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giovedì 22 dicembre 2022

L'attesa


Quando sono in stazione guardo le persone. Le mie partenze sono solitamente di buon mattino e da uomo del sud che ha impresso nella sua storia viaggi di necessità arrivo in stazione sempre con largo anticipo per l'atavico timore di perdere l'occasione di partire.

L'attesa non è mai noiosa, può essere triste, esaltante, mai noiosa. Osservo i volti delle persone, facce già stanche per le poche ore di sonno, oppure eccitate e ansiose di raggiungere la meta, sognanti dei giorni a venire per i prossimi ritorni o per le partenze. Immagino le loro vite, invento le loro storie.

Questa volta no, le persone non hanno attirato la mia attenzione. È stato un giovane gabbiano a farlo, l'età rivelata dal piumaggio ancora scuro. Il gabbiano volava a pochi centimetri dal soffitto di quello che a Roma chiamano salone gommato, alla stazione Termini. Volava avanti e indietro lungo il salone in cerca di una via d'uscita, il volo singhiozzante dei colpi che a intervalli irregolari dava con il dorso al soffitto, nell'inutile tentativo di svellerlo. Forse era stanco per quel volo incessante, sicuramente stordito dalle luci della pubblicità, respinto da queste in prossimità delle vie di uscita che non riusciva a vedere alle estremità del salone. L'ho guardato a lungo nel suo triste volo ma forse alla sua disperazione non era concesso neanche il privilegio della tristezza. Il suo volo si consumava nell'immediatezza di quello che, non so se per scienza o altro, chiamiamo istinto, senza possibilità di sublimazioni che non fossero il suo stesso muscolare battito d'ali.

Penso a quell'albatros reso celebre da Baudelaire, a quanto fosse in fondo più felice del mio gabbiano nella sua tristezza, così profondamente sentita, così pura e spirituale di fronte alla carnale disperazione del mio giovane gabbiano.

L'ho lasciato al suo volo per fare pochi passi lungo la vetrina della libreria già aperta, la partenza è a breve, non posso permettermi di entrare, il tempo subirebbe imprevedibili distorsioni. 

Al ritorno nel salone non ho più visto il gabbiano, forse è riuscito a volare via dalla trappola, forse vinto dalla stanchezza si è posato a terra tra la gente avvolta in una tiepida indifferenza che frettolosamente trascina bagagli e neanche lo vede, oppure lo considera un ostacolo sul percorso e lo scaccia via con una pedata. Quanto diversi da quei marinai che irridevano il principe delle nubi.

sabato 10 dicembre 2022

Umana mimesis




Tra divertissement e impegno sociale, intima confessio e suggestione letteraria, il Nobile di Montepulciano incontra la Divina mimesis di Pasolini e viene fuori un delirio di appunti tra una tappa e l'altra nelle valli senesi per una umana mimesis da scrivere chissà quando.

***

Tre fiere incontrai alla porta della selva oscura, la lonza che ruggiva, la porchetta che grugniva, il prosciutto che languiva. Dell'ultima fiera cinta era la forma, affettati i suoi modi, mi circuiva di sapori e profumi ingannando i miei sensi. Assiso sul trono di catrame il mostro di goretex pesava le anime sintetiche da quelle di carne e piscio. Giunse il maestro della partita doppia a salvarmi dal tristo giudice per condurmi nel regno dei consumatori fino alla discesa dello spirto di Madonna della joint venture per farmi assurgere nell'alte sfere del cielo. Lasciavo al mio passaggio un filo di nylon per ritrovare la via. Nel girone dei socievoli i dannati avevano gli occhi fissi sulla mano che stringeva un oggetto assente, con l'altra picchettavano ossessivamente con l'indice che di tanto in tanto facevano scorrere come per voltare pagina ad un libro che non c'era. Uscimmo da quel girone di sventurati e io mi riconobbi infine in un vento di gas naturale...

