche scorrettezza. Poiché l'enormità che pesava e pesa su di Lei non era capita, non poteva essere capita e non poteva essere fatta capire nel mondo a cui Lei appartiene, Lei doveva cercare di parlare ed agire nel linguaggio intelligibile costí, nel piccolo linguaggio della petty o della big larceny nei termini della società stessa. Così Lei ha cercato di provare la Sua colpa con atti che fossero riconosciuti come reati. Ma anche questo non Le è riuscito.
È sempre condannato a passare per malato, anziché per colpevole. E proprio per questo, perché ‑ per così dire ‑ non Le si concede la Sua colpa Lei è e rimane un uomo infelice.
E ora, per finire, un suggerimento.
L'anno scorso ho visitato Hiroshima; e ho parlato con quelli che sono rimasti vivi dopo il Suo passaggio. Si rassicuri: non c'è nessuno di quegli uomini che voglia perseguitare una vite nell'ingranaggio di una macchina militare (ciò che Lei era, quando, a ventisei anni, eseguì la Sua "missione"); non c'è nessuno che La odi.
Ma ora Lei ha mostrato che, anche dopo essere stato adoperato come una vite, è rimasto, a differenza degli altri, un uomo; o di esserlo ridiventato. Ed ecco la mia proposta, su cui Lei avrà modo di riflettere
Il prossimo 6 agosto la popolazione di Hiroshima celebrerà, come tutti gli anni, il giorno in cui "è avvenuto". A quegli uomini Lei potrebbe inviare un messaggio, che dovrebbe giungere per il giorno della celebrazione. Se Lei dicesse da uomo a quegli uomini: "Allora non sapevo quel che facevo; ma ora lo so. E so che una cosa simile non dovrà più accadere; e che nessuno può chiedere a un altro di compierla"; e: "La vostra lotta contro il ripetersi di un'azione simile è anche la mia lotta, e il vostro 'no more Hiroshima' è anche il mio 'no more Hiroshima', o qualcosa di simile può essere certo che con questo messaggio farebbe una gioia immensa ai sopravvissuti di Hiroshima e che sarebbe considerato da quegli uomini come un amico, come uno di loro. E che ciò accadrebbe a ragione, poiché anche Lei, Eatherly, è una vittima di Hiroshima. E ciò sarebbe forse anche per Lei, se non una consolazione, almeno una gioia.
Col sentimento che provo per ognuna di quelle vittime, La saluto.

Günther Anders
***

Risposta di Claude Eatherly
12 giugno 1959

Dear Sir,
molte grazie della Sua lettera, che ho ricevuto venerdì della scorsa settimana.
Dopo aver letto più volte la Sua lettera, ho deciso di scriverLe, e di entrare eventualmente in corrispondenza con Lei, per discutere di quelle cose che entrambi, credo, comprendiamo. Io ricevo molte lettere, ma alla maggior parte non posso nemmeno rispondere. Mentre di fronte alla Sua lettera mi sono sentito costretto a rispondere e a farLe conoscere il mio atteggiamento verso le cose del mondo attuale.
Durante tutto il corso della mia vita sono sempre stato vivamente interessato al problema del modo di agire e di comportarsi. Pur non essendo, spero, un fanatico in nessun senso, né dal punto di vista religioso né da quello politico, sono tuttavia convinto, da qualche tempo, che la crisi in cui siamo tutti implicati esige un riesame approfondito di tutto il nostro schema di valori e di obbligazioni. In passato, ci sono state epoche in cui era possibile cavarsela senza porsi troppi problemi sulle proprie abitudini di pensiero e di condotta. Ma oggi è relativamente chiaro che la nostra epoca non è di quelle. Credo, anzi, che ci avviciniamo rapidamente a una situazione in cui saremo costretti a riesaminare la nostra disposizione a lasciare la responsabilità dei nostri pensieri e delle nostre azioni a istituzioni sociali (come partiti politici, sindacati, chiesa o stato). Nessuna di queste istituzioni è oggi in grado di impartire consigli morali infallibili, e perciò bisogna mettere in discussione la loro pretesa di impartirli. L'esperienza che ho fatto personalmente deve essere studiata da questo punto di vista, se il suo vero significato deve diventare comprensibile a tutti e dovunque, e non solo a me.
Se Lei ha impressione che questo concetto sia importante e più o meno conforme al Suo stesso pensiero, Le proporrei di cercare insieme di chiarire questo nesso di problemi, in un carteggio che potrebbe anche durare a lungo.
Ho l'impressione che Lei mi capisca come nessun altro, salvo forse il mio medico e amico.
Le mie azioni antisociali sono state catastrofiche per la mia vita privata, ma credo che, sforzandomi, riuscirò a mettere in luce i miei veri motivi, le mie convinzioni e la mia filosofia.
Gunther, mi fa piacere scriverLe. Forse potremo stabilire, col nostro carteggio, un'amicizia fondata sulla fiducia e sulla comprensione. Non abbia scrupoli a scrivere sui problemi di situazione e di condotta in cui ci troviamo di fronte. E allora Le esporrò le mie opinioni.
RingraziandoLa ancora della Sua lettera, resto il Suo

Claude Eatherly.


