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martedì 14 aprile 2009

Bolle d'aria e terra che trema

Bolle d'aria microscopiche, silenziosamente si formano, silenziosamente si muovono, non sai di averle. Si accumulano e si spostano, si uniscono e seguono la via verso l'alto. Tentano di uscire ma non possono, cercano un varco nello spazio tra una cellula e l'altra fino a quando le cellule cedono il passo a quelle piccolissime bolle d'aria che portano il vento di un uragano. Si fanno spazio, non hanno più ostacoli e tu, di dimensioni enormi davanti a quelle insignificanti bollicine, smetti di respirare. Non puoi più muovere un muscolo e pensi che un dio maligno abbia deciso di farti visita. Una di quelle cose improvvise, inattese, un ospite prepotente, lo chiamano pneumotorace, la parola ha un suono sinistro, evoca qualche terribile dio greco, più temibile del ridicolo nomignolo PNX che in ospedale gli danno i medici.
Gli dèi maligni non sono facili da riconoscere, hanno diversa provenienza ma le loro intenzioni non differiscono, non dal nostro punto di vista così umanamente limitato. Altri inattesi dèi potrebbero confondersi con il tuo ospite. Una antica divinità latina, l'ictus che ama ignobili sacrifici umani potrebbe meschinamente camuffarsi con gli abiti della divinità che ha deciso di visitarti, ma questa volta non era lui, non questa volta.
Adesso tutto bene, in attesa della prossima divinità che vorrà fare visita!

Mentre le mie piccole bollicine gorgogliavano in una vaschetta piena d'acqua la terra tremava a L'Aquila, le case crollavano, la gente moriva. Una tragedia che ha dato avvio tanto alla solidarietà che unisce gli umani quanto all'indecenza che altrettanto li distingue. Mentre i pornografi del dolore, fastidiosi come uno sciame di vespe, si sfogavano su quelle macerie e sulla gente che ne usciva, il sospetto che le case fossero fatte di sabbia non doveva sfiorare nessuno. Le voci sospettose fanno urlare "Noi siamo gente per bene, andiamo a messa e piangiamo in pubblico, il terremoto non può essere previsto e non abbiamo responsabilità, di case costruite con appalti di quarta mano non vogliamo nemmeno sentirne parlare. Noi abbiamo liberato il mercato da lacci e lacciuoli che ne impedivano il progressivo corso, non possiamo essere confusi per quelli che si sono macchiati di tali crimini. Tutti possono sentire le nostre invocazioni per le nuove regole del mercato, e poi questo non è il momento delle polemiche..."

Non sono mai mancati i Pangloss, nè gli sciacalli come il marinaio, al tempo di Voltaire come ai nostri giorni. Gli sciacalli possono essere utili, distraggono lo sguardo dalle iene ridens in doppiopetto!

Voltaire, Candido ovvero l'ottimismo (Cap. V, Il terremoto di Lisbona e il migliore dei mondi possibili)