...m'addentrai poi nella valle fumante dove indicava il duce mio le ardenti querce di antocianico furore e getti verdi di gas rappreso in fiamme di cipressi. Nella stagione della caduta percorremmo il cammino lastricato di foglie dov'erano incise le brame, nell'antica casa dalle alte mura la pena da scontare era un tetto che crolla continuamente insieme ad acqua lustrale a dire che non abbiamo altra copertura del cielo, piangente sulle nostre teste. I colli intorno si piegavano l'uno sull'altro come risvolti di una giacca abbottonata d'alberi, il bavero alzato bastava a fermare il vento sul collo e farci sapere che la felicità non è un peccato. Entrammo nelle stanze reliquiarie, dove le ossa, orrida presenza, reclamavano la loro corporea sostanza e lo spirito indietreggiava, tutto tremante, nella sua consueta immortalità.

lunedì 5 dicembre 2022

Archetipi

 



La pioggia dell'altro ieri notte ha riempito la ora*, non completamente ma abbastanza per risvegliare l'appetito della nostra Cariddi, creatura primordiale, gorgonica bellezza di una terra che apre le sue fauci e divora le acque che mamma bambina rivestiva della meraviglia di chi si risveglia con un lago ai suoi piedi e una tavola legata a riva bastava per farne una barca. Si rideva in famiglia pochi anni fa della tragedia sfiorata per salvare una capra tra le urla di chi la voleva salva e le bestemmie di chi per salvarla stava per annegare.
La ora è l'anima primordiale del mio paese, limo di fertilità dopo aver sommerso tutto. Oggi mostra la nostra vergogna, come una madre che rimprovera i figli in piazza, così dopo la pioggia forte la ora raccoglie carcasse di frigoriferi, lavatrici e spazzatura di ogni sorta e la ammucchia davanti alla sua bocca per soffocare la parola, per impedire di urlare ma mostra tutto, chiaramente, anche tacendo lo fa a gran voce, perché tutto si veda e tutti ne proviamo vergogna, quel poco che ne resta.
Faceva paura la ora, nell'età innocente si cresceva con le raccomandazioni di starne lontani, garanzia di un bisogno di guardare dentro l'abisso. Solo l'innocenza poteva smettere l'abito della paura e indossare quello della gioia quando la valle si colmava d'acqua. Lo spettacolo sarebbe durato poco tempo, qualche giorno, forse ore e la ora avrebbe inghiottito tutto. L'abito della paura e quello della gioia, non erano forse i due risvolti dello stesso abito dell'innocenza?
Non fa più paura la ora, il mostro primordiale non è più l'archetipo dell'oltre confine. Non fa più paura la sua bocca rifatta, come in quegli interventi estetici per rifare le labbra a vecchie signore che rivogliono indietro gli anni buttati via insieme ai calendari. Ai confini del paese oggi c'è solo un fenomeno carsico. Regimentato!

Il vecchio mostro vive nella memoria dei suoi ultimi figli. Quei figli cui manca la paura contadina della ora, faccia triste del rispetto, manca la tremenda bellezza del suo ignoto tortuoso dedalo sotterraneo, spaventoso a immaginarsi, spaventoso perché solo immaginato, manca l'innocenza nuda che sapeva cambiarsi d'abito di buon mattino, dopo una notte di pioggia battente.

* Ora... vora... voragine.

venerdì 2 dicembre 2022

Senza titolo


Seguivo il corso d'acqua che sapevo di lontana sorgente,
lo seguivo con il fiuto del cane randagio
e l'istinto selvatico del tempo.
Guardavo quello specchio d'acqua
alla luce di una luna macellata
Sapevo d'esser nato con lei,
scorrevo, si può dire, nelle sue vene.
Non è stato facile seguirla quando si faceva sotterranea,
sentivo il suo corso con i sensi tesi,
corpo e orecchio a terra per ascoltare le vibrazioni del mio sangue
e scorgere lontano il punto esatto della nuova risalita.
Ho imparato a non perdere di vista le sue anse tortuose,
come abbracci tra stagioni di magra e piene impetuose.
Un giorno qualunque la corsa si è fatta affannosa,
da vicino un giorno come tanti, tagliente come pochi da lontano
un giorno che decide il prima e il dopo,
una lama che recide la vita dalla morte.
...
L'acqua s'è inselvata,
l'ho persa e l'ho ritrovata
e poi ancora persa.
Nell'ora rapace del tramonto l'acqua è scomparsa,
ovunque volgo lo sguardo è un rivolo tra foglie macere.
...

La sorgente è lontana.
Basterà metà del sangue  per risalire la corrente?
Una voce nella notte avverte:
sei teca di tempo sommerso,
affiora in superficie tuo malgrado
quando di notte vivi vite lunghe un verso.

E si va a capo
dimenticando di prendere fiato.