***

Nel 1963 Hannah Arendt, che per alcuni anni era stata la moglie di Anders (i due divorziarono), scrisse La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (XII ed. Feltrinelli, 2007), dove riportava il processo ad Adolf Eichmann avvenuto a Gerusalemme nel 1961. Eichmann si 'occupava' della deportazione degli ebrei ai campi di concentramento. La Arendt riporta le testimonianze, i fatti, le ricostruzioni di un eccidio la cui radice non è nella natura maligna, in un dio perfido ma nella più insignificante inconsapevolezza delle proprie azioni.
Durante le udienze Adolf Eichmann «Alla polizia e alla Corte disse e ripeté di aver fatto il suo dovere, di avere obbedito non soltanto a ordini, ma anche alla legge. [...] Oltre ad avere fatto quello che a suo giudizio era il dovere di un cittadino ligio alla legge, egli aveva anche agito in base a ordini - preoccupandosi sempre di essere "coperto" -, e perciò ora si smarrì completamente e finì con l'insistere alternativamente sui pregi e sui difetti dell'obbedienza cieca, ossia dell' "obbedienza cadaverica", Kadavergehorsam, come la chiamava lui.» (p. 142).
Al termine del processo in cui Heichmann fu condannato a morte «Era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato - la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male.» (p. 259).

mercoledì 5 agosto 2009

La rete e la catena

La complessità è un paradigma cognitivo, la rete o l’effetto farfalla figurano tra le sue metafore. Questo paradigma ha soppiantato una visione del mondo deterministica, dove operava una rigida causalità lineare, sostituendola con una visione del mondo dove la probabilità ha un ruolo centrale e la causalità va cercata nelle intricate relazioni tra numerosi elementi tra loro interdipendenti[1]. La metafora del paradigma dominato dalla linearità era la catena. La visione della realtà che ne derivava era forse troppo elementare per comprendere i fenomeni naturali, anche se non mancano perplessità sul cosiddetto tramonto della ‘logica lineare’[2].

Il problema delle visioni del mondo e delle metafore sta nel gioco di risonanza che si stabilisce tra loro, un equilibrio sottile dove l’una prende spesso il posto dell’altra. Si passa impercettibilmente da visioni del mondo che sono precondizione delle metafore a visioni del mondo che nascono dalle metafore. Nel mezzo si apre uno spazio per l’interpretazione nei cui esiti è spesso difficile riconoscere la matrice epistemologica e dove è chiaramente ravvisabile una matrice politica, intesa come attività di organizzazione della società.

Le metafore sono riflessi della nostra struttura cognitiva e come scrive Umberto Eco, “quando Aristotele diceva che l’invenzione di una bella metafora «mette sotto gli occhi» per la prima volta un rapporto inedito tra due cose, questo significava che la metafora impone una riorganizzazione del nostro sapere e delle nostre opinioni”[3]. La complessità ci ha fatto abbandonare la metafora della catena per sostituirla con quella della rete. Va benissimo, ma abbiamo capito tutto della metafora della catena prima di abbandonarla? Abbiamo veramente capito tutto della metafora della rete prima di abbracciarla, più a parole che nei fatti, per la verità? Siamo davvero capaci di affrontare tutte le implicazioni delle metafore, quello che con termine orribile si dice ‘uso ideologico’? (io preferisco parlare di uso politico delle metafore).

Un aspetto mi interessa particolarmente di queste metafore, quello della stabilità del sistema. Della catena sapevamo che la sua forza era determinata dall’anello più debole, la catena nel suo complesso non è una struttura stabile come la rete. D’altra parte la rete può sopportare la rottura di alcuni suoi nodi senza tuttavia perdere la propria stabilità. Ma chi ha in mano la catena sa che deve stare attento ai suoi anelli deboli, mentre chi ha in mano una rete può tranquillamente ignorare qualche nodo 'poco importante'. Dal punto di vista degli anelli e dei nodi, i primi sanno che la loro azione è determinante i secondi hanno la triste consapevolezza che possono anche non esserci.