La metà dei passeggeri, indeboliti, stremati dalle inconcepibili angosce che il rullio d'un bastimento produce nei nervi e in tutti gli umori del corpo agitati in sensi contrari, non aveva nemmeno la forza di preoccuparsi del pericolo. L'altra metà strillava e pregava; le vele erano strappate, gli alberi spezzati, il bastimento squarciato. Lavorava chi poteva, nessuno s'intendeva, nessuno comandava. L'anabattista aiutava un po' alla manovra; era sulla tolda; un marinaio furioso lo colpisce rudemente e lo stende sull'assito; ma dal colpo che gli diede ricevette lui stesso una scossa così violenta che cadde fuori del bastimento a capofitto. Restava sospeso e aggrappato a un troncone dell'albero. Il buon Giacomo accorre in suo soccorso, l'aiuta a risalire e per lo sforzo che fece è precipitato in mare sotto gli occhi del marinaio, che lo lasciò perire senza degnarlo nemmeno di uno sguardo. Candido s'avvicina, scorge il suo benefattore che riappare un momento e che è inghiottito per sempre. Vuol gettarglisi dietro in mare; il filosofo Pangloss glielo impedisce, dimostrandogli che la rada di Lisbona era stata creata apposta perché quell'anabattista vi si annegasse. Mentr'egli lo dimostra a priori, il bastimento si squarcia, tutti periscono salvo Pangloss, Candido e quel brutale marinaio che aveva annegato il virtuoso anabattista; il briccone nuotò felicemente fino a riva, dove Pangloss e Candido furono portati sopra un asse.
Quando si furono un po' ripresi, s'incamminarono verso Lisbona; restava loro un po' di denaro, col quale speravano salvarsi dalla fame dopo essere scampati alla tempesta.
Hanno appena messo piede in città, piangendo la morte del loro benefattore, ecco che la terra trema sotto i loro piedi; il mare si gonfia spumeggiando nel porto, e spezza le navi ancorate. Turbini di fiamme e cenere coprono strade e pubbliche piazze; crollano le case, i tetti si rovesciano sulle fondamenta, le fondamenta scompaiono; trentamila abitanti di ogni età e sesso son schiacciati sotto le macerie. Il marinaio diceva fischiando e bestemmiando:
“Ci sarà da guadagnare qualche cosa, qui”.
“Quale sarà la ragion sufficiente di questo fenomeno?” diceva Pangloss.
“Ecco la fine del mondo!” esclamava Candido.
Il marinaio corre immediatamente in mezzo alle macerie, sfida la morte per cercar denaro, ne trova, se ne impossessa, s'ubriaca, e, dopo aver smaltito la sbornia, compera i favori della prima ragazza di buona volontà che incontra sulle ruine delle case distrutte, in mezzo a morti e moribondi. Frattanto Pangloss lo tirava per la manica.
“Amico,” gli diceva “non sta bene, vieni meno alla ragione universale, scegli male il momento”.
“Testa e sangue,” rispose l'altro “son marinaio, nato a Batavia; quattro volte ho calpestato il crocifisso in quattro viaggi al Giappone, sei cascato bene con la tua ragione universale!”.
Alcune schegge di pietra avevan ferito Candido; era steso sulla strada, e coperto di macerie. Diceva a Pangloss:
“Ahimè! procuratemi un po' di vino e d'olio; muoio”.
“Questo terremoto non è cosa nuova,” rispose Pangloss: “la città di Lima provò le stesse scosse in America l'anno scorso; identiche cause, identici effetti: certamente c'è una striscia di zolfo sottoterra da Lima a Lisbona”.
“Non c'è nulla di piú probabile”, disse Candido; “ma, per Dio, un po' d'olio e di vino”.
“Come, probabile?” ribatté il filosofo “sostengo che la cosa è dimostrata”.
Candido svenne, e Pangloss gli portò un po' d'acqua dalla vicina fontana.
Il giorno dopo ripararono un poco le forze con qualche provvista da bocca trovata strisciando fra le macerie. Poi si misero a lavorare come gli altri per soccorrere gli abitanti sfuggiti alla morte. Alcuni cittadini soccorsi da loro gli offrirono il miglior pasto che fosse possibile in quel disastro. È vero che il pasto era triste; i convitati innaffiavano il loro pane con le lagrime; ma Pangloss li consolò accertandoli che le cose non potevano andare altrimenti.
“Poiché” diceva “queste cose sono per il meglio. Poiché, se c'è un vulcano a Lisbona, non può essere altrove. Poiché è impossibile che le cose non siano dove sono. Poiché tutto va bene”.
Un ometto nero, familiare dell'Inquisizione, che gli stava accanto, prese educatamente la parola e gli disse:
“Si direbbe che il signore non crede al peccato originale; poiché, se tutto va per il meglio, non c'è dunque stata né caduta né castigo”.
“Domando umilissimamente perdono all'Eccellenza Vostra” rispose Pangloss ancora piú educatamente “perché la caduta dell'uomo e la maledizione entravano necessariamente nel migliore dei mondi possibili”.
“Il signore non crede dunque alla libertà?” disse il familiare.
“Vostra Eccellenza mi scuserà” disse Pangloss “la libertà può sssistere insieme con la necessità assoluta; poichè era necessario che noi fossimo liberi; poichè infine la volontà determinata...”
Pangloss era a mezzo della frase, quando il familiare fece un cenno col capo allo staffiere che gli serviva da bere vino di Porto, o d'Oporto.

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