Fratello, io sono di una specie estinta,
nelle vene di mio padre scorre linfa di ulivo,
mia madre tesse costellazioni e sentieri di formiche.
Mi chiamarono in questo canto di terra intrecciando parole e fili d'erba,
ghirlande di pomodori acerbi nei giorni d'estate,
riserve d'inverno in bocca e crepitio di legna nel camino.
Fare perle di fango era la mia specialità
per restituirle alla notte quando il cielo si fa scuro,
il passante sulla spiaggia pensò che volessi svuotare il mare,
rise del mio modesto compito e io con lui.
Vedi, io parlo di oggi che non sono,
di domani già stati e di ieri che verranno.
Con il tempo cucio i miei vestiti
che mi tengano caldo quando fa freddo,
di giorno intreccio i fili, la notte li disfo
con le mani di ragno di una lontana parente.
Non ascoltare le mie parole, fratello che non conosco,
sono pronunciate da chi non c'è più,
non sono suoni adatti per l'orecchio,
si mescolano al sangue e scorrono nelle vene.
Quanta crudeltà tocca autoinfliggersi
per uno straccio di storia da negare?
Negli occhi ho il mare per imparare come si annega,
braccioli e salvagente per non dare scandalo,
si annega con vigore nel paese dei sopravvissuti.
Da quando due e due non fa più quattro
fingo di credere nell'aritmetica dei cuori impegnati
ché il lutto è un problema di teologia
e non esserci è inconcepibile per mia madre.
Non parlarmi di elaborazioni rompicapo,
non vado oltre la quarta operazione con i conti dell'anima
e la prova del nove mi tradisce sempre con generosità.
La rabbia divampa in un sorriso a mezza bocca,
sobrio dopo aver scardinato il trono di Dio,
sempre solerte ad augurare a tutti serena sorte
e ai suonatori la buona notte
prima che un abuso di tempo mi riempia gli occhi di sale.