Un libro particolarmente illuminante sulle reti è Nexus, di Mark Buchanan[4]. L'autore dedica un capitolo alle reti in ecologia, tracciandone una storia sintetica che è utile ricordare. Come è noto l’ecologia si occupa dell’interazione tra le specie, poiché tra i principali motivi di interazione tra le specie vi è l’alimentazione l’organizzazione delle catene e delle reti alimentari e la loro stabilità alle perturbazioni ha sempre ricevuto particolare attenzione da questa disciplina. Fino agli anni ’70 del secolo scorso l’idea dominante in ecologia era che in una rete di specie che interagiscono la stabilità fosse direttamente proporzionale alla ricchezza e alla complessità, ovvero la rete era tanto più stabile quanto più elevato era il numero di specie ed il numero dei legami che tra loro stabilivano. Charles Elton affermò che le comunità semplici venivano "più facilmente sconvolte di quelle complesse". In effetti la cosa sembra plausibile, se ci sono molti elementi connessi tra loro e se ne toglie uno, la struttura nel complesso non ne risente molto. Ma, a parte la difficoltà di stabilire una definizione chiara di stabilità, la faccenda non era così semplice.

Nel 1973 Robert May sconvolse la comunità degli ecologi capovolgendo il paradigma valido fino a quel momento a proposito della stabilità delle reti complesse. May analizzò la stabilità delle reti elaborando degli ecosistemi modello in cui ogni specie poteva essere predatore o preda e la complessità del sistema variava con l’addizione o la sottrazione delle specie o delle connessioni. Lo scopo di May era la valutazione della stabilità degli ecosistemi, in altre parole voleva capire se gli ecosistemi erano in grado di sopportare le perturbazioni e se le popolazioni erano in grado di tornare allo stato iniziale dopo la perturbazione. I risultati che May ottenne furono sconvolgenti, quanto più elevato era il numero di specie che interagiva meno la rete era stabile. “Anzi, maggiore era la complessità, più elevata era la probabilità che il fattore perturbante disgregasse il sistema, provocando forti e incontrollabili fluttuazioni nel numero di specie, nonché l’estinzione di molte specie. Le reti più semplici erano invece più stabili: resistevano alla perturbazione ambientale o all’invasione di nuove specie senza rimanerne sconvolte.”[5]. Le reti di May, tuttavia, avevano un problema, erano connesse casualmente e altrettanto casuale era l’intensità dei legami che le specie stabilivano tra loro. Le reti alimentari presenti in natura non sono proprio così, alcune specie interagiscono solo con altre in maniera selettiva ed anche i legami non sono casuali, una specie può avere un legame molto forte con una specie e legami deboli con altre.
Nel 1981 Peter Yodzis introdusse tali informazioni nei suoi modelli matematici e, diversamente da May, trovò che le reti alimentari molto complesse erano anche molto stabili, in altre parole sopportavano gravi danni o l’estinzione di una specie senza che il sistema collassasse. Ritornò il vecchio paradigma della stabilità delle reti complesse. Molte indagini sperimentali, condotte negli ecosistemi reali, hanno dato ragione a Yodzis. Le reti più complesse, con più specie che interagiscono tra loro, presentano minori fluttuazioni (numero di specie, numero di individui, biomassa, …) e sono più stabili di quelle semplici. Il discorso sulla stabilità delle reti ecologiche si è successivamente concentrato sul tipo di legami che le specie stabiliscono tra loro e diversi ecologi hanno posto l’accento sull’intensità dei legami. Non tutte le interazioni tra le specie sono uguali, se una specie interagisce solo con poche altre questa stabilirà inevitabilmente legami forti, mentre se una specie interagisce con molte altre, i legami saranno deboli. Se un predatore mangia una sola preda dipenderà fortemente da questa, e se quest’ultima si riduce per qualche perturbazione il predatore non potrà fare altro che continuare a predarla portandola ad estinzione e correndo il rischio di estinguersi a sua volta. Il legame forte tra due specie favorisce pericolose fluttuazioni. Se invece il predatore interagisce con molte prede e una di queste si riduce per qualche motivo l’azione predatoria si rivolgerà alle altre prede, e quella a rischio di estinzione potrebbe riprendersi. I legami deboli sono quindi alla base di una maggiore stabilità delle reti ecologiche.

Come sottolinea Buchanan, il discorso sulla stabilità e sul ruolo dei legami deboli nelle reti ecologiche presenta molti punti in comune con altri ambiti, che vanno dalle reti sociali all’organizzazione della rete internet. In quest’ultimo caso, “quando si parla della sicurezza e della flessibilità delle reti, in genere si sottolinea quanto sia importante la ridondanza, cioè il fatto che molti elementi possano eseguire gli stessi compiti basilari e che quindi, nel caso un elemento venga eliminato, un altro lo sostituisca.”[6]. La stabilità della rete internet non è solo un problema di ridondanza, è anche un problema di organizzazione. Una rete può presentare nodi ridondanti ma con legami casuali oppure una rete può avere una organizzazione ‘aristocratica’ con alcuni nodi con molti legami. In altre parole, alcuni nodi saranno degli hub iperconnessi e altri invece avranno pochi legami, come è la vera internet. Un attacco condotto su un nodo a caso mostra che la rete di tipo aristocratico è molto più stabile della rete casuale. D’altro canto la rete aristocratica diventa più vulnerabile se l’attacco viene condotto selettivamente sugli hub iperconnessi.

La rete è facilmente riconoscibile anche in ambito sociale. Dopo i pionieristici studi di Stanley Milgram del 1967[7] sul numero di legami tra soggetti qualsiasi nelle reti sociali, si sviluppò la cosiddetta teoria del “mondo piccolo”[8,9]. Milgram scoprì che bastavano non più di sei passaggi per connettere due persone qualsiasi degli Stati Uniti. Come ha chiarito Mark Granovetter[10], anche nelle reti sociali i legami deboli assumono importanza determinante per la stabilità della rete, quindi anche nelle reti sociali vi sono nodi iperconnessi (legami deboli) e nodi caratterizzati da minori connessioni (legami forti). Insomma tirando le fila del discorso, il vero perno di una struttura complessa, sia essa un ecosistema o una comunità di esseri umani o una rete internet, sono i nodi con la più alta concentrazione di connessioni, gli hub della rete[11].

In ecologia la lezione di tutto questo è che “non sappiamo praticamente nulla e ciò che sappiamo è preoccupante”[12]. Gli hub spesso sono specie apparentemente insignificanti e l’assunto che sottende questi risultati è che ogni specie è un ponte di connessione con altre, inoltre “nessuna regola ferrea stabilisce quali specie abbiano più probabilità di essere perni”[13]. Per quanto riguarda internet, gli hub sono noti e i risultati della teoria delle reti suggeriscono di porre particolare attenzione a tali nodi, magari dotando la rete di strutture ridondanti che possano sostituirli in caso di attacco da parte di hacker. E nel caso delle reti sociali quali lezioni possiamo trarre dalla teoria delle reti?

Un’altra grande metafora dei sistemi complessi è l’effetto farfalla: il battito delle ali di una farfalla può provocare un uragano dall’altra parte del mondo. Anche questa metafora ci parla delle interconnessioni che esistono nei sistemi complessi e della estrema sensibilità delle dinamiche di questi sistemi alle condizioni iniziali. Non considerando le esagerazioni e distorsioni cui spesso le metafore si prestano, per loro natura le metafore sono ambivalenti e sono soggette a molteplici letture o quantomeno possono essere lette da diverse prospettive. Se da un lato la metafora non tiene conto che le farfalle non sono tutte uguali, una lettura più ampia porterebbe a considerare cosa accade alle farfalle investite dall’uragano originato dalla prima. Anche qui come per le reti, la lezione principale della metafora è l’imprevedibilità dei sistemi complessi, in altre parole che “non sappiamo praticamente nulla e ciò che sappiamo è preoccupante”, ma una lettura più comoda è che le dinamiche catastrofiche dei sistemi complessi sono una proprietà dei sistemi e noi non possiamo ritenerci responsabili.

La rete è interconnessa e realmente non possiamo immaginare che l’azione di un nodo non si riverberi lungo i nodi circostanti per arrivare ai nodi più lontani, ma se parliamo di reti sociali allora dobbiamo considerare fattori chiave che assumono particolare rilevanza negli esseri umani: la coscienza di sé e la volontà dei nodi. Sono fattori cui gli umani non possono e non devono rinunciare, salvo abdicare dalla loro natura eppure accade spesso che nelle reti sociali il nodo non è consapevole se la sua azione abbia avuto un effetto o di che entità esso sia, non ha un riscontro della sua volontà di agire. L’azione del nodo può essere stata decisiva per il sistema ma il nodo può non averne cognizione. Inoltre, la sostituibilità e la ridondanza sono concetti che mal si conciliano con gli esseri umani se intesi in termini kantiani, come un fine e non come un mezzo. Nelle reti sociali i nodi sono soggetti desideranti, dotati di una volontà e di un progetto, sentono, consapevolmente o meno, che la loro storia è una sola, unica e irreversibile. Sta qui il senso dell’impotenza del soggetto nei sistemi complessi. Le sue azioni possono perdersi oppure amplificarsi, in ogni modo il singolo soggetto non ha certezza dell’esito del suo agire. In questo sostrato di frustrazione si origina una condizione di angoscia che può sfociare anche in azioni estreme di cui il soggetto conserva la responsabilità e tuttavia, proprio in virtù della declamata interconnessione dei sistemi complessi, non sono privi di responsabilità neanche i nodi che lo circondano e che lasciano crescere uno stato di impotenza che sta all’origine della rottura del sistema.

L’angoscia è una emozione negativa caratterizzata dalla percezione di pericoli imminenti o remoti nei confronti dei quali si avverte dolorosamente la propria impotenza (Freud). Søren Kierkegaard e più tardi Heidegger, diedero un quadro più ampio all’angoscia, un quadro esistenziale. Kierkegaard identificò nell'angoscia la condizione dell'essenza umana messa di fronte alla scelta. Data la libertà dell’essere umano, ogni scelta porta con sé un carico di angoscia determinato dalla consapevolezza dell’abbandono delle altre possibilità. L'angoscia è il contraltare della irrinunciabile possibilità di scelta, subentra quando si scopre che tutto è possibile. «L'angoscia è la vertigine della libertà», diceva il filosofo nel 1844[14]. Per Kierkegaard l’angoscia era il fondamento inalienabile della natura umana alla quale solo la fede in qualcosa di immensamente positivo poteva dare sollievo. Attraverso la fede l’uomo riconoscerebbe la sua insufficienza e non la vivrebbe come un peso ma come l'effetto di dipendenza da Dio. Non entro nel merito di questa convinzione, è un discorso complicato, dico soltanto che non mi sembra del tutto peregrina una lettura rovesciata della fede in un essere immensamente positivo. Una sorta di delega per qualità che auspichiamo ma che non siamo in grado di raggiungere, insomma una deresponsabilizzazione che sposta altrove ciò che è desiderabile qui e adesso. Questa lettura 'rovesciata' mi sembra difficilmente applicabile se dalla fede in Dio il discorso si sposta nella fiducia nell’altro, riconoscendo nell’altro il fondamento minimo comune. In altre parole sforzandosi di trovare gli elementi che costituiscono le basi di una esperienza comune. Un impegno sempre in corso d’opera e che non ha mai fine.

L’individuo[15], il nodo della rete, immerso in una società sempre più complessa è frustrato, impotente perché vede inibite le sue possibilità di azione. Le sue azioni si diluiscono nel mare magnum del sistema. L’ambientalismo ha mostrato che l’uomo è parte del tutto ma, nonostante i meriti di questo pensiero, non si è saputo intervenire sul ‘punto debole’ di questa necessaria e inevitabile consapevolezza dell'interdipendenza, quello della dimensione individuale, la grana fine della società, come la chiama Paolo degli Espinosa[16]. L’individuo immerso nel tutto, senza gli opportuni strumenti, si sente incapace di agire. Ci troviamo di fronte all’apparente paradosso di un soggetto che è più impotente in un sistema altamente interconnesso di quanto non lo sia in un sistema con meno connessioni. Le opportunità di trovare una posizione nella società per qualche nodo aumentano, ma la precisa percezione della ridotta possibilità di intervento sul sistema lo frustra, lo rende emotivamente depresso. Come unica via di uscita può comprare oggetti e mangiare cioccolata, che tuttavia non lo soddisferanno. Non ha altre alternative. La quota di partecipazione ‘più facile’ al gioco collettivo è quella dei consumi. La partecipazione politica, nel senso più ampio del termine, era ed è più difficilmente raggiungibile. Questa difficoltà si fa ancora più spiazzante in un contesto culturale che celebra la complessità e l'interdipendenza a parole ma poi la tradisce nei fatti. Bene o male la politica è sempre stato lo spazio delle cosiddette élite, gli hub nella metafora della rete, ma la democrazia (che non è mero esercizio del voto) deve far sì che le élite circolino e che i cittadini siano il motore di questo movimento[17]. Come invece vadano le cose in realtà lo vediamo tutti.

Quale è la causa della diffusa depressione, neanche tanto latente, che serpeggia nella società abitate da individui che (ri)muovono i propri desideri più intimi nel pozzo senza fondo di consumi ipertrofici? È la mancata corrispondenza tra linguaggio interno ed esterno, tra aspettative/desideri e contesto reale. La vistosa incoerenza tra ciò che viene insegnato negli ambiti formali o tradizionali (scuola, famiglia, università) e quello che poi effettivamente ci si trova ad affrontare una volta che dobbiamo confrontarci con il cosiddetto mondo reale (come se l’altro mondo, quello che ci avrebbe formati, fosse una parentesi della fantasia), con le menate sulla ‘competitività’ e altre chimere mitologiche che ormai hanno acquisito uno statuto ontologico più che concreto. La causa dell’angoscia è la distanza tra la volontà di agire dei soggetti, le loro aspettative emotive, le loro esigenze di progetto e le reali possibilità di intervento nel contesto sociale.

Nel suo poderoso trattato Martha Nussbaum[18] ha indagato il contenuto cognitivo delle emozioni ponendole a fondamento di una teoria etica neostoica. Lungi dall'essere un residuo del nostro cervello più antico le emozioni sono moti cognitivi profondi che stanno al centro della vita individuale e sociale, che ci in-formano di quanto ci circonda e costruiscono la nostra personalità. Il libro è complesso, come l’argomento del resto, ma è uno di quei libri che si gustano pagina dopo pagina, riga dopo riga e quasi si vorrebbe che non finissero. Secondo la Nussbaum “la salute cognitiva implica la credenza che le nostre azioni volontarie produrranno una differenza significativa relativamente ai nostri progetti e scopi più importanti”[19]. In una sezione del libro la Nussbaum considera diversi esperimenti di psicologia cognitiva. Uno in particolare condotto da Martin Seligman mi ha colpito, un esperimento eticamente discutibile ma sicuramente illuminante. Un cane viene posto in una gabbia divisa in due da una barriera, poco dopo un segnale luminoso nella parte della gabbia dove sta il cane viene prodotto uno shock. Il cane può sfuggire allo shock saltando la barriera e apprende in fretta a saltare la barriera all’apparire del segnale luminoso, prima dello shock. L’esperimento prosegue con una serie di cani cui è resa impossibile la fuga perché legati in qualche modo. Dopo un certo periodo in questa condizione di impotenza si dà ai cani la stessa opportunità di apprendimento e di fuga descritta prima eppure questi cani non salteranno, resteranno immobili esponendosi al dolore. “Questo perché hanno appreso che la reazione volontaria non ha esiti positivi. E’ solo quando, con molti sforzi, i ricercatori ripetutamente portano i cani di peso al di là della barriera, mostrando loro in questa laboriosa maniera che la fuga è possibile, che essi ricominciano a imparare a intraprendere da soli la fuga”[20]. Credo sia molto importante riflettere su questi risultati.

All’alba di questa nostra società complessa i nodi più deboli (secondo quanto detto, quelli caratterizzati da pochi legami) si univano tra loro perché “l’unione di mille o diecimila debolezze realizzata con qualche forma di associazione poteva dar luogo ad un soggetto collettivo in grado di opporsi con efficacia al potere” dei più forti[21], gli hub della rete. In qualche modo l’associazione tra le persone oltre a rafforzare le loro richieste sanciva la loro reciproca dipendenza[22]. Oggi il 'senso comune' conduce altrove, la dipendenza dall’altro viene vista come una forma di debolezza da scongiurare, l’indipendenza è una manifestazione di forza e coraggio, quando in realtà non è che la faccia più insidiosa dell’angoscia, quella che ci rende incapaci di riconoscere la nostra vulnerabilità e di agire per limitarla[23]. A questa situazione fanno da contraltare le istanze comunitariste altrettanto deleterie, una sorta di reazione uguale e contraria alla frantumazione. Questa visione rivendica identità basate sulla tradizione e su un concetto di comunità che è lontano da quello di società e tanto più da una società complessa. Una società come quella occidentale, che si fonda sui diritti dell’individuo, ovvero su un individualismo ‘adulto’ che non sia risultato di complessi di onnipotenza infantili irrisolti, deve garantire ‘vie di fuga’ dal comunitarismo. L’individuo ha esigenze di partecipazione al gioco collettivo, consapevolmente e liberamente si unisce agli altri, ma altrettanto legittimamente ha esigenze di autonomia e di fuga dal gioco collettivo[24], consapevolmente e liberamente sceglie per sé ciò che concretamente non danneggia l’altro. Una società autenticamente democratica deve garantire l’una e l’altra esigenza dell’individuo. La complessità è molteplicità irrinunciabile, è una sfida che va raccolta, ma stando attenti alle insidie, soprattutto a quelle determinate dalla sua scarsa comprensione o dal suo uso 'strategico'. Altrimenti rischiamo di vivere in società complesse (o forse a questo punto è meglio dire comunità), connesse da reti intricate e abitate da soggetti angosciati dalla loro impotenza[25, 26]. Non è un bel risultato!


[1] F. Capra. La rete della vita. Una nuova visione della natura e della scienza. R.C.S., 1997.
[2] G. Sartori. Homo videns. Televisione e post-pensiero. Laterza, 2006.
[3] U. Eco. L’albero e il labirinto. Studi storici sul segno e l’interpretazione. Bompiani, 2007, p. 70.
[4] M. Buchanan. Nexus. Perché la natura, la società, l'economia, la comunicazione funzionano allo stesso modo. Mondadori, 2003.
[5] Ivi, p. 171.
[6] Ivi, p. 153.
[7] Leggi Sei gradi di separazione su
wikipedia. Milgram fu uno straordinario ideatore di esperimenti per studiare il comportamento sociale. Quelli a mio avviso più sorprendenti (e desolanti per i risultati ottenuti) sono descritti in S. Milgram. Obbedienza all'autorità. Uno sguardo sperimentale. Einaudi, 2003. Qualcosa si può leggere anche in rete su wikipedia.
[8] Leggi Teoria del mondo piccolo su
wikipedia.
[9] D.J. Watts, S.H. Strogatz. Collective dynamics of 'small-world' networks.
Nature. 393, 1998, pp. 440-442.
[10] M. Granovetter. The strength of weak ties: a network theory revisited.
Sociological Theory. 1, 1983, pp. 201-233.
[11] Buchanan, op. cit., p. 183.
[12] Ivi, p. 184.
[13] Ibidem.
[14] S. Kierkegaard. Il concetto dell’angoscia. SE, 2007.
[15] Quando uso questo termine ho in mente il concetto di individuo che si è sviluppato nella parte di mondo che chiamiamo occidentale, portatore di un’istanza di autonomia inalienabile. Ho in mente l’individuo nato dalla rivoluzione francese, quell’individuo che terrorizza tanto
Benedetto XVI. Il pontefice, confuso tra la Rivoluzione e la degenerazione del Terrore, non va per il sottile, prende tutto e butta via!. Liberissimo di farlo, anche noi di formazione laica ci soffermiamo spesso sulla degenerazione del messaggio cristiano, chi poi abbia più cose da dire lascio decidere al lettore.
[16] P. degli Espinosa. Individuo socializzante, civilizzazione dello sviluppo. Un progetto sostenibile per la fase post-industriale. éupolis, Allegato al n. 42, 2006.
[17] E. Scalfari. Élite e democrazia.
L’Espresso, 23/07/2009.
[18] M.C. Nussbaum. L’intelligenza delle emozioni. il Mulino, 2004.
[19] Ivi, p. 22.
[20] Ivi, p. 132.
[21] L. Gallino. Contratti, tanto vale abolire il sindacato.
La Repubblica, 10/06/2008.
[22] Tornando brevemente al regno animale non umano, mi pare interessante questo articolo pubblicato sul sito de
Le Scienze. Ma attenzione alle letture insidiose dei risultati di questi esperimenti. Il trasferimento tout court di questi risultati alle comunità umane si presta a derive comunitariste. Non è un gran risultato, una volta presi dalla corrente si torna impotenti come prima!
[23] A. Phillips, B. Taylor. Elogio della gentilezza. Ponte alle grazie. 2009.
[24] H. Laborit. Elogio della fuga. Mondadori, 1982.
[25] S. Freud. Il disagio della civiltà. Bollati Boringhieri, 1985.
[26] Z. Bauman. La società sotto assedio. Laterza, 2002.

martedì 4 agosto 2009

...e cammina cammina

La rete è straordinaria, in questa gigantesca biblioteca ho trovato una vecchia canzone che ascoltavo quando avevo 7 anni e che non ascoltavo più da tanto tempo, era la sigla di Mazzabubù, un programma di varietà molto divertente che guardavo la sera prima di andare a letto. Allora le trasmissioni cominciavano presto, condizione perché le potessero vedere i bambini di allora, e non erano interrotte dalla pubblicità, condizione perché i bambini non diventassero imbecilli. Non era come adesso che le trasmissioni cominciano tardi, la maggior parte è meglio non vederle e poi interrompono continuamente la pubblicità!

Fin da quando ero bambino Gabriella Ferri mi ha sempre attratto, c’era in lei uno straziante miscuglio di tristezza e allegria che allora non sapevo capire, eppure mi affascinava. C'era qualcosa di familiare nel suo sguardo. Forse quel fascino è cominciato quando mia madre salutò una sua amica dicendole che si sarebbero viste presto e lei le rispose con gli occhi che non sarebbe accaduto. Non si sarebbero mai più riviste. Quel giorno aveva fatto visita a mia madre per dirle con uno sguardo che non si sarebbero più riviste.
La ricordo appena la signora S., aveva lo stesso sguardo di Gabriella Ferri, gli stessi occhi che parlavano e non c'erano orecchie che potessero ascoltare quelle parole.
Era il tempo delle scuole materne. Lei non era la mia maestra, stava in un'altra classe ma le classi non erano molte, forse solo due o tre, e ad ora di pranzo le maestre ci portavano tutti quanti in una stanza più grande a mangiare. Ricordo che di tanto in tanto c'era una minestra che proprio non mi piaceva per via delle bucce di pomodoro, quelle cose rosse che galleggiavano nella minestra mi facevano impressione. Lei, la signora S. mi esortava a finire la minestra sorridendo. Sono passati tanti anni da allora, adesso non ho più problemi con le bucce di pomodoro nella minestra.
La ricordo appena la signora S.


Ogni suicidio, per quanto lontano nel tempo, nello spazio, è un macigno per chi resta, è quella lacerazione di cui parlavo nel precedente post tra il tempo dentro di noi e quello fuori di noi. Forse è la lacerazione più acuta che possa capitare di vivere a chi resta, una lacerazione che si cronicizza e ci lascia attoniti a fissare per anni quelle lancette ferme che non possono muoversi più.

"Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto - se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia nove o dodici categorie - viene dopo. Questi sono giuochi: prima bisogna rispondere.", così comincia Il mito di Sisifo di Albert Camus.

Quel libro 'assurdo' e straordinario finisce con "Lascio Sisifo ai piedi della Montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch'egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice."

domenica 2 agosto 2009

Il tempo a volte si ferma


e non ci sono gran cose che si possano fare per spostare quelle lancette ferme.

***

Il tempo fugge, diciamo da qualche millennio, ma forse il vero problema è che, di tanto in tanto, il tempo si inceppa, almeno il nostro tempo, quello interiore, ed è così che non riusciamo più a situarci nell'abisso che si apre tra un tempo immobile e un tempo che, ignorandoci, continua a camminare.

Le imprese umane, l'arte, la scienza ci direbbero che il più grande sforzo dell'umanità sia fermare in qualche modo il tempo che fugge, consegnare all'opera sé stessi perché questa doni l'immortalità. Eppure a volte mi pare di scorgere chiaramente qualcosa di completamente diverso, di opposto. Nelle grandi religioni, nei maestri del pensiero politico, io vedo il disperato tentativo di far muovere delle lancette ferme, di disincagliare un tempo che di tanto in tanto si inceppa. A muovere quelle lancette ferme sarà allora un disegno di salvezza che pure ignoriamo, o le gran cose di un Principe o di uno Stato assoluto, oppure la Dialettica e l'avvento dell'uomo nuovo o delle masse proletarie.
Così la Storia cammina anche se le storie si fermano.

Un tentativo disperato e inevitabile, altrimenti l'abisso ci inghiottirebbe. Forse un tempo, prima che la Storia cominciasse, sapevamo guardare in quell'abisso, ma oggi non ne siamo più capaci.

sabato 1 agosto 2009

Fieri di essere italiani?

A proposito delle conseguenze della cosiddetta politica di respingimento dei barconi zeppi di disperati in fuga, il governo italiano risponde alle denuncie che vengono da più parti pretendendo delle scuse, perchè si tratterebbe di accuse «avventate, false, demagogiche, offensive e ripugnanti».

La proiezione è un classico meccanismo di difesa, si tratta di un processo piuttosto primitivo molto noto nella pratica psicanalitica. Attraverso la proiezione il soggetto espelle da sé e localizza nell'altro (persona o cosa che sia), sentimenti, desideri o qualità che sono suoi ma che egli non riconosce o rifiuta in sé. È una difesa in azione soprattutto in soggetti paranoidi o fobici, ma trova agevole spazio anche nel pensiero cosiddetto normale.

Chissà se l'identificazione proiettiva vale anche per l'uso (o l'abuso) degli aggettivi? Alcuni aggettivi si chiamano 'qualificativi' proprio perchè indicano una qualità! Quindi, ad essere rigorosi, non è da escludere che nella pretesa di scuse del governo italiano nei confronti delle organizzazioni internazionali stia operando qualche processo proiettivo.

***

Parlare di vincoli al movimento di capitali oggi suonerebbe come una assurdità, e forse lo è. In un mondo che si dice globalizzato invece non sembra altrettanto assurdo porre vincoli al movimento delle persone.
Desidero la globalizzazione degli uomini cui faccia seguito quella economica, non il rovescio. Ma io non sono un'economista e certe dinamiche non le posso capire, per fortuna!